1. *Un metodo all’insegna della polarità. Il volume di Anna Loretoni offre un esempio paradigmatico di come si possa praticare una filosofia politica ispirata da un approccio polare, anziché dicotomico[1] e quanto questa scelta possa essere feconda nel contesto del dibattito su diverse sfide del presente.
Mentre la dicotomia funziona con logica binaria e impone sempre un’alternativa dove tertium non datur, ossia non ammette sfumature o passaggi da una delle due possibilità all’altra, l’opposizione polare consente tra i due estremi sfumature intermedie di passaggio e posizioni “mediane”.
Se l’autrice aveva del resto già offerto buona prova di questa possibilità nei suoi studi sulle forme della guerra giusta, tertium tra prospettive del pacifismo e del realismo politico[2], con quest’opera mostra come un tale approccio possa essere adottato anche con riferimento ai dilemmi che, a partire dal genere, ruotano attorno alla relazione tra differenza ed eguaglianza.
La teoria di genere è assunta da Loretoni come «presupposto metodologico» per affrontare alcune fondamentali categorie della politica: autonomia, cittadinanza, diritti, soggettività e spazio pubblico.
I profili epistemologici del progetto sono accuratamente delineati nel primo capitolo del volume in cui vengono precisati gli strumenti adottati e la molteplicità degli indirizzi da cui essi sono trattati, con la precisa intenzione di non identificarsi in «alcuna etichetta»[3].
L’elaborazione di Loretoni intende collocarsi nel campo di quella che Pierre Bourdieu definisce come «lotta cognitiva sul senso delle cose del mondo e in particolare delle realtà sessuali»[4]. Ciò che infatti determina l’accondiscendenza delle donne al dominio maschile è un processo pervasivo di educazione che ha a lungo comportato una forma di assoggettamento come «abdicazione di ogni volontà»[5], un sistema culturale e simbolico al quale è stato assai (e ancora in parte è) difficile sottrarsi. «La forza dell’ordine che da siffatto dominio deriva si misura in base alla constatazione che esso non deve giustificarsi, proprio perché si impone come neutro, naturale e perciò inevitabile»[6], ossia come specifica modalità di violenza simbolica[7]. Si tratta di una forma di «violenza mite» che si istituisce attraverso l’adesione che chi è dominato non può non accordare al dominante allorché, «per pensare quella relazione, ha a disposizione solo gli strumenti concettuali che ha in comune con lui, cosicché gli schemi per valutare e valutarsi sono l’effetto di quella divisione, gerarchizzazione, classificazione»[8] che produce il prodotto della dominazione.
Per scardinare tale struttura di relazioni – imperniata nella dimensione oscura e impenetrabile degli habitus – Loretoni attinge ad una peculiare concezione del realismo, anche in questo caso ricorrendo, sul piano metodologico, alle potenzialità di un approccio polare che situa tale specifica forma di realismo tra il classico realismo politico e le istanze della critica decostruttiva.
Attingendo in questo caso alla riflessione di Catharine MacKinnon[9], Loretoni differenzia la sua prospettiva dal realismo politico in quanto, pur condividendone la cautela metodologica volta ad una disincantata analisi della realtà e delle sue ambivalenze, non ne condivide il fondamentale discredito nei confronti di ogni ipotesi normativa in grado di modificare la realtà. D’altro canto, l’approccio dell’autrice intende differenziarsi anche dal decostruzionismo, del quale pure ritiene decisiva la forza nel disvelare pregiudizi e occultamenti[10]: il punto di snodo è che la teoria femminista, secondo Loretoni, non può fermarsi all’opera di «decomposizione» del quadro d’insieme, ma da qui deve far muovere la sua «ricomposizione», misurando la sua efficacia nel mettere in atto la trasformazione della realtà.
Quello che ne scaturisce è una forma di realismo forte, un realismo di genere che non teme di misurarsi con le strutture politiche e giuridico-istituzionali, oltre a quelle culturali, economiche e sociali.
Adottando una «visione propulsiva del diritto»[11], Loretoni sviluppa la sua analisi a vari livelli: dallo Stato nazionale – e dalle tensioni insite nella «cittadinanza dimezzata» che lo ha a lungo caratterizzato – la sua riflessione si allarga allo spazio europeo fino ad arrivare al contesto internazionale. Infatti, per «cartografare» «sia le costanti della struttura del dominio, la gerarchia al vertice della quale sta la legge del Padre», che connota il patriarcato, «sia i meccanismi attraverso i quali essa si riproduce in forme inedite», è necessario che l’ambito del pensiero e della proposta femminista si ampli e vada verso le reti globali, transnazionali e sovranazionali, tanto nell’analisi dei problemi quanto nella formulazione delle soluzioni»[12].
Le soluzioni, come si vedrà qui di seguito, si muovono, superando «false separazioni», nella direzione di inedite configurazioni che vengono illustrate, attraverso una ricchissima rete di rimandi, nei diversi capitoli che compongono il libro; esse possono essere descritte con espressioni significative come “individualismo relazionale” (cap. II), “cittadinanza multilevel” (cap. III), “universalismo contestualizzato” (IV), “soggettività plurime e intersezionali” (cap. V).
2. Inedite implicazioni “mediane”. Nel corso del secondo capitolo dell’opera, Loretoni rileva, con dovizia di riferimenti alla letteratura internazionale degli ultimi decenni, come «una delle sfide più interessanti che gli studi di genere hanno posto alla tradizione liberale concerne l’interpretazione di cosa sia l’individuo e di quanto siano rilevanti le relazioni intersoggettive e sociali, tanto nella costituzione dell’identità individuale quanto nel modo di abitare insieme lo spazio pubblico della politica»[13].
Recuperando le elaborazioni di Virginia Held, Axel Honneth, Nancy Fraser, Charles Taylor e Amartya Sen, Loretoni argomenta come sia possibile elaborare un’«interpretazione dell’individuo in chiave relazionale». Tale proposta rappresenta – sempre entro un approccio polare ‒ una possibile «mediana» rispetto a tre approcci: «l’individualismo astratto di origine liberale, che vede nella presenza dell’altro un rischio all’accrescersi della propria autonomia»; «gli eccessi del comunitarismo olistico che rischia di risucchiare quell’esperienza di libertà in un abbraccio mortale»; «l’ipotesi di un soggetto postmoderno che fluttua tra una declinazione e l’altra, alla ricerca della performance linguistica meglio in grado di mostrare l’onnipervasività del potere e del dominio sulle coscienze»[14]. Tale «via mediana» pare essere stata sperimentata proprio dalle donne «che hanno saputo allentare, e in alcuni casi rescindere, i legami con quelle comunità in cui venivano identificate, creando al tempo stesso inediti percorsi individuali, ma anche nuovi legami con comunità elettive»[15].
Ad una siffatta teoria antropologica si connette una peculiare concezione della cura che, sulla scorta delle riflessioni di Eva Kittay e soprattutto di Joan Tronto, viene ri-declinata in senso politico[16]. Si genera così la possibilità di integrare ciò che a lungo è stato separato in guise di coppie contrapposte e antinomiche, secondo la logica di tipo binario dello “stereotipo epistemologico”[17]: cura e giustizia ma anche sensibilità ai contesti e autonomia individuale, nonché, come si vedrà più avanti, particolarismo e universalismo.
Insieme agli studi di genere, le teorie critiche del riconoscimento, l’etica della cura, ma anche gli studi sulla disabilità[18], «aiutano dunque a metterci in guardia da un certo modello di individualismo, che si è rafforzato grazie alla rimozione della relazione di dipendenza e tramite il misconoscimento dei legami che si stabiliscono fra gli esseri umani»[19].
Su tale rimozione si è costruita anche la forma classica della cittadinanza, che Loretoni prende in esame e decostruisce nel corso del terzo capitolo del volume. La prospettiva di genere affrontando il concetto di cittadinanza «ne ha messo in luce il carattere dilemmatico, o aporetico, o ambivalente, mettendo in discussione l’interpretazione perlopiù accreditata, fondata troppo semplicisticamente sull’ipotesi di una progressiva inclusione»[20].
Richiamando le riflessioni critiche di Maria Luisa Boccia, nonché quelle di Carole Pateman e Susan Moller Okin, Loretoni rileva come anche «nel pensiero politico recente la maggior parte delle teorizzazioni continui ad evitare il tema, eminentemente politico, della dimensione dello spazio privato»[21]. Come per il concetto di autonomia individuale, «ragionare nei termini di una compiuta cittadinanza di genere significa riflettere anche sulle forme di dipendenza di cui è piena la vita associata e da cui dipende la vita individuale». Non si può dunque immaginare la cittadinanza come spazio separato da ciò che viene collocato nello spazio impolitico del privato ma come spazio delle connessioni, del riconoscimento anche della cura come dimensione costitutiva. Questioni rimaste a lungo sullo sfondo – come la violenza domestica, le molestie sessuali, le discriminazioni nei luoghi di lavoro – divengono rilevanti entro gli spazi di public reasoning sulla cittadinanza e le sue configurazioni[22] e questo all’interno di una discussione che tende a superare i confini degli stati nazionali per aprirsi alla dimensione europea (si pensi alla Carta di Nizza del 2000 o alla Convenzione di Istanbul del 2011) e globale (a cominciare dalla Conferenza di Pechino del 1995). L’esito è una sorta di “cittadinanza multilevel”, ove spazio privato e spazio pubblico sono strettamente interconnessi come hanno suggerito, in anni recenti, gli approcci ispirati al gender mainstreaming e volti alla piena parità tra donne e uomini[23].
A quest’altezza del ragionamento viene a collocarsi un’altra peculiare forma di mediazione che l’autrice, ricollegandosi alle diverse riflessioni critiche in tema di diritti umani maturate negli ultimi decenni, propone nel corso del quarto capitolo in tema di universalismo. Spingendosi «oltre un universalismo astratto ed etnocentrico», ella approda all’idea di un «universalismo contestualizzato» che si basa su una particolare concezione dei diritti umani: accantonando la tesi di una loro fondazione naturale, essi sono concepiti come «risposta e protezione a ingiustizie, oppressioni, discriminazioni, non solo su base individuale, ma anche collettiva e statuale». Proprio tale caratteristica «fornisce ai diritti umani un’origine di tipo “politico”, universale e insieme negoziabile e contestualizzabile»[24].
Si tratta di una forma di universalismo che assume molteplici declinazioni: esso può essere inteso, con Norberto Bobbio, «come processo»[25]; capace di farsi «plurale», mediante «la lettura incrociata dei contenuti delle diverse culture, analizzate l’una con i concetti dell’altra, come ha spiegato Raimon Panikkar[26]; ancora, di divenire «strategico», nell’accezione di Gayatry Chakravorty Spivak: «se l’universalismo è un saper procedere insieme agli altri che marciano diversamente, senza necessariamente condividere tutto, ogni contesto dovrebbe essere messo in grado di proporre agli altri un proprio discorso sui diritti umani, capace di operare una fertilizzazione cross-cultures»[27].
Alla luce di quanto osservato sin qui, si può addivenire, come è illustrato nel quinto capitolo dell’opera, ad inedite articolazioni anche dello spazio pubblico e delle soggettività che lo abitano. Le lotte delle donne consentono di constatare la funzione produttiva delle rivendicazioni. Il sentimento dell’ingiustizia è infatti in grado di scatenare una dinamica rivendicativa che, attraverso la partecipazione attiva al cambiamento sociale da parte dei gruppi marginalizzati – come ha efficacemente argomentato Iris Marion Young[28] – abilita «a ridefinire i principi consolidati di giustizia e ingiustizia nei contesti specifici, producendo rinnovate forme di titolarità e di cittadinanza capaci di disinnescare i dispositivi escludenti e stigmatizzanti»[29] e, dunque, di ridefinire arendtianamente, all’insegna della pluralità, le dimensioni dello spazio pubblico.
3. Nuove cornici e nuove traiettorie: un «femminismo intersezionale». Il richiamo arendtiano consente a Loretoni di mettere alla prova un’ulteriore pratica all’insegna della polarità. L’interpretazione della politica e dello spazio pubblico offerta dall’autrice di Che cos’è la politica? rivela molti punti di interesse per chi intenda declinare una visione della polis che si affranchi sia dalla conflittualità estrema che nega ogni comunanza tra gli individui, sia dalla più rassicurante interpretazione che allo stare insieme attribuisce un valore, nella misura in cui questo è finalizzato alla creazione di un bene comune in cui tutti e tutte dovrebbero riconoscersi»[30]. L’accento posto da Hannah Arendt e dal femminismo che abbraccia l’idea di un realismo di genere «sul darsi di una pluralità fondata sulla differenza fa scaturire la possibilità per gli esseri umani di vivere uno spazio comune senza addossarsi vicendevolmente, uno spazio in cui l’affermazione della propria libertà non è mai disgiunta dalla presa in carico della presenza degli (e in un certo senso dalla distanza con) gli altri»[31].
La proposta che scaturisce da questo approccio sensibile alla pluralità e alle molteplici forma di differenza è quella di un “femminismo intersezionale”[32]. La sua attenzione si concentra ‒ come ha suggerito per prima un esponente del femminismo nero e della Critical Race Theory come Kimberly Crenshaw[33] ‒ sugli «incroci», sulle «intersezioni fra assi di potere» creati dall’intreccio di elementi come razza, classe, cultura, religione, ecc. Come queste relazioni vengono ad interagire nei diversi contesti e come concorrano a definire la condizione di ineguaglianza, discriminazione, oppressione diviene questione rilevante e decisiva.
Non si tratta, anche in questo caso, di mettere in contrapposizione approcci distinti, come all’interno del binarismo, quanto piuttosto di praticare una «politica dell’attraversamento» che sappia decostruire e rielaborare strategie a più livelli: a partire dalle esperienze specifiche dei diversi contesti sino alla dimensione transnazionale e globale, entro una dimensione di interrelazione e connessione ben rappresentata dal neologismo «intermestic politics» che supera la dicotomia a lungo consolidata tra domestic e international politics[34]. È su questa base che si può definire il compito degli women’s studies nel presente: imbastire una riflessione trasversale, cross-border, «atta a decostruire e smascherare gli impianti dominanti»[35] e a supportare, costruttivamente, una cittadinanza pluralista e democratica, capace di mandare effettivamente in frantumi le antiche cornici, ovvero le strutture del dominio, senza correre il rischio di riprodurle.
* Il testo costituisce la rielaborazione della relazione presentata in occasione della discussione del volume di Anna Loretoni avvenuta, su iniziativa di Giuliana Laschi e con la partecipazione anche di Maria Laura Lanzillo, presso la Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, Forlì Campus, il 7.3.2016.
[1] La distinzione tra un’opposizione dicotomica e un’opposizione polare si deve a Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Bologna, il Mulino, 1968 (esiste ora una seconda edizione con un saggio di Giorgio Agamben, Macerata, Quodlibet, 2004). Per una riproposizione della distinzione si veda Gf. Zanetti, Eguaglianza come prassi. Teoria dell’argomentazione normativa, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 3-4.
[2] Cfr. A. Loretoni, Teorie della pace. Teorie della guerra, Pisa, Ets, 2005.
[3] A. Loretoni, Ampliare lo sguardo. Genere e teoria politica, Roma, Donzelli, 2014, p. VIII.
[4] Cfr. A. Loretoni, Ampliare lo sguardo, cit., p. 3. La citazione è tratta da P. Bourdieu, Il dominio maschile (1998), Milano, Feltrinelli, 1998.
[5] Ivi, p. 23.
[6] Ibid.
[7] Cfr. P. Bourdieu, J.C. Passeron, La riproduzione del sistema scolastico ovvero della conservazione dell’ordine culturale (1970), Rimini, Guaraldi, 1972.
[8] A. Loretoni, Ampliare lo sguardo, cit., p. 24.
[9] Ivi, pp. 20-22.
[10] Cfr. ivi, pp. 3-8.
[11] Ivi, p. 85. Cfr., per una disamina delle potenzialità di tale approccio, pp. 81-89.
[12] Ivi, pp. 97.
[13] Ivi, p. 39.
[14] Ivi, pp. 42-43.
[15] Ivi, p. 43. Sulla nozione di comunità e sulla possibilità di costituire comunità elettive sul piano partecipativo sia consentito rinviare a Th. Casadei, I dilemmi della comunità: intorno al comunitarismo contemporaneo, «La società degli individui», 30, 2007, n. 3, pp. 21-38.
[16] Cfr. A. Loretoni, Ampliare lo sguardo, cit., pp. 54-58. Per un’efficace conferma delle implicazioni politiche della cura si veda, a titolo esemplificativo, J. Tronto, Cura e politica democratica. Alcune premesse fondamentali, «La società degli individui», 38, 2010, n. 2, pp. 34-42. Per un quadro d’insieme delle implicazioni possibili dell’etica della cura si veda il contributo di Alberto Pirni, “Connessioni di destino”. Cura, interdipendenza, convivialismo, «La società degli individui», 58, 2017, pp. 56-70.
[17] Sul punto sia consentito rinviare a Th. Casadei, Giusfemminismo: profili teorici e provvedimenti legislativi, «Notizie di Politeia», XXXII, 2016, n. 124, pp. 32-45, p. 33.
[18] Cfr. A. Loretoni, Ampliare lo sguardo, cit., pp. 52-54.
[19] Ivi, p. 62.
[20] Ivi, p. 75.
[21] Ivi, p. 78.
[22] Cfr. ivi, p. 90.
[23] Cfr. ivi, p. 88.
[24] Ivi, p. 111.
[25] Ivi, pp. 99-103.
[26] Cfr. ivi, p. 117.
[27] Ivi, p. 125.
[28] Cfr. pp. 148-150. Si veda anche A. Loretoni, Cosa c’è di «critico» nella Teoria Critica, «Politica&Società», n. 3, 2015, pp. 371-386; Th. Casadei, Ragionare, vedere, ascoltare. Il paradigma razionalista e la critica sociale, «Filosofia politica», n. 3, 2016, pp. 469-486, in part. pp. 482-485.
[29] A. Loretoni, Ampliare lo sguardo, cit., p. 162.
[30] Ivi, p. 63.
[31] Ibid.
[32] Cfr. pp. 29-38.
[33] Ivi, p. 30. Per un’ottima panoramica sull’approccio intersezionale si veda il fascicolo monografico, a cura di L. Mancini e B.G. Bello, della rivista «Sociologia del diritto», n. 2, 2016 dedicato a L’intersezionalità tra diritto e società. Il fascicolo contiene anche una bella intervista a Crenshaw: Talking about intersectionality (pp. 11-21).
[34] A. Loretoni, Ampliare lo sguardo, cit., p. 165.
[35] Ivi, p. 38.