1. Gli studi di genere e l’apporto del pensiero giuridico-istituzionale
Da qualche anno, e di recente in maniera sempre più trasversale, si è andata intensificando in Italia, con notevole ritardo rispetto ad altri paesi, la pubblicazione di studi, ricerche, volumi in tema di genere, con specifico riguardo al rapporto tra donne e sfera politico-istituzionale[1].
A questo tipo di percorsi – non disgiunti, nella maggior parte dei casi, da uno specifico tratto generazionale[2] – hanno certamente contribuito anche nuovi approcci maturati nel solco della riflessione giuridica [3], nonché degli studi giusfilosofici e sociologico-giuridici[4].
In questo contesto si inserisce il volume Donne, diritto, diritti. Prospettive del giusfemminismo[5] curato da Thomas Casadei. Già ad un primo sguardo il testo appare come un coro di molte voci e diverse prospettive, oggi la modalità più consona per cogliere una realtà sfaccettata e poliedrica come quella che il testo affronta. Ciò non significa che non si possa individuare un filo conduttore, un mainstream dal quale si diramano vie laterali, esplorabili indipendentemente e dalle quali si può agevolmente ritornare alla via principale.
Il testo si presenta suddiviso in sei sezioni tematiche (“Giusfemminismo”, “Differenza sessuale, discriminazione, diritti”, “Questioni bioetiche”, “Violenza maschile contro le donne”, “Etica della cura, corpi, responsabilità”, “Lavoro, istituzioni, parità”), ognuna composta da due contributi, che danno all’insieme una veste equilibrata e compiuta.
Con la significativa eccezione del curatore, sono tutte voci di donne quelle che convergono sulla “questione femminile”, per riprendere un’antica espressione. La peculiarità e l’originalità dell’opera consistono nel fatto che tale problematica è coniugata con l’ampia questione del
diritto e dei diritti; di qui il significato del sottotitolo e il taglio dei vari contributi: l’argomentazione è condotta senza autoincensamenti e si svolge in chiave rigorosamente critica (e autocritica)[6], con l’intenzione, espressamente dichiarata, di non fare di una fruttuosissima corrente di pensiero come il giusfemminismo una sorta di conventio ad excludendum, ma anzi predisponendola ad accogliere spunti e confronti da diverse provenienze metodologiche e disciplinari[7].
Già il titolo e il sottotitolo suggeriscono chiaramente sia l’approccio plurale sia la chiave di lettura. Che si parli di ‘giusfemminismo’ non relega il testo alla cerchia di specialisti, ma evidenzia semplicemente come tutte le questioni di una certa importanza devono interessare il pensiero giuridico. Quest’ultimo, inoltre, non è meramente inteso come sfera tecnico-normativa, ma concepito come intimamente connesso agli ambiti cui il diritto necessariamente rimanda, ossia quello socio-culturale e, soprattutto, politico-istituzionale.
A delineare in maniera puntuale questo tipo di approccio è il contributo introduttivo di Carla Faralli (“Donne e diritti. Un’introduzione storica”, pp. 1-13), che ripercorre sinteticamente le tappe fondamentali del pensiero femminista e delinea efficacemente il percorso a luci e ombre del riconoscimento dei diritti delle donne. Alla presa d’atto che passi importanti sono stati compiuti, veri punti di non ritorno, si aggiunge subito la consapevolezza della complessità del percorso e delle nuove sfide, poste dal e nel femminismo stesso, a un apparato giuridico spesso impreparato e affannato a rincorrere le trasformazioni dei tempi. Va sottolineato, a questo riguardo, il monito della studiosa posto a conclusione delle sue considerazioni circa il ritardo italiano[8], colmare il quale, come su altre questioni, implicherebbe lo scardinamento di supremazie dominanti, sul piano culturale e materiale.
Di come si tratti di una sfida non ancora vinta e che richiede continua attenzione, così come, in generale per tutti i diritti, emerge pienamente dal primo dei due saggi di Susanna Pozzolo (“Una teoria femminista del diritto. Genere e discorso giuridico”, pp. 17-39), che apre la sezione specificamente dedicata al “Giusfemminismo”. I casi giuridici riportati fungono da grimaldello critico per rivelare le storture e i pregiudizi di un modo sessualmente viziato di intendere i diritti individuali, soprattutto quello cardine dell’eguaglianza. Quest’ultimo oscilla tra un’interpretazione egalitaria indifferente alle differenze e un’interpretazione tendente a sottolinearne così marcatamente alcune, spesso solo su base fisico-biologica, a tal punto da divenire discriminante (l’esempio della gravidanza e della maternità, a questo proposito, è paradigmatico). Il punto di arrivo di questi opposti tragitti è però il medesimo, ossia l’ineguaglianza. A guardarla da vicino, tutta la questione sembra davvero complicata da risolvere, rilanciando la palla al pensiero femminile stesso, con l’invito di indicare una terza via[9]. È il problema di quando si introducono correttivi al sistema, lasciando invariata l’impostazione di fondo, in questo caso “maschile”. Come osserva Pozzolo, infatti, il sistema del diritto è tutt’altro che neutrale, una visione “da nessun luogo”, ma rispecchia valori e principi dei suoi ideatori, che, in questo caso, sono stati sempre uomini, muniti di una concezione fallace dell’essere umano: autonomo e indipendente, “nato adulto”, sano e autodeterminantesi. Si tratta quindi, individuando tali inclinazioni acritiche, di condurre un’opera di chiarificazione a tutto tondo, che investe il pensiero femminile stesso, qualora presenti costrutti problematici al suo interno, per esempio, il punto di vista di “alcune donne” (bianche, di cultura e tradizione occidentale, eterosessuali, ecc.) assunte a paradigma di tutte le altre. Da visioni essenzialiste, del resto, non sono immuni neanche le donne. Pozzolo lo esemplifica efficacemente nell’ultima parte del suo scritto, quando riporta alcuni casi giuridici in cui la responsabilità della cura viene “naturalmente” demandata alla donna e così pure la sua riprovevole omissione. Tale critica a una funzione giudicata spesso connaturata alla donna intende puntare il dito anche contro una certa concezione femminile della donna stessa, che a malincuore lascerebbe andare una pratica come quella della “cura”, così ancestralmente parte della sua identità personale e che ha contribuito a determinare la sua identità sociale. Un’emancipazione critica però non può fare a meno di mettere sotto la lente anche questi paradigmi, per quanto connotati, per consuetudine, di specifico valore.
Assumendo questo sguardo prospettico, diviene allora auspicabile cominciare a intendere l’amplissima letteratura femminista, che ormai spazia in molti settori del sapere filosofico e sociale, alla stregua di un ricco e plurale ambito di idee, utile a tutte e tutti e in grado di scorgere angolazioni
visuali insolite e inesplorate. Così, infatti, argomenta Orsetta Giolo (“Il giusfemminismo e il dilemma del confronto tra culture”, pp. 41-60), che dimostra ampiamente come l’ostinazione a marginalizzare il discorso al femminile produce una serie di irrisolvibili incongruenze che rende irragionevole, e improduttivo, lo sforzo di estromettere un tale approccio. Le tre “ondate” del femminismo, avverte Giolo, così come gli orientamenti e gli ambiti del pensiero giuridico al femminile, non meritano l’accusa di frammentazione o mancata uniformità della teoria. Così facendo non si fa altro che misurare con due pesi e due misure il pensiero “maschile” e “femminile”, tendendo a sovrastimare e a enfatizzare il primo e a sottovalutare e sfumare il secondo. Al contrario, il lavoro di analisi operata soprattutto dalle donne sul materiale giuridico fa emergere nuclei tematici misconosciuti o del tutto trascurati, o altri ancora, che tradiscono una visione smaccatamente maschile e discriminatoria del mondo, così come della “natura” e della “storia”. È una verità autoevidente che la dimensione valoriale è inscindibile dal diritto e che, oltre a valori consapevolmente espressi e dichiarati, ce ne sono molti altri nascosti nelle pieghe degli articoli e dei codici, magistralmente demistificati dal giusfemminismo.
Sembra però rimanere un orizzonte inaggirabile, quello appunto del “maschile”, che ha forgiato così potentemente il mondo da contaminare ogni altra prospettiva che voglia dirsi alternativa. I resoconti proposti da Alessandra Facchi (“Stereotipi, discriminazioni, diritti. A proposito delle tesi di Catharine MacKinnon”, pp. 63-75) e da Lucia Re (“Lo stereotipo della differenza sessuale. Analisi di un fraintendimento in Catharine MacKinnon”, pp. 77-94) presentano il pensiero di Catharine MacKinnon come una vera sfida a qualsiasi tentativo di riformulazione di un mondo così intrinsecamente maschile – e maschilista.
Le provocazioni e il tratto radicale che questa filosofa e avvocata esprime nei suoi scritti – e che Facchi e Re pongono ben in evidenza, rilevandone anche taluni aspetti critici – rappresentano stimolanti punti di vista per la prassi, mettendo a dura prova ogni facile ottimismo sulla conquista e il riconoscimento dei diritti delle donne. La constatazione poi che gli approcci femministi non possono non risentire delle influenze esercitate dal pensiero “unico” maschile, per reazione ad esso o per assumerne alcune prerogative, porta a una generale insoddisfazione sia per la “teoria delle differenza” sia per quella dell’“eguaglianza”. Una sorta di peccato originale, quindi, attanaglia ogni tentativo di pensiero al femminile, il quale o rifiutando stereotipi consolidati e ruoli ascritti o ispirando a valori liberali la sua emancipazione e autocoscienza, ha sempre come punto di riferimento il “maschile” e le sue costruzioni. È possibile pensare un’alternativa autentica? La domanda è mal posta. Un punto di partenza è senz’altro l’eliminazione delle diseguaglianze, che producono discriminazione e arbitrio. In questo senso, le donne condividono ancora ampiamente una tale condizione con altri soggetti svantaggiati, con la particolarità che per le donne non si tratta, o non solo, di circostanze ambientali o socio-economiche, ma di appartenenza sessuale, cui possono aggiungersi anche gli altri fattori di vulnerabilità [10]. È proprio questo che le sovrastrutture sociali e culturali tendono a occultare, ossia il dato biologico e materiale sul quale sono state edificate le strutture di dominio e di potere, considerate altrettanto “naturali” quanto il dato sessuale. Sicuramente, come precisano in modi diversi sia Facchi sia Re, MacKinnon appare puntare eccessivamente sullo strumento del diritto per perequare le disparità in termini di diritti e riconoscimento per le donne. Tuttavia, il suo convinto impegno mira a incardinare elementi apparentemente estranei, istanze innovative e interpretazioni comprensive in uno dei sistemi maggiormente legittimanti e intrecciati al potere.
Il vantaggio della prospettiva ‘giusfemminista’ è quello di fornire un robusto appiglio per tutte le donne, in quanto il diritto, chiamato a esprimersi sul caso singolo, permette, attraverso le sue risoluzioni, il passaggio dalla individualità, fattuale ed empirica, alla universalità giuridica e categoriale. La preoccupazione per il concreto – altro tratto messo in evidenza dalle Autrici – si coniuga all’esigenza di astrazione, così come vicende storiche di individui in carne ed ossa hanno fornito le basi per i diritti, divenuti validi universalmente. Così è anche per le donne, e parimenti per i diritti che ne scaturiscono, riconosciuti e “umani” e non meramente “delle donne”[11].
2. La questione del corpo e il nodo della violenza
Delle difficoltà di coniugare principi e massime alla realtà dei casi concreti trattano compiutamente, con riferimento al campo della bioetica, Caterina Botti (“Prospettive femministe nel dibattito bioetico contemporaneo”, pp. 97-115) e Patrizia Borsellino (“Una bioetica non femminista, ma attenta ai diritti delle donne”, pp. 117-128). Qui emergono le falle e le manchevolezze segnalate dalla teoria, che producono quella disuguaglianza, denunciata a più riprese nei vari contributi dell’opera, e quelle disparità così radicate culturalmente da sembrare, erroneamente, ‘ovvie’. In bioetica, in particolare, l’omologazione e il livellamento al modello di funzionamento e di reazione maschile sembrano particolarmente spiccati, il paternalismo più pronunciato e la disattenzione verso la diversità di genere maggiormente evidente. Il corpo della donna, soprattutto in ciò che la caratterizza intrinsecamente (in primis, il concepimento) rimane sempre qualcosa di inquietante, e quindi da controllare e “normalizzare”. È come se la donna dovesse ricordare costantemente la sua identità, personale, sociale, corporale, per poter vedere riconosciuti il diritto fondamentale dell’uguaglianza e la prerogativa all’autonomia. Questi ultimi, infatti, come ricorda Borsellino, devono rimanere i punti fermi per ogni approccio alla salute e alla malattia, ai trattamenti e agli interventi, dalla ricerca sperimentale in ambito medico alle terapie commisurate sul corpo delle donne. Accanto a questi però, a integrazione dei principi della bioetica – «autonomia», «beneficenza», «non maleficenza», «giustizia» –, entrambe le Autrici reclamano la validità e la necessità del principio etico della cura, di origine e sviluppo femminile, a partire almeno da Carol Gilligan. Da una parte, infatti, Botti sottolinea l’irriducibile sfera relazionale che i principi liberali tendono a oscurare e che, invece, è qualitativamente fondamentale in ogni ambito in cui la vulnerabilità e la fragilità dell’essere umano si svelano, anche impietosamente[12]; dall’altra, Borsellino ricorda come l’onnipotenza (maschile) della medicina focalizzata sulla “guarigione” rischi di dimenticare ciò che essa considera “fallimenti”, ossia gli incurabili, e tuttavia umani nella carne e nell’anima, che chiedono di lenire e placare dolore, sofferenza, disperazione, soprattutto se non “capaci”[13]. La cura, allora, non solo non si “aggiunge” estrinsecamente ai principi bioetici, ma li “umanizza”, ricordandoci costantemente che i malati, oltre che singoli “casi”, sono prima di tutto biografie, esistenze, cui la cura risponde individualmente. La cura, quindi, diventa non più solo un apporto femminile, ma il principio etico su cui gli altri convergono. E forse è questa la vera conquista: stemperare l’essenzialismo collegato al genere, per divenir parte
tout court del sentire e ragionare etico.
Come spesso accade nella lettura di rapporti quali-quantitativi dei fenomeni sociali, ci si trova sempre un po’ impreparati quando si cozza contro la nuda realtà fattuale. È ciò che accade leggendo la sezione “Violenza maschile contro le donne”. La misura delle impervietà del cammino riformatore e della lacunosità delle soluzioni si mostra plasticamente, il tutto a fronte di evidenze, studi e ricerche che da tempo fotografano nitidamente la situazione. Seppure, infatti, vi siano stati indiscussi progressi, soprattutto per merito dell’emancipazione e presa di coscienza conquistate dalle donne, tuttavia, sia nel riconoscimento sociale e giuridico dello stalking, di cui parla Chiara Sgarbi (“Lo stalking. Dall’evoluzione del fenomeno alle prospettive di intervento”, pp. 131-154), sia nell’emersione del fenomeno del femminicidio, affrontato da Barbara Spinelli (“Femminicidio e riforme giuridiche”, pp. 155-167), rimane il nodo, difficilmente districabile, della rappresentazione della figura e del ruolo della donna all’interno dei contesti socio-culturali. Il fatto stesso che lo stalker come il femminicida sia prevalentemente maschio e le vittime donne, rimanda a una sorta di immaginario in cui l’uomo si sente ed è autorizzato a molestare e violare la donna. Del resto, il silenzio e le inadempienze di lunga data di Stati e governi, complici di concezioni di genere maschiliste e diffusamente discriminatorie, hanno consentito, se non favorito e coperto, i crimini contro le donne[14]. Il risveglio dal torpore del preconcetto di minorità si è spesso risolto nell’atteggiamento di forza uguale e contraria, ossia, come rileva già Spinelli (p. 162), la vittimizzazione ed etichettatura della donna come “soggetto debole”, da proteggere e salvaguardare. Lo stereotipo tende così a riproporsi,
mutatis mutandis, proiettando un’idea di femminilità cui nemmeno le donne riescono facilmente a sottrarsi. Come denunciato dalle due Autrici, il fatto stesso che nello stalking e nel femminicidio la donna stessa sopporti o si vergogni o ancora rinunci a denunciare la violenza, sembra il segno di una sorta di interiorizzazione del ruolo sottomesso collegato all’essere donna, moglie, madre, sorella. Questa tendenza è corroborata
dall’opinione pubblica e dai media, quando si soffermano più sul senso di impotenza e frustrazione cui è sottoposta la vittima, più che sulla violazione sistematica dei diritti umani di libertà, dignità, espressione, movimento delle donne in quanto cittadine[15]. In questo senso, i ‘diritti di genere’ non sono che i diritti di cittadine e parimenti vanno tutelati come qualsiasi altro diritto.
La sezione “Etica della cura, corpi, disabilità”, comprendente i testi di Brunella Casalini (“L’etica della cura e il pensiero femminista: tra dipendenza e autonomia”, pp. 171-191) e di Maria Giulia Bernardini (“Il soggetto tra cura e diritti. Disabilità, relazioni e inclusione”, pp. 193-212), forma un esaustivo insieme che, forse senza volerlo, chiude il cerchio di tutti i contributi del testo attorno a uno degli aspetti fondamentali della riflessione femminile, nonché dell’esistenza di ognuno di noi: la cura, appunto. Dal suo sorgere nei laboratori di psicologia, per merito delle acute intuizioni di Gilligan, per espandersi nel campo della filosofia e della morale, scavalcando quindi i limiti della sfera privata e reclamando spazio in quella pubblica, fino a confrontarsi con tradizioni di pensiero ben più consolidate e autorevoli, si è finalmente ritagliata una ragguardevole porzione nel panorama del pensiero, non solo filosofico. La già citata Gilligan, e poi Neil Noddings, Eva F. Kittay, Joan C. Tronto, e per certi versi anche Martha C. Nussbaum[16], delle quali Casalini tratteggia un sintetico profilo[17], hanno tutte contribuito a chiarificare, arricchire, correggere, precisare l’approccio umano più necessario, ma dimenticato, o meglio, come puntualizza Casalini, “rimosso”[18]. La dimensione comprensiva della cura, inoltre, porta ad abbracciare non solo le relazioni, ma i luoghi in cui queste si sviluppano, chiamando in causa l’ambiente e i contesti di vita e ricordando che anche i luoghi curano o, al contrario, accentuano e sottolineano la nostra vulnerabilità e dipendenza. Da questo punto di vista, come nota Bernardini, la disabilità è quindi spesso il risultato, non la causa, della mancata inclusione, così come la fragilità e la dipendenza sono accresciute in misura maggiore o minore dai contesti sociali e culturali. Ecco, quindi, che il cerchio si chiude, congiungendo, attraverso la cura, pubblico e privato, personale e sociale, natura e cultura, autonomia e dipendenza. Forse, allora, più che l’accusa di frammentazione del pensiero al femminile si dovrebbe muovere quella di “pensiero forte”, quasi un sistema, articolato e poliedrico, ma intimamente coerente e unitario, così come la donna, che in modi diversi e plurali, ha da sempre unito nelle sue pratiche ancestrali le opposte polarità: l’ingresso al mondo dei nuovi nati e l’ultima dipartita dei morenti, la religiosa e totale abnegazione in nome dei figli alla loro tragica soppressione per vendicare l’offesa. Da questo punto di vista, alla base di un supposto inizio dell’umanità, speculativo o mitico, non si trova lo scontro mortale, il bellum omnium contra omnes, che divide e contrappone, ma all’opposto, il legame[19], con l’avvertenza che esso non coincide affatto con la “positività”. Non si deve infatti cadere nel fraintendimento, riportato da Casalini, di rappresentarsi la relazione di cura come qualcosa di edulcorato e “romantico”. Essa comporta la durezza e l’impassibilità di colei che da sempre ha a che fare con gli aspetti viscerali dell’esistenza materiale e terrena, dal contatto con il sangue e le interiora degli animali uccisi, spesso in prima persona, col fine del sostentamento familiare, alla manipolazione del corpo disgregato e dolente del malato grave ai fini di pietosa assistenza. Non bisogna nemmeno accantonare, solo perché esperienza della donna, e nemmeno di tutte, che il parto è contemporaneamente e intimamente connesso al piacere e al dolore. Questo vissuto diventa un archetipo universale e l’emblema di una verità originaria e inconfutabile che racchiude il nocciolo di ogni esistenza umana.
Nell’ultima sezione, più tecnica ma allo stesso modo istruttiva, i contributi di Susanna Pozzolo (“‘59 giorni a salario zero’. Appunti per uno studio sulla condizione delle donne in Europa, fra riforma del mercato del lavoro e crisi economica”, p. 215-226) e di Rosa M. Amorevole (“Donne, lavoro, diritti in Italia: una disamina di caso”, p. 227-243) illuminano che cosa intende la teoria quando parla di disuguaglianze[20]. Emerge così una situazione ancora distante dalla parità sostanziale tra uomo e donna, con il peso familiare sempre a carico della seconda, sia per quanto riguarda l’accudimento dei figli (per le nonne, i nipoti) sia per l’assistenza ai familiari, anziani, malati o con disabilità. Il risultato è una perdita di opportunità di lavoro e di realizzazione sociale per le donne. La stessa “scelta” del contratto part-time, fa notare Pozzolo, è dettata non dall’esercizio della propria volontà, ma è determinato dalla necessità di conciliazione delle attività dentro e fuori casa. Ancora, leggiamo sconfortati di difficoltà di ascendere nella carriera, di disparità di salario, di un’immagine della donna che regredisce anziché progredire[21]. Emblematici, entro questo orizzonte, sono i casi riportati da Amorevole sui procedimenti dei tribunali italiani, concernenti le discriminazioni delle lavoratrici in stato di gravidanza, a dispetto delle numerose direttive comunitarie, riportate anch’esse nel testo, proprio a difesa della parità di trattamento[22], che dovrebbero tutelare da disuguaglianze economiche, retributive e di opportunità, creando un accostamento stridente tra ‘fatti’ e ‘norme’.
3. Azione istituzionale e azione culturale
Se, come spesso succede, formale e sostanziale difficilmente arrivano a coincidere, soprattutto nel campo dei diritti, ciò diventa un incentivo per adoperarsi affinché i due ambiti si avvicinino e intersechino, piuttosto che concludere sull’incolmabilità della distanza. Si tratta di un lungo tragitto a piccole tappe, che qualche volta comporta anche tornare sui propri passi. Infatti, come la storia insegna, le conquiste sul terreno del riconoscimento, dell’uguaglianza e della giustizia non sono mai date una volta per tutte, ma abbisognano di attenzioni continue e di un interesse sempre vigile. Questo sembra tanto più vero per quanto riguarda il pensiero “delle” e “sulle” donne, cui va l’indiscusso merito di aver scorto nuovi orizzonti ed esplorato sentieri ignorati.
Come mostra la Postfazione di Thomas Casadei (pp. 247-288), che ripercorre il senso e la direzione dei contributi che compongono l’opera, enucleando temi e motivi del pensiero delle donne e arricchendolo di fecondi rimandi e suggestioni, la riflessione sul rapporto tra donne e diritti pare conoscere un possibile nuovo corso. Casadei indica infatti nuovi ambiti da indagare, soprattutto in Italia, dove, pur cominciando ad essere presente una qualificata letteratura, si è ancora lontani dall’avere analisi e ricerche sul campo che possano fornire un quadro compiuto dei fenomeni che attengono la condizione delle donne, soprattutto dal punto di vista culturale e delle prassi sociali, ma anche dall’avere una legislazione organica in materia di parità di scala nazionale: esistono, al riguardo, alcune eccezioni sul piano delle legislazioni regionali che possono essere considerate «l’esito di una riflessione giusfemminista impegnata nei molteplici settori e nelle diverse sfere che compongono la società contemporanea»[23].
Viene infatti da domandarsi cosa sia ancora necessario per realizzare, finalmente e appieno, una prassi generalizzata conseguente rispetto agli approcci “delle donne” alla vita sociale, politica, istituzionale, e per quale motivo non si riesca a parlarne più apertamente e in maniera costante nei pubblici dibattiti. I molti rimandi che le Autrici menzionate utilizzano per esemplificare situazioni e circostanze sono tutt’altro che casi eccezionali e contengono già in sé una connotazione normativa, non solo però in senso etico. Ciò che si fa strada è più che l’idea dei diritti come proprietà da possedere o beni da distribuire, possa diventare quella del diritto come relazione[24]. Al posto del diritto inteso come esercizio di potere e come ciò che mi “autorizza a”, si intende, invece, dare spazio alla dialogicità e all’ interlocuzione ; invece di intendere i propri ruoli sociali e professionali come ricerca di comportamenti che rendano immuni da responsabilità o compromissioni, ci si scopre come attivi soggetti di mediazione; in ultimo, se la conflittualità, all’interno della visione individualistica dei diritti, è sempre implicita — l’altro è colui che potrebbe pretendere da me qualcosa —, all’interno della prospettiva relazionale dei diritti, la conflittualità è provocata spesso da fattori esterni alla relazione e che ne coartano lo sviluppo – contesto ambientale, condizioni economico-sociali, cattiva organizzazione. Corollario a ciò può essere un più deciso movimento di degerarchizzazione e orizzontalizzazione dei rapporti umani, in cui il gioco delle asimmetrie possa configurarsi come dinamico e intercambiabile e non cristallizzato sulla base di forme di discriminazione.
Da questo punto di vista, l’azione sia istituzionale che giuridica appare imprescindibile – di qui tutte le potenzialità di un approccio
e di una prospettiva giusfemminista – ma, al contempo, un ambito cruciale è pure quello educativo – sul quale, da qualche tempo, si riverberano tensioni e conflitti proprio intorno al gender: è qui che a partire da un approccio che metta al centro la condizione delle ragazze e delle donne si può mettere a fuoco anche ciò che troppo spesso viene rimosso ovvero la ‘questione del maschile’ in una società che ancora non conosce un’effettiva parità e anzi vede manifestarsi nuove e insidiose forme di subordinazione, violenza, oppressione[25]. È sintomatico il fatto che si sia sentita la necessità di dare alle stampe nel 2010 un volume dal titolo Ancora dalla parte delle bambine[26], che ricalca e fa seguito al noto Dalla parte delle bambine[27], degli anni ’70, a ribadire quanto ancora forti siano gli stereotipi di genere a partire fin dalla primissima educazione, nella famiglia, nella scuola, nei media. La constatazione che ciò avvenga in maniera meno eclatante, e più difficile da riconoscere, richiede la mobilitazione di quelle capacità critiche e di demistificazione di cui il pensiero femminile è divenuto esperto.
[1]
Si vedano, a titolo esemplificativo, A. Loretoni, Ampliare lo sguardo. Genere e teoria politica, Roma, Donzelli, 2014; V. Tripodi, Filosofie di genere. Differenza sessuale e ingiustizie sociali, Roma, Carocci, 2015. Cfr., pure, M.G. Turri (a cura di), Manifesto per un nuovo femminismo, Milano, Mimesis, 2013; A. Cagnolati, S. Rossetti (a cura di), Donne e potere. Paradossi e ambiguità di una difficile relazione, Roma, Aracne, 2014.
[2]
Tratto particolarmente evidente, per esempio, nella composizione e nelle attività del “Gruppo di lavoro interuniversitario sulla soggettività politica delle donne” sorto nel 2011, a partire dall’idea di un mondo accademico più aperto e in relazione con la società. Per una presentazione del gruppo cfr. B. Casalini, I. Fanlo Cortes, O. Giolo, M. Giovannetti, S. Guglielmi, D. Morondo Taramundi, P. Persano, K. Poneti, S. Pozzolo, L. Re, E. Urso, V. Verdolini, S. Vida, Soggettività politica delle donne. Donne-diritti-politica-potere, in “Studi sulla questione criminale”, VI, 2011, 3, pp. 24-30.
[3]
B. Pezzini (a cura di), Genere e diritto. Come il genere costruisce il diritto e il diritto costruisce il genere, Bergamo, Bergamo University Press, 2012; S. Scarponi (a cura di), Diritto e genere. Analisi interdisciplinare e comparata, Padova, Cedam, 2014; O. Giolo, L. Re (a cura di), Soggettività politica delle donne, Proposte per un lessico critico, Roma, Aracne, 2014; M.G. Bernardini, O. Giolo (a cura di),
Critiche di genere. Percorsi su norme, corpi, identità nel pensiero femminista, Roma, Aracne, 2015.
[4]
In precedenza particolarmente interessante, per lo sguardo ampio e ricostruttivo, è il saggio di A. Verza, Le correnti femministe. Il difficile equilibrio tra eguaglianza e dffferenza, in G. Campesi, I. Pupolizio, N. Riva (a cura di), Diritto e teoria sociale. Introduzione al pensiero socio-giuridico contemporaneo, Roma, Carocci, 2009, pp. 257-296. Su un altro versante si veda anche L. Palazzani,
Sex/gender. Gli equivoci dell’uguaglianza, Torino, Giappichelli, 2011.
[5]
Torino, Giappichelli, 2015.
[6]
Su questo aspetto si vedano i recenti contributi di A. Loretoni e D. Spini in “Politica e società”, 2, 2015, rispettivamente intitolati Cosa c’è di «critico» nella Teoria Critica? Una riflessione femminista (pp. 371-386), Criticare la teoria critica. Note sul rapporto fra teoria critica e femminismo (pp. 387-404).
[7]
A questa prospettiva di apertura interdisciplinare aveva già fornito un contributo importante nel panorama italiano un volume come quello curato da Raffaella Baccolini: Le prospettive di genere. Discipline, soglie e confini , Bologna, Bononia University Press, 2005. Cfr., anche, F. Bimbi, Differenze e disuguaglianze. Prospettive per gli studi di genere in Italia, Bologna, Il Mulino, 2003.
[8]
Per approfondimenti sul punto, C. Faralli, Women’s studies e filosofia del diritto, in “Rivista di Filosofia del diritto”, 2, 2012, pp. 297-312. Più in generale: S. Chemotti (a cura di), Donne: oggetto e soggetto di studio. La situazione degli Women’s studies nelle università italiane , Padova, Il Poligrafo, 2009; A. Sturabotti, Gender studies: terza via tra il contagio diffuso e il femminismo istituzionale, in M.G. Bernardini, O. Giolo (a cura di), Critiche di genere. Percorsi su norme, corpi, identità nel pensiero femminista, cit., pp. 181-210.
[9]
Un contributo in tale direzione è quello offerto in M.G. Bernardini, O. Giolo, Il «parametro mobile». Note sul rapporto tra eguaglianza e differenza, in “Filosofia politica”, 3, 2014, pp. 505-520.
[10]
In questa chiave, alcune linee di indagine particolarmente istruttive erano già contenute in O. Giolo, Le “periferie” del patriarcato. L’uguaglianza, i diritti umani e le donne, in Th. Casadei (a cura di), Diritti umani e soggetti vulnerabili, Torino, Giappichelli, 2012, pp. 119-142. Sulla questione della vulnerabilità sia consentito rinviare al mio Vulnerabilità come “conditio” umana. Alcune considerazioni a partire dall’approccio dell’etica della cura, in “SIFP”, 2015 e, più in generale, al mio V come vulnerabilità, Perugia, Cittadella, 2016.
[11]
Su questa evoluzione si veda A. Facchi, Breve storia dei diritti umani. Dai diritti dell’uomo ai diritti delle donne, Bologna, Il Mulino, 2013.
[12]
Per ulteriori sviluppi di questo approccio si può vedere C. Botti (a cura di), Le etiche della diversità culturale, Firenze, Le lettere, 2013.
[13]
Su questi profili, in una letteratura ancora piuttosto scarna, si può vedere Scelte sulle cure e incapacità: dall’amministrazione di sostegno alle direttive anticipate, a cura di P. Borsellino, D. Feola, L. Forni, Varese, Insubria University Press, 2007.
[14]
Anche rispetto ai provvedimenti legislativi che si è cominciato ad assumere non mancano carenze e contraddizioni, si vedano, a titolo esemplificativo, le osservazioni contenute in A. Verza, Le modalità telematiche di persecuzione nella legge 119/2013: un’occasione mancata, in “Sociologia del diritto”, 3, 2014, pp. 133-152. Della stessa autrice, si veda anche Una “patologia della normalità”: la violenza contro le donne nell’ambito relazionale-affettivo, in “Notizie di Politeia”, XXXII, 121, 2016, pp. 3-27.
[15]
Di «cittadinanza incompiuta» e «incompleta», a questo riguardo, parla T. Pitch, Corpi e diritti, in Ead., I diritti fondamentali: differenze culturali, disuguaglianze sociali, differenza sessuale, Torino, Giappichelli, 2006, pp. 140-153.
Sulla dimensione della cittadinanza, anche con riferimento al contesto europeo, articola le sue riflessioni Anna Loretoni: Ampliare lo sguardo. Genere e teoria politica, cit. Ed è in questa chiave europea che si è di recente concretizzata una prospettiva di forte critica rispetto alla questione della violenza domestica, come mostra la Convenzione di Istanbul (2011). Per una disamina si veda: P. Parolari, La violenza contro le donne come questione (trans)culturale. Osservazioni sulla Convenzione di Istanbul, in “Diritto e Questioni pubbliche”, 14, 2014, pp. 859-890. Intorno a queste tematiche si veda anche S. Vantin, Le violenze domestiche nelle riflessioni di CatharineMacKinnon. Un tentativo di applicazione entro il contesto legislativo e giurisprudenziale europeo, in “Diritto e Questioni pubbliche”, 15, 2015, pp. 227-247.
Sulla questione della cittadinanza, resta utile M.L. Boccia, La differenza politica. Donne e cittadinanza, Milano, Il Saggiatore, 2002. Cfr., pure, C. Mancina, Oltre il femminismo. Le donne nella società pluralista, Bologna, Il Mulino, 2002, in part. pp. 127-172.
[16]
Cfr. M.C. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia sociale: disabilità, nazionalità, appartenenza di specie (2006), Bologna, Il Mulino, 2007.
[17]
Per una trattazione più estesa si veda B. Casalini, L. Cini, Giustizia eguaglianza e differenza. Una guida alla lettura della filosofia politica contemporanea, Firenze, Firenze University Press, 2012, pp. 163-193.
[18]
Sul concetto di cura applicato alle relazioni umane e la specificità di un tale approccio esiste ormai una cospicua letteratura che progressivamente è penetrata anche nel contesto italiano, seppure lentamente: fondamentale, a questo riguardo, è J. Tronto, Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura (1993), a cura di A. Facchi, Reggio Emilia, Diabasis, 2006 (su cui sia consentito rinviare a A. Grompi, L’etica della cura come etica pubblica: le tesi di Joan Tronto , in «Notizie di Politeia», n. 87, 2007, pp. 181-188 [all’interno di un Forum che comprende anche contributi di J. Tronto, Th. Casadei, S.F. Magni, P. Cicognani]). Cfr., anche, J. White, J. Tronto, Political Practices of Care: Needs and Rights, in “Ratio Juris”, 4, 2004, pp. 425-53. Il nesso tra crisi delle risorse di cura e crisi della democrazia è al centro del suo ultimo libro Caring Democracy. Markets, Equality and Justice, New York-London, New York University Press, 2013, le tesi del quale sono sintetizzate in Ead., Cura e politica democratica. Alcune premesse fondamentali
, in “La società degli individui”, 2, 2010, pp. 34-43. Di Kittay si veda il testo fondamentale La cura dell’amore. Donne, uguaglianza, dipendenza (1999), Milano, Vita e Pensiero, 2010. Cfr., anche, l’intervista L’inevitabile dipendenza, a cura di Thomas Casadei, in “Una Città”, n. 175, giugno 2010, pp. 33-36. Per un approccio applicativo: The Ethics of Care, Dependence, and Disability, in “Ratio Juris”, 1, 2011, pp. 49-58.
Ricca di spunti è anche l’elaborazione di Virginia Held, della quale si possono vedere Care and Justice in the Global Context, in “Ratio Juris”, 2, 2004, pp. 141-155; Ead., The Ethics of Care. Personal, Political, and Global, Oxford-New York, Oxford University Press, 2007. Per un inquadramento del percorso di quest’autrice – a cui si deve anche Etica femminista. Trasformazioni della coscienza e famiglia post-patriarcale (1993), Milano, Feltrinelli, 1997 – mi permetto di rinviare a A. Grompi, La cura presa sul serio: proposte e scenari per una pratica della cura, “La società degli individui”, 2, 2010, pp. 181-185.
[19]
Su questo concetto ha fatto ruotare le sue riflessioni Elena Pulcini, della quale si può vedere: L’ individuo senza passioni: individualismo moderno e perdita del legame sociale, Torino, Bollati Boringhieri, 2001; Il potere di unire: femminile, desiderio, cura, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Torino, Bollati Boringhieri, 2009 (sul quale mi si consenta di rimandare al mio Cura e globalizzazione, una sfida possibile, in “La Società degli Individui”, 37, 2010, pp. 151-155).
[20]
Oltre al già menzionato testo di Vera Tripodi, si può vedere al riguardo anche l’inquadramento della problematica elaborato in F. Sartori, Differenze e disuguaglianze di genere, Bologna, Il Mulino, 2009.
[21]
Per una descrizione dei tempi duri per la parità fra i sessi (e non solo nel mondo del lavoro) si veda il fascicolo di “AG-About Gender. Rivista internazionale di studi di genere”, 2, 4, 2013 dedicato a We want sex (equality). Riforme del mercato del lavoro, crisi economica e condizione delle donne in Europa.
[22]
In questa chiave si veda, oltre al già menzionato studio di Loretoni, F. Sarcina (a cura di), Cultura di genere e politiche di pari opportunità. Il gender mainstreaming alla prova tra UE e Mediterraneo, Bologna, Il Mulino, 2015. Cfr., anche, F. Di Sarcina, L’Europa delle donne – La politica di pari opportunità nella storia dell’integrazione europea (1957-2007), Bologna, Il Mulino, 2010; R. Quesada, R. Bortone, S. Peràn, Gender Equality in the European Union. Comparative Study of Spain and Italy, Pamplona, Aranzadi, 2012.
[23]
Th. Casadei, Itinerari del giusfemminismo , in Th. Casadei (a cura di), Donne, diritto, diritti, cit., p. 280. Il rinvio è alla “Legge quadro regionale per la parità e contro le discriminazioni di genere”, approvata nel giugno del 2014 nell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna, la prima legge di questo tipo nel contesto nazionale: https://demetra.regione.emiliaromagna.it/al/monitor.php?urn=er:assemblealegislativa:legge:2014;6. I vari Titoli che la compongono sono dedicati a “Disposizioni generali e norme di principio”; “Sistema della rappresentanza” (II); “Cittadinanza di genere e rispetto delle differenze” (III); “Salute e benessere femminile” (IV); “Indirizzi di prevenzione alla violenza di genere” (V); “Lavoro e occupazione femminile” (VI); Conciliazione e condivisione delle responsabilità sociali e di cura (VII); “Rappresentazione femminile nella comunicazione” (VIII); Cooperazione internazionale (IX); “Strumenti del sistema paritario” (X); “Sistema di verifica e di valutazione” (XI).
[24]
Ho provato a tratteggiare le potenzialità di questa concezione, che affonda le proprie radici nelle opere di Leon Duguit e di Georges Gurvitch, nel mio intervento al 28° Congresso dell’Associazione Nazionale Infermieri di Area Critica (ANIARTI), dal titolo Un diritto per l’etica della cura, ora in “Scenario”, 3, 2009, pp. 27-29. Sui rischi deumanizzanti del diritto, si veda anche il mio «Il senso della giustizia lo trasformò in brigante e assassino». Oggettivazione, oggettificazione e reificazione nel diritto, in A. Bellan (a cura di), Teorie della reificazione. Storia e attualità di un fenomeno sociale, Milano-Udine, Mimesis 2013, pp. 303-325.
[25]
Alcuni spunti interessanti, a questo riguardo, possono essere rinvenuti in S. Deiana, M.M. Greco, (a cura di), Trasformare il maschile. Nella cura, nell’educazione, nelle relazioni, Assisi, Cittadella (PG), 2012.
[26]
L. Lipperini, Ancora dalla parte delle bambine, Milano, Feltrinelli, 2010.
[27]
E. G. Belotti, Dalla parte delle bambine, Milano, Feltrinelli, 1973.