Sección digital Entrevistas
L’Occidente e la crisi della modernità
Dialogo con lo storico Paolo Prodi
A cura di Piero Venturelli
Proponiamo qui il testo integrale di una lunga conversazione, avvenuta nel gennaio 2008, tra lo storico dell’Età moderna Paolo Prodi (professore emerito dell’Università di Bologna) e Piero Venturelli (dottorando di ricerca in Filosofia presso la medesima Università).
La versione originale del testo, intitolata A colloquio con Paolo Prodi, è apparsa come introduzione al seguente libro: P. Prodi, Lessico per un’Italia civile, a cura di P. Venturelli, Reggio Emilia, Diabasis, 2008. Questo volume riunisce quarantadue saggi brevi che l’Autore ha pubblicato tra il 2004 e il 2007 in sedi diverse. Tutti gli interventi ivi riproposti, peraltro, sono stati rielaborati ed arricchiti di un apparato di note, ma sempre nel rispetto del loro contenuto originario.
Ad ognuno degli scritti raccolti nel libro è stata apposta un’intitolazione brevissima (talvolta di un’unica parola), con l’obiettivo di dar vita ad una sorta di dizionario, ordinato in senso alfabetico, che raggruppasse i vocaboli e i concetti che vengono comunemente utilizzati – non di rado in maniera impropria – nell’affrontare le principali questioni religiose, politiche, sociali ed etiche sollevate dal nostro tempo: le voci di questo Lessico per un’Italia civile, infatti, spaziano da Alternanza a Tasse, da Esercito a Università e riforme, da Chiesa a Populismo, da Embrione a Partito, da Guerra a Papa; e, ancora, da Bene comune a Laicità, da Produttività a Sindacato, da Europa e Occidente a Israele, da Democrazia e rappresentanza a Radici cristiane, da Anziani e politica a Silenzio della teologia ecc.
Nel colloquio, dopo aver ragionato sulla natura e sul senso di questa selezione di scritti, i due interlocutori discutono dei tratti peculiari della conoscenza storica e del mestiere dello storico, per poi riprendere, approfondire ed inquadrare alcuni aspetti delle più importanti problematiche toccate nelle voci del Lessico, non mancando di far emergere le originali linee di ricerca che caratterizzano gli studi storici di Prodi.
Si ringraziano Paolo Prodi e la Casa Editrice italiana Diabasis per aver consentito di pubblicare in «Araucaria» il testo integrale della conversazione.
Ringraziamo inoltre Piero Venturelli, che ha preparato per l’uscita in «Araucaria» il testo e sostituito il ragguardevole apparato di note della versione originale (costituito, per lo più, di riferimenti bibliografici in lingua italiana che avrebbero appesantito la consultazione on line) con un congruo numero di note dirette ad agevolare la comprensione di quei passaggi e di quei riferimenti che potrebbero altrimenti risultare oscuri ai lettori non italiani.
La linea di ricerca di Paolo Prodi (n. 1932) ha sempre avuto come proprio baricentro il rapporto tra potere politico e potere religioso nella storia costituzionale dell’Occidente, in particolare rispetto alla genesi della modernità e al processo di “secolarizzazione”. Numerosi suoi studi riguardano le istituzioni ecclesiastiche e le istituzioni politiche, nonché i riflessi della Riforma cattolica e della Controriforma nell’ambito della spiritualità, della cultura e delle arti. Attualmente, ha in corso una ricerca sul rapporto fra teologia morale, economia e politica nella genesi delle strutture di mercato dal basso Medioevo all’Età moderna.
Tra le sue pubblicazioni maggiori, sono da menzionare i volumi: Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 1982 (20062); Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente, Bologna, Il Mulino, 1992; Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna, Il Mulino, 2000; La storia moderna, Bologna, Il Mulino, 2005; Christianisme et monde moderne. Cinquante ans de recherches, Paris, Gallimard - Le Seuil, 2006.
Piero Venturelli: Professor Prodi, per quale motivo ha deciso di raccogliere in un unico volume questi Suoi recenti articoli?
Paolo Prodi: La Sua è una domanda sempre utile – anzi, indispensabile – da porsi di fronte a pubblicazioni come questa. È tutt’altro che superfluo interrogarsi, in dialogo con i lettori, sul perché io abbia pensato di racchiudere in un volume riflessioni elaborate in vista dell’attualità politica. Le giustificazioni più evidenti sono riconducibili sia alla presunzione, tipica del docente universitario che, dopo decenni di ricerche e di insegnamento, pensa che i propri pensieri meritino di essere maggiormente fissati nel tempo, in un libro, rispetto alla volatilità della stampa quotidiana e periodica, sia alla vanità che porta ad arrendersi alle gentili insistenze dell’editore. In genere, comunque, si resiste alle tentazioni quando queste non sono sufficientemente attraenti...
Una ragione più fondata, a cui mi aggrappo per giustificare questa pubblicazione, è che ho cercato di osservare l’attualità con l’occhiale di uno storico del “tempo lungo”, di vedere – cioè – i problemi dell’oggi con l’ottica dello storico di mestiere, che coglie i fenomeni all’interno di uno sviluppo secolare. Si tratta di un occhiale che molto spesso i cronisti o gli analisti del mondo contemporaneo (sociologi e politologi) non possiedono, di una specie di terza dimensione (quella del tempo che è incorporato negli uomini, nelle idee e nelle istituzioni) che tende a sfuggire agli osservatori che si limitano alla superficie dei fenomeni.
P.V.: Utilizzando quest’ultima immagine, dunque, si potrebbe sostenere che le voci qui raccolte contengono osservazioni compiute grazie all’uso di un occhiale che corregge tanto la miopia di chi giudica il presente trascurando il passato quanto la presbiopia di chi, viceversa, studia il passato dimenticandosi del tempo presente...
P.P.: Si può dire così, certamente. Sono convinto che l’occhiale della storia non ci debba portare ad una visione presbite capace di mettere a fuoco bene unicamente da lontano, perché essa sarebbe altrettanto inadeguata di quella miope che distingue solo il presente vicino. L’obiettivo di questo occhiale è di aiutarci nel nostro impegno civile a non prendere cantonate e a conservare la capacità critica di fronte ad ogni panacea proposta dal politico di turno.
L’occhiale della storia ci insegna soprattutto due cose: a individuare il potere nelle sue incarnazioni concrete, al di là dei rivestimenti e delle maschere che assume nel corso dei tempi; a cercare i modi in cui storicamente il potere, che tende per sua natura a non rispettare alcun confine, è stato controllato, delimitato e, per quanto possibile, diretto verso il bene comune.
Le dottrine tradizionali sulla divisione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) come fondamento della democrazia e della libertà, mi sembra, non bastano più nella misura in cui il loro grande contenitore (lo Stato sovrano moderno) è entrato in crisi. Il moltiplicarsi delle riflessioni sui grandi temi della libertà, della giustizia e dei diritti umani sono un segnale dell’acuirsi degli squilibri. Ma c’è costantemente bisogno di quest’occhiale della storia, cioè – come dicevo – dello studio critico del “tempo lungo”, per evitare sia le trappole e le facili scorciatoie sia il rischio che le analisi dei politologi e dei sociologi, ma anche i revisionismi storici dei contemporaneisti, divengano soltanto funzionali ai giochi odierni del potere.
P.V.: Uno dei principali meriti della conoscenza storica, infatti, consiste nella sua capacità di liberarci dalla schiavitù della cronaca, del presente che ci fa sentire immobili e passivi. Ora che, finita la stagione delle ideologie, non si crede più di poter rinvenire leggi nel passato, è venuto il momento di tributare alla storia altri tipi di onore, riconoscendole – fra l’altro – la capacità di rendere gli individui più elastici nella comprensione del presente e nel prevedere linee di tendenza future. Lo storico di mestiere, insomma, possiede qualità che sembrano avvicinarlo, almeno per certi aspetti, al profeta; anzi, già duecento anni or sono, Novalis attribuiva uno «sguardo umanamente profetico» a chi pratica studi di tipo storico.
P.P.: Mi sembra di essere solo parzialmente d’accordo. Senza dubbio, la funzione fondamentale della storia è quella di rendere la comprensione della realtà più elastica, poiché aiuta a far capire che le cose e le idee sono state diverse in passato e che, quindi, possono essere e saranno diverse in futuro. Sarei cauto, però, nel parlare di “funzione profetica”, perché con quest’espressione si può alludere alla “previsione del futuro”, il che sarebbe del tutto sbagliato. Se, invece, s’intende la funzione profetica nel senso di contestazione di un potere dominante che anela ad imporre una visione uniforme della realtà, strumentale al potere, allora quest’espressione può avere un suo significato per la storia. Io propenderei a vedere nella storia soprattutto un aiuto per la conoscenza della dimensione temporale dei fenomeni, un semplice strumento, un occhiale necessario – come dicevo prima – per svelare il tempo incorporato nelle cose e nelle idee, cosa non facile per l’uomo comune che è sempre più abbacinato da un “presente onnipresente”.
P.V.: Accanto a ciò, mi sembra, l’importanza della storia per tutti gli uomini e le donne risiede anche nella sua capacità maieutica di promuovere il recupero delle identità collettive da parte di ciascun individuo. Condivide questo punto di vista?
P.P.: Sì. La storia serve per vedere il passato che è incorporato nel mondo che ci circonda (cose e idee) e in noi stessi, passato che risulta invisibile ad occhio nudo. In questa età di transizione verso la globalizzazione (per esprimersi in termini forse un po’ rozzi, ma brevi ed efficaci), la fame di storia esprime, soprattutto nelle società occidentali, un bisogno analogo a quello che spinge a ricorrere sempre più spesso alle pratiche psicoanalitiche per la ricostruzione della nostra personalità individuale: un recupero delle identità collettive perdute, della cui coscienza abbiamo bisogno per sopravvivere e per poter confrontarci con le altre identità.
Molto di questo passato vive in noi e compone la nostra attuale identità. In altri termini, la vita che viviamo, le cose e le parole che usiamo, non soltanto derivano da questo passato, ma lo contengono: in genere, noi ci limitiamo a vederne una parte superficiale, laddove uno spessore sotterraneo continua ad esistere anche se noi non ne siamo del tutto o per nulla coscienti.
In questo senso, possiamo considerare la storia come una specie di procedimento introspettivo, analogo a quello psicoanalitico, che ci permette di vedere un inconscio collettivo in cui noi continuiamo a vivere. Non lo conosciamo, ma da questo provengono molte delle nostre paure, dei nostri timori e anche delle nostre speranze. Certo, abbiamo strumenti che ci rendono possibile questo contatto – in primis, il patrimonio letterario (pensiamo all’attualità delle tragedie greche a proposito del problema della giustizia umana oggi) –, ma si tratta sempre, in qualche modo, di rappresentazioni trasfigurate che non devono impedire, bensì facilitare, la coscienza della vita dei nostri antenati che vive in noi.
P.V.: Dunque, si potrebbe affermare – compiendo un ulteriore passaggio – che la storia, mentre ci aiuta a riportare alla luce, alla coscienza individuale, ciò che noi davvero siamo, ci dà anche modo di scegliere più liberamente che cosa portare con noi nel futuro.
P.P.: La Sua conclusione mi sembra corretta. Gli individui, oggigiorno, affrontano le problematiche nuove della vita e della morte, delle scelte imposte dai nuovi sviluppi scientifici, dalle biotecnologie ecc., essendo dotati di apparati mentali e culturali che risalgono indietro nei secoli e nei millenni. Una gran parte delle difficoltà cui noi uomini del Duemila ci troviamo di fronte, deriva dalla tensione tra ciò che continuiamo ad essere, nelle nostre strutture sociali e mentali (formate negli scorsi secoli), e il nuovo che avanza. Di qui, la nostra insicurezza: non sappiamo quale sarà l’equilibrio che l’umanità troverà nei prossimi decenni; ma questo nostro futuro dipenderà anche dalla coscienza che noi abbiamo di ciò che vogliamo portare nel nostro bagaglio in questo viaggio.
P.V.: Si potrebbe dire, in questo senso, che la conoscenza storica permette di scoprire non solo che tutto quello che possiamo vedere è condizionato dal passato, ma pure che la consapevolezza di ciò contribuisce a renderci liberi nel presente. Fondamentale, quindi, è il ruolo dello storico di professione: egli – come sosteneva Henri Pirenne – non ha nulla a che fare con l’antiquario, perché il primo, lungi dal passare ad occhi chiusi attraverso il mondo in cui si trova, osserva intorno a sé gli uomini, le cose e gli eventi, rapportandosi di continuo col presente e apprendendo ciò che vive.
P.P.: Sì, la scuola di lingua francese da Henri Pirenne (1862-1935) a Marc Bloch (1886-1944), quella che ruota intorno alla rivista «Annales», ci ha insegnato questa verità fondamentale, rendendo manifesto ciò che nella storiografia precedente era solo implicito – o nascosto volutamente, quando essa era al servizio del potere. Lo storico guarda sempre al presente che lo circonda e cerca tutte le testimonianze del passato che possono aiutarlo a capire come la realtà è divenuta quella che è. Naturalmente, lo storico si serve dell’“antiquaria” (o della filologia) per riuscire a comprendere le testimonianze del passato, e qui sta la parte, in qualche modo, tecnica ed artigianale del nostro mestiere, parte che non può affatto essere trascurata, altrimenti proietteremmo il presente nel passato, senza adempiere alla nostra funzione e deformando, anzi, la realtà nel suo divenire.
P.V.: Ora, se non Le dispiace, cambierei argomento. Lei ha dedicato molti dei Suoi studi ad approfondire i due binomi diritto/morale e politica/sacro. Come ha illustrato con ampiezza in diverse occasioni, e anche nelle voci che qui si presentano, è attualmente in corso una svolta epocale che sta portando la “norma ad una dimensione”, cioè la legge positiva, ad estendersi anche a terreni fino a tempi non lontani considerati di esclusiva competenza della morale e della religione; al medesimo tempo, però, l’effettivo potere dello Stato sembra paradossalmente segnare il passo di fronte all’azione pervasiva e capillare, sempre più spesso sottratta ad ogni vero controllo democratico, della finanza e dei grandi potentati economici internazionali. Dinanzi a questo processo che sta corrodendo alle basi la civiltà occidentale, fondata per molti secoli sulla dialettica tra le istanze del foro interno e quelle del foro esterno, Lei registra in qualche settore embrionali inversioni di rotta oppure la tendenza ad emanare norme giuridiche su tutti i comportamenti umani è da considerarsi ormai travolgente ed inarrestabile?
P.P.: A mio avviso, stiamo vivendo davvero una svolta epocale nella quale tutto il patrimonio che abbiamo ereditato dalle precedenti generazioni, e in particolare lo Stato di diritto e la democrazia, è in profonda crisi e non si intravedono ancora i lineamenti del nuovo mondo che sta nascendo tra le tempeste della globalizzazione. Il problema non può risolversi soltanto con la denuncia della corruzione o con un tradizionale richiamo ai “valori” della nostra civiltà e delle nostre rispettive vite nazionali: come ho detto poco fa, bisogna cercare di capire quanto, del rapporto tra gli uomini e le istituzioni che abbiamo creato nelle generazioni precedenti, non funziona più e recuperare, allo stesso tempo, la capacità di progettare il nuovo. Non si tratta, infatti, di servirsi della riflessione storica in funzione dell’oggi, ma – al contrario – di mostrare come una prospettiva storica di lungo periodo possa modificare i giudizi sulla realtà e renderla molto meno assoggettabile alle strumentalizzazioni della politica e alle leggerezze della cronaca. Forse non c’è problema che, più di questo, dia modo di vedere così chiaramente come dalle differenti diagnosi storiche possano nascere divergenti linee di strategia politica. Soprattutto, mi sembra importante comprendere che, proprio all’opposto di quanto si crede comunemente, la storia può aiutarci a non cadere nell’errore di interpretare la realtà con occhi del passato mentre intorno a noi tutto è cambiato.
Oggi siamo di fronte a fenomeni completamente nuovi, perché lo Stato, in quest’età di globalizzazione, ha perso gran parte della sua sovranità. Nonostante ciò, le norme giuridiche si moltiplicano a dismisura di giorno in giorno. Sotto la pressione dei problemi posti da una società sempre più complessa, la norma positiva punta ora a definire ogni aspetto della vita sociale, occupando a mano a mano territori regolati in precedenza da altri tipi di norme: si pensi ad ambiti quali la vita e la morte, i rapporti sessuali e familiari, la scuola, lo sport ecc. Ma, battendo questa via, il rischio è di finire prima o poi col togliere alla società il respiro tra mondo interno ed esterno, irrigidendola e appiattendola in una sola dimensione; allo stesso tempo, la totale perdita di elasticità delle relazioni sociali di fronte all’invadenza del diritto equivarrebbe al suicidio di quest’ultimo. Insomma, proprio nel momento in cui il diritto ritiene di essere finalmente riuscito a proteggere al massimo le libertà individuali, esso si spegne, perisce.
Mi pare importante che, nel nostro mondo occidentale, venga mantenuto questo rapporto, questo ritmo, tra il necessario respiro interno della società, che talvolta viene ucciso dalle regole (anche da quelle formulate per difendere i nostri diritti e la nostra privacy) e la vita delle istituzioni che hanno bisogno dell’oggettivazione del diritto positivo. Soltanto se la società respira nel suo insieme, all’interno, se si conserva un tipo di obbedienza non sottoposto esclusivamente al diritto, l’uomo occidentale può avere un futuro. Dobbiamo sapere, cioè, se e come il dualismo cresciuto all’interno del mondo giudaico-cristiano possa venire trasmesso nel nuovo scenario della globalizzazione.
Io mi arresterei a questo punto: non me la sento di spingermi oltre ciò che ho fin qui detto, dal momento che il nostro è ancora un’epoca di transizione, incapace di offrire agli osservatori indizi sufficienti per farsi un’idea precisa di come sarà il futuro dell’Occidente. Almeno per ora, comunque, non si possono intravedere inversioni di rotta di fronte all’invadenza della legge positiva, anche se bisogna riconoscere che le società cosiddette “avanzate” stanno cominciando ad acquisire, negli ultimi tempi, una sempre maggiore consapevolezza dei limiti delle risposte offerte con nuove regolamentazioni e nuove authority.
P.V.: Leggendo queste voci, si rimane colpiti dal Suo costante dialogo – spesso sotterraneo – con Max Weber. Che importanza ha avuto l’autore di Erfurt per il Suo personale lavoro di storico e di docente universitario?
P.P.: La lezione che, all’incirca un secolo fa, Max Weber (1864-1920) ci ha dato con le sue opere, come grande storico e grande sociologo, mi è sembrata fondamentale proprio dal punto di vista del metodo: analisi della società contemporanea sulla base delle trasformazioni di lungo periodo delle civiltà. Per me, in particolare, è stato fondamentale il richiamo al rapporto tra il sacro, la politica e l’economia. Ad eccezione di alcune tesi specifiche, che sono state ridimensionate dalla ricerca storica successiva – come il ruolo dominante del calvinismo nello sviluppo dello spirito capitalista –, rimane ancora valida e fondamentale la sua visione dello sviluppo dell’Occidente e dell’Europa come percorso caratterizzato dalla “de-magificazione”, dal “dis-incantamento” del mondo: non un processo di secolarizzazione a senso unico, ma un rapporto complesso tra la sfera del sacro, del religioso, e la sfera del potere, processo nel quale il cristianesimo occidentale ha svolto una funzione determinante per la razionalizzazione della natura e della società; l’affermazione di un sopra-naturale che ha permesso, dal Medioevo in poi, la crescita di un dualismo dinamico tra le realtà storiche (viste come comprensibili e, quindi, manipolabili e progettabili) e il trascendente.
Quella appena delineata è la dialettica dell’Occidente e dell’Europa che ho cercato di porre al centro delle mie ricerche. La tesi storica da cui parto è che la radice della civiltà europea non sta tanto nei singoli apporti dati dal cristianesimo, dall’Umanesimo e dall’Illuminismo, bensì nell’affermazione della laicità come dualismo tra la sfera del sacro e quella della politica, dualismo frutto di una millenaria evoluzione e di tensioni e conflitti istituzionali tra Chiesa e Stato. Il cammino della laicità, pertanto, coincide con quello della demagificazione del mondo e della politica: è bene segnalare, tuttavia, che ciò implica non già l’espulsione del sacro, ma la sua presenza come “altro” rispetto al potere.
P.V.: Vale forse la pena di chiarire ulteriormente, professor Prodi, questo concetto weberiano di Entzauberung, demagificazione (o disincantamento).
P.P.: In poche parole, la demagificazione, che prende avvio nel Medioevo e matura nell’Età moderna, permette all’uomo di denudare il mondo circostante dal suo alone magico, dal suo contenuto sacrale; la scienza, in questo modo, si trasforma in tecnica: non, dunque, in semplice conoscenza, ma in manipolazione della natura. Questo processo, sino a qualche tempo fa considerato soltanto come “secolarizzazione”, come espulsione del religioso, ora è visto in termini più complessi: il sacro viene, si potrebbe dire, “recintato” e separato dalla realtà fisica del mondo con la formulazione di un “trascendente”, e il miracolo diventa, così, l’eccezione in un mondo dominato dalle leggi della natura create da Dio stesso; la Chiesa, soprattutto mediante i sacramenti e il controllo delle forme devozionali, si trasforma nell’unico canale di collegamento tra le due realtà. Ciò rende possibile – con tutte le tensioni e le dialettiche conseguenti – lo sviluppo della conoscenza e della tecnica, nonché la nascita della politica come progettazione di nuovi modelli di convivenza dinamici, non più basati su un ordine cosmico e castale prestabilito.
P.V.: Le Sue parole mi rimandano ad alcuni interessanti punti di vista, talora vicini a quelli weberiani, avanzati anni fa da David S. Landes (n. 1924). Una delle tesi di questo storico statunitense è che molti dei più importanti tentativi di razionalizzare la realtà furono promossi e attuati dal cristianesimo, che riuscì ad approntare e a far diffondere e radicare presso i fedeli non solo un calendario liturgico articolato e ben scandito, ma anche un culto dei santi che, mentre parlava di miracoli, veniva a riconoscerne il carattere di eccezionalità rispetto alla legge naturale, la quale – pertanto – era riconosciuta da tutti come universale. Quasi sicuramente, professor Prodi, condividerà queste posizioni di Landes...
P.P.: In realtà, io devo molto di ciò che penso a questo cammino storiografico, compiuto nel secolo scorso, che da Weber porta, a mio avviso, a Landes e a tanti altri, sino ad arrivare, per quanto riguarda la politica e il diritto, a Harold J. Berman (1918-2007).
P.V.: Per tornare più direttamente a Weber, non mi sembra fuori luogo porre in evidenza un altro dei suoi grandi meriti: la negazione dell’esistenza di una “intellettualità astratta”, svincolata dai problemi e da un metodo. Chi si fa assorbire da problematiche contingenti, a suo avviso, non può essere un vero intellettuale. Secondo Weber, ciò vale anche per lo storico di mestiere.
P.P.: Sì, lo storico che si fa catturare da questioni contingenti, a giudizio di Weber, non può essere un vero intellettuale: solo colui che è “scientificamente” al servizio del suo problema possiede una sua personalità e svolge un autentico lavoro intellettuale. Mentre la persona comune non è in grado di usare il metodo scientifico applicandolo all’oggetto del suo studio, lo storico – come intellettuale – mette questo metodo al centro della propria ricerca e si pone al servizio dei problemi, non del potere.
P.V.: Oltre a Weber, professor Prodi, quali autori considera determinanti per la Sua attività di studioso? E ci sono letture che Lei raccomanderebbe, in special modo, per chi oggigiorno si appresta a fare del lavoro intellettuale la propria professione?
P.P.: La seconda, mi pare, è la tipica domanda da un milione di dollari, o di euro: ritengo sia veramente difficile dare una risposta. In ogni caso, sono convinto che non esista una ricetta per la preparazione generica al lavoro intellettuale. Occorre partire dalle proprie curiosità, scegliendo una delle tante strade che ci si aprono davanti per esplorare la realtà e incamminarsi in essa con costanza e metodo. Non credo nelle vaghezze dell’interdisciplinarità, perché la vera interdisciplinarità può nascere soltanto partendo dall’acquisizione di una disciplina. Il primo consiglio è, quindi, di scegliere un approccio preciso e non importa se, poi, il cammino si sviluppa nella ricerca accademica o nell’altrettanto necessaria funzione della comunicazione del sapere. Per quanto riguarda la storia moderna, mi sono sforzato di dare le indicazioni essenziali in Introduzione allo studio della storia moderna [1] , un volumetto che ho scritto anni fa per i miei studenti, indicazioni che non sto a riprendere in questa sede perché occuperebbero troppe pagine.
Cercando di ricordare coloro che mi hanno fatto più pensare – a parte gli storici di mestiere che sono stati maestri diretti o indiretti –, posso indicare, in ordine alfabetico, alcuni autori del secolo scorso che sono stati fondamentali per aprirmi gli occhi e che penso possano esserlo ancora per tutti coloro che vogliono capire il mondo in cui viviamo: Hannah Arendt (1906-1975), Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), Hans Kelsen (1881-1973), Franz Rosenzweig (1886-1929), Joseph A. Schumpeter (1883-1950), Leo Strauss (1899-1973); tra i riferimenti di questi ultimi anni, mi paiono importantissimi i volumi che Jan Assmann (n. 1938) e Harold J. Berman hanno dedicato al rapporto tra il sacro e il potere nell’antichità e nell’Occidente medioevale e moderno.
P.V.: Vorrei soffermarmi per qualche istante sulle concezioni dell’ultimo autore che ha citato, Harold J. Berman, un nome già uscito in precedenza mentre si accennava al cammino storiografico che prende le mosse da Max Weber. Come nei Suoi libri e saggi, così anche in queste voci, professor Prodi, Lei dimostra di condividere molte delle tesi avanzate da questo importante storico del diritto intorno alla nascita e allo sviluppo del dualismo tra Chiesa e Stato nell’Europa dell’ultimo millennio. È possibile argomentare, secondo tale prospettiva d’indagine, che la dialettica tra la sfera del sacro e la sfera del potere vanta origini giudaiche, anche se una vera distinzione “storica”, realizzata, tra i due ambiti risalirebbe alla fine del secolo XI della nostra era, ossia al periodo della “riforma gregoriana”. Sarebbe stato, così, soltanto l’uomo occidentale a privare il potere politico della sua sacralità interna, riservata al trascendente, e ad aprire le porte – proprio a cominciare da quella “papale” di quasi mille anni fa – alle “rivoluzioni” (intese come affermazioni di un nuovo progetto di società) e ai patti paritari tra gli individui. Unicamente in tale contesto, secondo Lei e Berman, poté svilupparsi un doppio piano di norme concorrenti, le norme morali e le norme positive, e – allo stesso tempo – sorsero due ben distinte sedi di giudizio sulle azioni degli uomini: come peccato e come reato, come disobbedienza alla legge morale e come disobbedienza alla legge positiva dello Stato. Da qui, sempre a giudizio Suo e di Berman, la maturazione in Europa di uno stabile dualismo istituzionale tra Impero e Papato, tra Stato e Chiesa, tra il potere politico e la religione. L’ampiezza e la complessità di questi temi è fuori discussione, naturalmente. Se intorno ad alcuni degli aspetti sfiorati nelle mie ultime righe Lei ha già avuto modo di soffermarsi al principio di questa nostra conversazione, ritengo più opportuno rinviare alle prossime domande e risposte la trattazione di altre questioni, anch’esse da me qui solo lambite. Ora, infatti, desidero concentrarmi su quella che Berman definisce “rivoluzione papale”, ossia la riforma avviata dal papa Gregorio VII, che fu pontefice dal 1073 al 1085 e che rivendicò, com’è noto, la superiorità ecclesiastica sull’Impero e, insieme, la necessità dell’assoluta indipendenza della Chiesa dal potere civile. Quali sono i caratteri distintivi di questa prima “rivoluzione” dell’Occidente? Quanto debbono la storia e l’identità europee alla “riforma gregoriana”?
P.P.: Qui si entra nel campo strettamente storico e le questioni che Lei mette in rilievo sono, ritengo, d’importanza capitale per comprendere la storia e i tratti peculiari della nostra Europa. Ovviamente, rispondere con completezza alle Sue domande è impossibile in questa sede, pertanto mi limiterò ad esporre i miei principali punti di vista in materia, i quali – come Lei ha sottolineato – sono spesso legati a quelli di Berman, un grande studioso statunitense – morto alcuni mesi fa – che per diverso tempo venne ingiustamente trascurato in Italia. Tentando di essere il più sintetico possibile, ma – spero – non superficiale, credo opportuno partire dalla constatazione che, nel mondo cristiano, Stato e Chiesa si dividono fin dall’inizio sulla base del principio evangelico del «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Ciò che caratterizza l’Europa e che ne qualifica la civiltà come continuamente mobile o rivoluzionaria è la dialettica tra queste istituzioni in concorrenza tra loro per normare la vita dell’uomo. Nell’XI e XII secolo, la riforma gregoriana porta alla defeudalizzazione della gerarchia ecclesiastica e conduce all’affermazione decisa di questo dualismo, al suo concretarsi in istituzioni separate. Da quella fase storica in poi, l’individuo appare sempre più sottoposto a una duplice obbedienza, che produce una fibrillazione continua all’interno della società. I secoli centrali del Medioevo sono caratterizzati dalla nascita di due ordinamenti che convivono nella stessa società. L’origine del diritto canonico apre la strada non soltanto al pluralismo degli ordini giuridici e alla distinzione dei due fori, canonico e civile, ma anche ad un nuovo rapporto tra l’ordine umano (civile o canonico).
Come ha ben individuato Berman, la cosiddetta “rivoluzione papale”, ossia il ciclo avviatosi dalla riforma gregoriana e proseguito con la “lotta per le investiture”, è da ritenere alla base del dinamismo costituzionale che contraddistingue tutta la vita dell’Occidente fino ai nostri giorni. Secondo questo studioso americano, come Lei ha ricordato, essa rappresenta la prima delle grandi rivoluzioni che hanno dato un’impronta del tutto nuova all’Europa, perché la Chiesa, modellandosi come società sovrana e centralmente organizzata, si pone come prototipo degli Stati senza assumere il monopolio sacrale del potere. In questo senso, le vicende della Chiesa, compiendo il dettato evangelico sulla separazione dei poteri, possono configurarsi come proposta politica alternativa al potere esistente. Nell’Europa dei secoli centrali del Medioevo, insomma, nascono l’idea e la prassi della rivoluzione come lotta contro il potere per l’instaurazione di un progetto politico diverso. In altri termini, come si diceva, viene introdotto nella storia dell’Occidente il dinamismo che, avendo proprio come punto di partenza la pluralità degli ordinamenti giuridici, spinge la possibilità di cambiamento.
È appena il caso di far notare che questa non è una storia senza scosse, bensì un cammino contrassegnato da continui tentativi di sopraffazione: da parte papale, si mira alla costituzione di una teocrazia; da parte delle autorità secolari, invece, si persegue l’obiettivo di dar vita ad un impero sacro. Nell’Oriente bizantino, da lì a poco, il sogno di un impero religioso si materializza effettivamente. L’esperienza storica che solca tutta l’Europa orientale fino alla Rivoluzione bolscevica del 1917 ed oltre, quindi, è molto diversa, perché la concezione tipica della Chiesa bizantina, e poi della sua continuazione ortodossa, punta alla nascita di un sistema integrato tra Stato e Chiesa, che convenzionalmente possiamo chiamare “cesaropapismo”.
P.V.: Secondo il quadro complessivo da Lei tracciato, dunque, solamente con la riforma gregoriana può prendere corpo quella distinzione tra la sfera del sacro e la sfera del potere che consente lo sviluppo, ad un tempo, di un dualismo istituzionale e di un doppio piano di norme concorrenti. Da questa “laicizzazione” della politica germinano l’idea e la prassi della rivoluzione, da intendersi – quest’ultima – nel senso specifico che Lei le ha attribuito. Come avevo accennato prima, c’è un altro aspetto da prendere in considerazione, quando si parla del dualismo che s’instaura nell’Europa occidentale del basso Medioevo: mi riferisco a quei patti paritari che portano gradualmente alla cosiddetta “società giurata”.
P.P.: In effetti, a seguito della riforma gregoriana, il dualismo istituzionale consente la trasformazione della politica perché mette al centro il patto tra gli uomini. Esso, in qualche modo, viene sacralizzato, ma non rispetto al potere, bensì rispetto ad un’autorità terza, che è al di fuori del gioco politico in se stesso. Nella seconda parte del Medioevo, infatti, emerge quella che è stata chiamata la “società giurata”, la società dei patti, caratterizzata non già da un rapporto di tipo verticale, ma da un legame che tende a definirsi sempre più come orizzontale e che, in ogni caso, anche quando è stipulato tra il suddito e il sovrano, vede sempre la garanzia di un ente terzo. La Chiesa diviene il collante istituzionale per eccellenza, in quanto essa giudica il giuramento e, soprattutto, è custode del patto in tutte le sue forme. In conseguenza di un processo di “de-sacramentalizzazione del giuramento”, la Chiesa acquista un controllo, fino ad allora sconosciuto, sulla vita sociale, poiché il giuramento si spoglia di ogni automatismo derivante dal rapporto diretto con Dio per restare sottoposto al potere di giurisdizione ecclesiastica.
Il dualismo qui delineato implica la possibilità di uno sviluppo – abbastanza lento nei secoli, eppure già visibile nel mondo basso-medioevale – che porta all’affermazione, all’interno dello stesso diritto canonico, di una distinzione tra la sfera del peccato come disobbedienza alla legge divina e la sfera del reato come disobbedienza alla legge dell’autorità secolare.
P.V.: Le considerazioni che Lei ha appena svolto intorno ai patti fondati sui giuramenti, professor Prodi, mi richiamano alla memoria le realtà comunali italiane del basso Medioevo...
P.P.: Proprio così. Le coniurationes sono alla base dei nostri Comuni medioevali. Si tratta di giuramenti collettivi solenni in cui il popolo si impegna in un patto di convivenza; le norme a mano a mano crescono sino a costituire gli Statuti, che tutti i cittadini promettono di osservare sotto giuramento e a modificare di comune consenso.
P.V.: A proposito di ciò, ho trovato di notevole interesse, in queste voci, il Suo continuo richiamo alla vita dei Comuni italiani del basso Medioevo e alla loro capacità di elaborare forme di autogoverno incentrate sulla salvaguardia del “bene comune”. A tali aspetti, dunque, va riconosciuto un ruolo così determinante nel cammino di lungo periodo che portò alla nascita della politica modernamente intesa?
P.P.: Parlando della vita dei Comuni basso-medioevali, occorre essere molto decisi nel respingere ogni interpretazione astratta della realtà e ogni mito. Tutti dovrebbero sapere che le città-Stato, le repubbliche commerciali italiane ed europee, i Comuni del Medioevo non furono affatto dei paradisi terrestri, bensì luoghi di continui scontri di fazioni (guelfi, ghibellini ecc.) e di interessi diversi, con costi altissimi in termini di uomini e di ricchezze. Si tende a strumentalizzare, anche ai nostri giorni, l’ideale medioevale del “bene comune” per denunciare una carenza di valori e di virtù del mondo politico attuale con il richiamo nostalgico ad una realtà che, però, non è mai esistita.
Detto questo, penso si possa affermare che nelle città del Medioevo nacquero le prime sperimentazioni di democrazia e di mercato, che si svilupparono poi nei secoli successivi, nell’età delle Costituzioni e delle rivoluzioni, e che diedero la prima forma all’Occidente moderno, allo Stato di diritto e al capitalismo maturo. Ripensare, quindi, l’esperienza dei nostri Comuni medioevali credo sia fondamentale proprio in questo momento di crisi: non per nostalgia, ma per capire che non esistono istituzioni politiche ed economiche eterne, che lo Stato di diritto e la democrazia non sono garantiti per sempre e che, di fronte alle nuove situazioni storiche, dobbiamo essere capaci di inventare soluzioni nuove.
Sul perché in Occidente – per la prima volta sulla faccia della terra – abbia potuto avviarsi questo processo, le spiegazioni possono essere molto diverse e complesse. Io, ad ogni modo, sono persuaso che il nocciolo centrale sia costituito, come ho già detto, dal processo di demagificazione che si tradusse, all’inizio del secondo millennio, sul piano delle istituzioni, nella tensione tra il potere sacrale del Papato e il potere politico; la lotta per le investiture permise la nascita delle città autonome e del mercato, della politica e dell’economia come scienza del reale e, quindi, come progettazione di nuovi modelli di società. La caratteristica dell’Europa è proprio la capacità di produrre nuovi modelli, di essere una rivoluzione permanente. Il problema è comprendere se questo sia ancora possibile oggigiorno, in una fase in cui la tensione sembra venire meno e il potere va riformandosi come monopolio che ingloba anche il sacro nelle nuove religioni politiche.
P.V.: Ritengo assai suggestivo un altro riferimento contenuto nelle Sue voci: quello alla figura di Girolamo Savonarola. Per quale ragione la presenza, tutto sommato effimera, del frate domenicano ferrarese nella Firenze dell’ultimo decennio del Quattrocento, riveste per Lei un’importanza storica decisiva per l’Italia e per l’Europa intera?
P.P.: Girolamo Savonarola (1452-1498) rappresenta, a mio avviso, un punto centrale ed esemplare nella crisi della democrazia partecipativa e nel passaggio al “principe” teorizzato da Niccolò Machiavelli (1469-1527), allo Stato moderno che va sviluppando, a poco a poco, il monopolio del potere all’interno di un determinato territorio. Savonarola tenta, con la sua nuova “costituzione” del 1494-1495, di instaurare a Firenze un governo “largo” (ossia “di popolo”) stabile, imperniato su un Consiglio maggiore composto di 3600 cittadini; inoltre, egli fa costruire, per la prima volta in Occidente, un luogo fisico in cui questa democrazia avrebbe potuto prendere corpo, il Salone dei Cinquecento. Questo suo progetto fallisce per motivi di politica contingente, di rivalità interne ed esterne, ma soprattutto – dal mio punto di vista – perché manca ancora il principio della rappresentanza politica elettiva e temporanea, che sarà “inventato” in Inghilterra soltanto due secoli dopo, con la nascita dei moderni partiti politici. Nella Firenze di Savonarola, infatti, lungi dall’esistere già partiti in senso proprio, sono presenti semplici e agguerritissime “fazioni”, e i cittadini non sono in grado di sopportare i pesi di una democrazia diretta che li allontana per troppo tempo dalle loro botteghe e dai loro affari.
Non bisogna mai dimenticare che Savonarola è un nemico giurato di quello che, anacronisticamente, potremmo definire “populismo”. Non a caso, egli ha cura di mettere in guardia i Fiorentini contro i pericoli legati alla convocazione del “parlamento”, cioè della chiamata dei cittadini in piazza al suono della campana, un contesto ideale per demagoghi o tribuni che anelino ad imporre la propria volontà privata a detrimento del “bene comune”. Ciononostante, Savonarola non riesce a trasformare, come detto, le fazioni in partiti moderni e ad inventare strutture di rappresentanza capaci di far convivere la partecipazione popolare con l’efficienza e la stabilità del governo.
P.V.: Ma, professor Prodi, stiamo parlando di quel Savonarola che è tuttora dipinto – anche in osannati ed intoccabili programmi televisivi che vorrebbero essere di alta divulgazione – come un sanguinario teocrate oscurantista, uno spregiudicato manipolatore di coscienze e l’avversario per antonomasia del Rinascimento? [2]
P.P.: Diverse sono state, lungo i secoli, le interpretazioni avanzate sulla figura di Savonarola: da precursore di Martin Lutero (1483-1546) ad antesignano del Risorgimento italiano, da frate oscurantista a “santo”. Ora siamo più in grado – fuoriusciti dalla Controriforma e anche dal mito dello Stato nazionale – di comprenderne la grandezza e i limiti, nella complessità del suo tempo. Forse, in questo periodo ci ritroviamo, nella crisi delle nostre istituzioni, ad un bivio simile a quello a cui si trovò di fronte Savonarola: tra una religione civica e una religione politica, cioè tra una rinascita religiosa capace di animare la democrazia che egli sognava (la religione, in fondo, che sarebbe stata invocata qualche anno più tardi da Machiavelli) e una teocrazia molto vicina a quella che noi attualmente chiameremmo “fondamentalismo”. Non bisogna mai dimenticare, però, che Savonarola fu torturato, poi impiccato e arso nel cuore urbanistico e simbolico di Firenze, nella piazza della Signoria, il 23 maggio 1498, in seguito ad un processo politico voluto dal papa Alessandro VI Borgia (pontefice dal 1492 al 1503).
P.V.: Se non Le dispiace, ora passerei ad affrontare un altro genere di questioni. Riflettendo sul mondo cattolico dell’ultimo sessantennio – come emerge a chiare lettere in una delle voci raccolte nel volume, Dossetti e dossettismo –, Lei considera fondamentale la figura di Giuseppe Dossetti non soltanto per l’Italia appena uscita dalla seconda guerra mondiale, ma anche per la Sua esperienza di giovane intellettuale in formazione. Compiendo un balzo in avanti di quasi mezzo secolo, ricordo che una quindicina di anni fa – dunque, poco prima della sua scomparsa, avvenuta nel dicembre del 1996 – questo personaggio “carismatico” era il fulcro di un nutrito gruppo di intellettuali che, in luogo dell’allora paventata riforma – o riscrittura pressoché integrale – della Costituzione, indicava all’Italia la strada dell’effettiva attuazione di alcuni suoi articoli fino ad allora rimasti lettera morta. Negli ultimi tempi, invece, di don Dossetti i mass media e l’intero mondo culturale del nostro Paese parlano – e poco – per lo più sottovoce. Quali sono, secondo Lei, le ragioni di questo mutato atteggiamento? Considera ancora attuali le esortazioni e gli ammonimenti dell’ultimo Dossetti? [3]
P.P.: Di fronte ad un personaggio come Giuseppe Dossetti (1913-1996), credo che debba ancora prevalere un momento di riservatezza e di riflessione prima di pensare di poter esprimere giudizi generali circa la sua figura e il suo ruolo nella politica e nella Chiesa italiana. In ogni caso, ritengo interessante partire da Savonarola per comprenderlo e per comprenderci meglio. Quello che in Dossetti più di ogni altra cosa mi affascinò da giovane, a cavallo tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, fu la visione di una crisi epocale per la quale stavamo uscendo dall’eone della Controriforma e dello Stato moderno: ciò rendeva necessario che, mentre qualcuno doveva cercare di tenere in piedi lo Stato di diritto e la democrazia nella politica quotidiana (nella DC o altrove), altri si dedicassero allo studio della crisi nelle componenti storiche, sociologiche ed economiche, per cercare di intravedere la direzione di un nuovo cammino. All’indomani della mia laurea, nel 1954, lo seguii nella fondazione del Centro di Documentazione a Bologna (poi diventato, con modificazione profonda della sua natura, Istituto per le Scienze Religiose), rimanendone anche influenzato nell’attività successiva di ricerca.
Rifiutando ogni visione apocalittica, penso che l’intuizione di fondo di Dossetti, secondo cui oggi ci troviamo in un momento storico che non può essere compreso dai ritmi brevi e concitati della politica politicante, ma che implica una svolta epocale molto più complessa, fosse una visione giusta, valida ancora ai giorni nostri. Naturalmente, sessant’anni fa si intravedevano soltanto alcuni sintomi di questa crisi delle strutture occidentali come si erano formate negli ultimi secoli, benché fosse chiaro che il crollo delle dittature e delle ideologie totalitarie fascista e nazista con la seconda guerra mondiale, non costituisse la fine delle patologie e, insieme, l’inizio di un’età dell’oro in cui avrebbero trionfato lo Stato di diritto e la democrazia: il processo di de-colonizzazione e lo sviluppo del cosiddetto “Terzo mondo” dava inizio ad un nuovo percorso nell’incontro e nello scontro delle civiltà; questo mutamento, rivelatosi rapido non meno che radicale, viene da noi definito oggigiorno “globalizzazione” e già allora metteva in questione lo statuto dell’Occidente.
Per quanto riguarda l’attività che Dossetti portò avanti nell’ultimo biennio della sua vita – dal 1994 al 1996 – per la tutela della Costituzione italiana, penso che dobbiamo comprenderla proprio in quest’ottica, respingendo gli schemi che sono stati costruiti da parti opposte allo scopo di strumentalizzarlo politicamente come un nuovo Savonarola: egli ha inteso salvaguardare il patto costituzionale per impedire il collasso della nostra vita politica e delle istituzioni, ma nella consapevolezza che questa fosse una battaglia di difesa che non poteva distogliere il nostro Paese dall’affrontare i problemi più profondi e comuni a tutto l’Occidente sia sul piano politico sia su quello ecclesiale.
Per venire più direttamente alle Sue domande, è mia convinzione che negli ultimi tempi il pensiero di Dossetti sia stato troppo spesso o banalizzato o frainteso. L’appiattimento in una dimensione della sua figura complessa, mi sembra, rischia d’impoverire non poco il suo insegnamento. Personalmente, ritengo che forse ora, in questo incerto e difficile cammino verso la globalizzazione, sia venuto il momento di non limitarsi alla scena italiana e di recuperare il senso della fine dell’Età moderna, del passaggio epocale che era dominante nel pensiero di Dossetti all’inizio degli anni Cinquanta. In questa prospettiva, le sue esortazioni e i suoi ammonimenti possono considerarsi senza dubbio attuali.
P.V.: Queste Sue parole mi richiamano alla memoria alcuni passaggi di Laicità, una voce che, oltre ad essere la più lunga e composita di quelle qui raccolte, costituisce quasi il fulcro o centro nevralgico del volume. In essa, Lei mette in guardia contro le correnti definizioni di ”laicità” e si sofferma su quelli che Le appaiono i loro limiti intrinseci. Essendo sovente assimilata ad un atteggiamento intellettuale caratterizzato dalla libertà di coscienza, cioè – si potrebbe dire, esplicitando – dalla libertà di conoscenza, credenza, critica e autocritica, la laicità a cui alludono molti interpreti si rivela, dal Suo punto di vista, un concetto troppo astratto e – ad un tempo – onnicomprensivo. Lei si mostra convinto che sia sempre opportuno nutrire sospetti nei confronti di ogni forma di assolutizzazione di “atteggiamenti intellettuali”, giacché – per così dire – chi tralascia di concentrarsi adeguatamente sul problema storico del “potere” finisce, poi, col proporre schemi casuistici di nuovo tipo, da applicare a tutti i settori del comportamento umano (politica, diritto, ricerca scientifica, istruzione ecc.), con esiti potenzialmente liberticidi per l’uomo. Può tornare in breve su questi aspetti, professor Prodi, concentrandosi sul significato del termine “laico”, in un tempo come il nostro, che si è ormai lasciato quasi del tutto alle spalle la grande stagione della modernità?
P.P.: Da alcuni decenni a questa parte, come ho cercato d’illustrare nelle voci qui raccolte, mi sembra che stiamo entrando in un’epoca nuova: i problemi odierni si rivelano spesso del tutto differenti da quelli tipici dell’Età moderna. Sacro/potere e Chiesa/Stato, nella lunga storia dell’Occidente, sono sempre stati due binomi ritenuti equivalenti, ma oggigiorno essi risultano sovente dissociati. Naturalmente, anche qui non si tratta di un processo di breve periodo: i totalitarismi del XX secolo ci appaiono sempre di più come religioni secolarizzate, come primo esperimento di questa rottura, di un sacro uscito dall’otre delle Chiese in cui con tante fatiche e tante tragedie esso era stato rinchiuso nei secoli precedenti. Nessuna visione idilliaca dei tempi passati, comunque: le radici liberali dell’Occidente affondano in queste tensioni, in queste controversie interminabili in cui il sacro ha sempre cercato di impadronirsi del potere politico/economico e viceversa: ma, proprio grazie a queste dialettiche, si erano creati recipienti di contenimento, che sono stati poi frantumati dalle ideologie totalitarie, miranti ad impadronirsi di tutto l’uomo.
Dinanzi ai problemi della difesa dei viventi e dell’ambiente, delle manipolazioni genetiche, della scarsità delle risorse ecc., l’impotenza del diritto statale positivo, della “norma ad una dimensione”, è evidente. Che cosa si può proporre, dunque? Basta l’appello alla coscienza personale di fronte all’incarnazione nei nuovi grandi poteri economici? Basta, in senso opposto, definire come reato giuridico ogni deviazione da un’etica dominante, ma non condivisa? In rapporto all’angolo di osservazione storica assunto, cambia la visione del bagaglio che, come uomini occidentali, portiamo con noi, affrontando i problemi della globalizzazione; per esempio, non si deve trascurare il fatto che, al di là dell’islam, sono presenti altre civiltà-religioni, come il confucianesimo e l’induismo, nelle quali non si pone il problema della coscienza e della salvezza individuale che caratterizza, in un modo o nell’altro, gli eredi delle religioni monoteistiche nate intorno al Mediterraneo. Inoltre, la programmazione della vita e della morte, attraverso le manipolazioni genetiche o l’eutanasia, può far scomparire tanto il “giudizio” sulle azioni dell’uomo quanto la sua responsabilità. Da un lato, quindi, l’uomo occidentale come lo conosciamo adesso, responsabile delle sue azioni, delle scelte tra il bene e il male, può scomparire; dall’altro, il discorso sulla laicità acquista valenze del tutto nuove, dal momento che si profila all’orizzonte la creazione di “magistrature etiche”, sacralizzate dalla nuova scienza biomedica, capaci di arrogarsi il monopolio delle decisioni sulla vita e sulla morte.
Il mondo si disintegra e si ricompone: oggi è l’umanità nelle sue radici il problema. La questione di fondo non è quella della modernità storica ormai pressoché conclusa, bensì quella della manipolazione, della creazione di un’umanità che è al di fuori di un discorso essenziale sintetizzabile nel problema della salvezza individuale che ha caratterizzato tutta la storia dell’Occidente. Dopo i deragliamenti della modernità, i problemi in questa civiltà planetaria sono il bene, il male, la salvezza, il peccato e – nella versione secolarizzata – la responsabilità personale; non è pensabile, nel tempo presente, non confrontarsi con la clonazione, l’uomo in provetta e il poter avere dei figli con determinate caratteristiche. Nelle prospettive aperte dalle nuove scoperte genetiche, i nostri nipoti e pronipoti potranno ancora essere responsabili delle loro azioni nel senso nel quale lo siamo noi attualmente? Un uomo programmato non è più responsabile delle proprie azioni e, quindi, viene a cessare non soltanto il discorso della salvezza (discorso fondamentale – come si ricordava – per tutte e tre le religioni monoteiste: cristiana, ebraica e islamica), ma anche il teorema della responsabilità morale personale che è alla base della cultura laica e liberale.
Anche oggi, è indubbio, esistono forti pressioni che tendono a strumentalizzare la risposta religiosa alle ansie del nostro tempo nelle più diverse direzioni; queste spinte diventano sempre più forti e provengono non occasionalmente da uomini di formazione laica, non credenti, in proporzione alla mancanza di risposte politiche, alla crisi della politica. Molti sono gli esempi che tutti noi abbiamo sotto gli occhi: innumerevoli personalità politiche istituzionali e intellettuali, in Italia come in altri Paesi, sono all’improvviso ritornate sensibili alla religione della patria e cose del genere. Ma, fortunatamente, esistono anche coloro, credenti e non credenti, che vogliono riflettere e che potremmo definire “illuministi non neoilluministi”, per contrapporli tanto a chi – e mi riferisco qui soprattutto al contesto italiano – non esita tuttora a far coincidere la dottrina cattolica e un diritto naturale immobile, rivendicando la necessità dell’accettazione tout court dei valori dell’Illuminismo da parte della Chiesa cattolica, nella convinzione che essa non li abbia ancora fatti propri e che ciò sia sintomo di una sua grave e inaccettabile chiusura al “moderno”. Si tratta di riprendere le concezioni e le proposte avanzate da alcuni interpreti nel secondo dopoguerra, ormai – cioè – già sul finire dell’Età moderna, con un atteggiamento laico e – insieme – religioso, per affrontare non una modernità passata, ma il futuro che ci aspetta.
P.V.: Una fucina, per così dire, di questi “illuministi non neoilluministi” potrebbe – anzi: dovrebbe – essere l’università, che nella storia europea ha sempre – o quasi – rappresentato un indispensabile potere critico-scientifico autonomo, una magistratura della cultura che, per secoli, è stata in proficua dialettica tanto con l’economia quanto con la politica, venendo – in questo modo – ad incarnare uno dei principali punti di riferimento dell’intera società. Le cose, però, anche in questo settore, sono ormai in via di rapido cambiamento nell’intero Occidente, sebbene occorra riconoscere che il nostro Paese meriti senza dubbio un discorso a parte, giacché la situazione risulta qui particolarmente grave e compromessa. I giudizi contenuti nelle pagine che Lei dedica, in queste voci, alle condizioni nelle quali versa attualmente l’università italiana, non si distaccano di molto dalle considerazioni che è ormai usuale ascoltare dalla maggior parte degli studiosi stranieri. Del resto, non sono pochi i docenti nostri compatrioti che sottoscriverebbero in toto la Sua diagnosi, salvo – poi – non condividere sovente le terapie da Lei proposte. La classe politica, invece, dà sempre più l’impressione di non rendersi conto fino in fondo del rovinoso declino degli studi accademici italiani, in atto da alcuni decenni a questa parte; in più, essa si dimostra del tutto incapace di elaborare, a me sembra, progetti di riforma sistematici e adeguati ai tempi che cambiano. Ritiene che esistano oggigiorno delle vie effettivamente percorribili per mutare questo stato di cose?
P.P.: Non posso ripetere in poche parole ciò che ho già cercato di scrivere riguardo all’università nelle pagine che vengono qui proposte, né estendermi come si dovrebbe e come ho cercato di fare in interventi più documentati scritti negli ultimi decenni [4] . Ribadisco solo alcuni punti che, a mio avviso, si legano tra loro, dai princìpi alle proposte molto concrete.
Occorre pensare all’università come ad uno dei pilastri costituzionali dell’Occidente, come ad un quarto – oppure quinto – potere che dev’essere il custode o difensore del potere-sapere critico. Nella necessaria apertura dell’istruzione superiore ai grandi numeri, si commise l’errore, particolarmente in Italia, di far coincidere tutta la formazione professionale con l’università, senza costruire percorsi paralleli di formazione professionale superiore come le scuole superiori tecnico-professionali tedesche, legate ai distretti produttivi o strutture similari, come le università di insegnamento esistenti in altri Paesi.
Incanalando, in Italia, tutta l’istruzione superiore all’interno dell’università, si andò a distruggere la vera autonomia di quest’ultima come centro del sapere critico e, d’altra parte, non si seppe costruire un efficiente sistema di formazione di massa ad alto livello, adeguato alla società complessa. Da questo punto bisogna ripartire, come scrivevo già quindici anni or sono [5] : esclusivamente questa distinzione può permettere la nascita di strutture efficienti per la formazione superiore (con legame al territorio, frequenza obbligatoria ecc.) e, nello stesso tempo, riesce a salvare l’autonomia dell’università come luogo privilegiato della ricerca. Non è possibile affrontare tutte le altre patologie, dalla degenerazione dei concorsi alla corruzione, se non si scioglie questo nodo: in caso contrario, le soluzioni approntate rischiano di essere solo pannicelli caldi che lasciano tutto come prima, o peggio. Ma questo è proprio ciò che tutti gli ultimi ministri, di Destra e di Sinistra, non hanno mai voluto capire: gli interessi negativi della corporazione universitaria, che desidera soltanto ampliare il proprio territorio, inglobando tutto con l’obiettivo di arrivare a disporre di posti e potere, si è congiunta perversamente con il desiderio dei politici, di tutti gli schieramenti, di costruire un’università in ogni città, come fosse un titolo onorifico, indipendentemente da ogni analisi del tessuto produttivo e dei bisogni reali della società.
P.V.: Nella voce Scuola pubblica, Lei loda alcuni aspetti del modello educativo e formativo inaugurato da Lorenzo Milani [6] . Si tratta di una figura che sempre più spesso viene accusata di aver contribuito ad innescare quei processi che hanno non solo gradualmente minato il prestigio e l’autorità dell’insegnante, ma anche favorito la diffusione e il radicamento dell’idea che la selezione per merito costituisca uno strumento per perpetuare le differenze sociali, con il duplice risultato – osservano alcuni critici – che il livello qualitativo della scuola è via via scemato e che le classi si sono non di rado trasformate in ambienti privi di princìpi, valori e fini condivisi. Che cosa pensa di questi attacchi e del fatto che don Milani sia diventato una delle cosiddette “icone” del nuovo Partito Democratico? [7]
P.P.: Purtroppo, la ricerca di miti e di icone a scopi politici è, molto probabilmente, la cosa più pericolosa per una seria riflessione storica, con risultati anche quasi comici o tragicomici, come l’accostamento del kennediano «Non chiederti cosa lo Stato può fare per te, ma quello che tu puoi fare per lo Stato» al «I care» di Lorenzo Milani (1923-1967), nel cercare slogan strumentali per un “nuovo” che al giorno d’oggi pone problemi del tutto diversi da quelli di cinquant’anni fa.
Venendo alla Sua prima domanda, ritengo che sia molto distante dalla realtà l’obiezione di fondo che si muove spesso a don Milani: non si deve a lui la svalutazione della scuola, tutt’altro! Il degrado denunciato dai suoi detrattori è attualmente sotto gli occhi di tutti, ma la situazione è arrivata a questo livello di gravità proprio perché la scuola è andata nel senso contrario della direzione auspicata da Lorenzo Milani, secondo il quale essa poteva e doveva essere fattore non solo di uguaglianza, ma anche – insieme – di promozione sociale. Non penso affatto che don Milani fosse contrario alla selezione per merito: anzi, egli era convinto che, attraverso l’appropriazione dei linguaggi, anche chi risultava inizialmente meno favorito avrebbe potuto competere. Assai esigente, don Milani credeva nella scuola come struttura per la promozione sociale. Benché concedesse molto al linguaggio marxista di allora, egli era ben distante da tutte le perversioni “sessantottine” che lo strumentalizzarono dopo la prematura morte, avvenuta nel 1967.
In realtà, io ritengo che, negli anni Settanta del secolo scorso, perdemmo l’occasione per un salto in avanti veramente qualitativo della scuola italiana, un rinnovamento che prendesse spunto dalle provocazioni costruttive di don Milani, accettando la sua sfida fondamentale: tutta la questione sociale ruotante sulla parità delle opportunità di tutti gli uomini e le donne nel nuovo mondo della scienza e della tecnologia, si giocava sulla conoscenza e sulla capacità di possedere il linguaggio. Se questa sfida non venne coraggiosamente raccolta, la responsabilità fu duplice: da una parte, il vecchio conservatorismo più retrivo non voleva modifica alcuna; dall’altra, il nuovo conservatorismo sindacale preferì condurre alla semplice espansione del sistema scolastico, con l’immissione di masse impreparate di insegnanti, e all’invenzione di una pseudo-democrazia soltanto formale, che non portò mai e continua a non portare – nei fatti – ad alcuno scambio tra scuola e società. Per la mia opposizione a questo pasticcio, che confluì nei cosiddetti “decreti delegati” del 1974 [8] , e per aver proposto dei veri “distretti scolastici”, autogestiti sull’esempio delle contee inglesi, il ministro dell’epoca mi rimosse in ventiquattr’ore dalla responsabilità di capo dell’Ufficio Studi e Programmazione del Ministero della Pubblica Istruzione. Questa, perciò, è anche una mia storia personale.
Desidero soltanto aggiungere che la questione scolastica, così come quella universitaria, non può essere presa in considerazione come separata dal più generale tema della visione che abbiamo dei dilemmi del mondo attuale: si va dal problema della perdita del senso storico e delle identità collettive a quello dei confronti tra le culture, dagli interrogativi sulle risorse del pianeta e dell’ambiente a quelli legati alla costruzione dei nuovi modelli di riferimento o, se vogliamo chiamarli così, di “valori”. Purtroppo, la tendenza dei pedagogisti, così influenti nei decenni scorsi nella politica italiana, è stata quella di fare della scuola un territorio di caccia riservato agli esperti dell’educazione, presumendo che tutti i problemi fossero risolubili in termini tecnico-pedagogici, senza alcun peso degli aspetti di contenuto della formazione. Ma qui il mio ragionamento si allargherebbe troppo: mi preme solo chiarire che, dietro questi discorsi e dietro tante affermazioni ed accenni, ci sono le conversazioni, gli scambi di idee e l’amicizia fraterna che ho avuto per molti decenni con Ivan Illich (1926-2002), l’autore di un volume famoso negli anni Settanta: Descolarizzare la società. Ritengo che questo libro non abbia perso la sua capacità provocatoria nella nostra società multimediale.
P.V.: Vorrei ora cambiare completamente discorso. Le argomentazioni che Lei, nella voce omonima, svolge intorno al “silenzio dei teologi” – tema su cui si dibatte assai di rado anche in ambito accademico ed ecclesiastico – costituiscono il punto di partenza per molte importanti riflessioni in materia. Con la salita al soglio pontificio di un eminente teologo, Joseph Ratzinger, Le sembra che la situazione da Lei descritta stia cominciando a cambiare?
P.P.: Purtroppo non credo, anzi. Indipendentemente dal valore delle persone e dal grande profilo intellettuale di Benedetto XVI, penso che anche nella Chiesa sia importante una distinzione dei compiti e degli uffici, secondo le vocazioni e le «diaconie» di cui parla l’apostolo Paolo. Il compito dei teologi non può coincidere con quello del magistero: mentre questo deve occuparsi di garantire l’unità e l’armonia del popolo cristiano, della guida pastorale del gregge, i teologi debbono spingersi fino ai territori di confine per affrontare i problemi che derivano dal momento storico e dal rapporto con le culture emergenti; sono chiamati a misurarsi incessantemente con la Scrittura e con la storia, a confrontarsi, a discutere, a formulare in piena libertà ipotesi e debbono sempre poter essere corretti e correggere.
Mi sembra che la tensione tra la Chiesa come istituzione/magistero e il pensiero teologico che esplora senza fine – con i doni della ragione e della profezia – il messaggio evangelico, sia una costante storica, costitutiva della sua natura. Per non incorrere in equivoci, ritengo che sia necessaria l’istituzione-Chiesa con il suo diritto e la sua disciplina, e che questo comporti sempre un dualismo intrinseco non solo rispetto al potere, ma anche rispetto al messaggio evangelico, riguardo al quale la Chiesa è stata e sarà sempre, sino alla fine della storia, città dell’uomo e non città di Dio.
P.V.: Nella voce Chiesa, Lei mette in evidenza la crisi profonda degli ordini religiosi tradizionali e il grande spazio che hanno acquisito negli ultimi decenni organizzazioni non sottoposte – o parzialmente sottoposte – alla disciplina canonica. L’odierno declino degli ordini religiosi tradizionali è dovuto sia all’emorragia di vocazioni sia al fatto che Giovanni Paolo II li abbia non di rado trascurati a beneficio di gruppi come l’Opus Dei e i Legionari di Cristo. Anche in questo ambito, Benedetto XVI sembra intenzionato ad allontanarsi dalle orme del predecessore: non solo le relazioni con i vecchi Ordini risultano spesso migliori (patente è il caso del rapporto con la Compagnia di Gesù), ma in diverse occasioni egli ha dimostrato di nutrire più di una riserva nei confronti dell’esteso potere e della grande autonomia di cui godono organizzazioni come i Legionari di Cristo e soprattutto l’Opus Dei; in questo senso, mi pare emblematico il fatto che, nel luglio 2006, Benedetto XVI abbia nominato suo portavoce – o, per esprimersi meglio, Direttore della Sala Stampa vaticana – il gesuita Federico Lombardi al posto di Joaquín Navarro Valls, importante membro dell’Opus Dei. Che cosa pensa al riguardo, professor Prodi?
P.P.: Non sono molto adatto a rispondere a questa domanda. Come mi confondo nella cronaca politica, così ancora di più nei labirinti del Vaticano attuale: mi muovo più a mio agio nella Roma dei papi-re del Rinascimento. In ogni caso, posso confermare che, anche nell’ambito della Chiesa, vedo all’orizzonte grandi trasformazioni che non coincidono, se non in piccola parte, con i fenomeni più appariscenti. Mentre teologi e canonisti sembrano sottovalutare questi aspetti, lo sguardo degli storici della Chiesa è da tempo ben appuntato su di essi.
Come dicevo, non sono né pochi né superficiali i cambiamenti istituzionali che si stanno introducendo negli ultimi decenni in modo quasi sotterraneo e che sono destinati a mutare radicalmente il governo della Chiesa. Tra gli esempi che si possono fare a questo riguardo, ne spicca soprattutto uno: il caso abbastanza recente della creazione di diocesi non territoriali, di diocesi senza territorio (la “prelatura personale”), un’innovazione che modifica la storia millenaria che noi eravamo abituati a studiare nel diverso rapporto (verticale e di collegialità) tra il papa e l’episcopato territoriale, un ordinamento riepilogato nella doppia persona del pontefice, vescovo di Roma e pastore della Chiesa universale. Mai i grandi Ordini religiosi, pur così importanti e potenti, erano riusciti nel passato ad ottenere uno statuto episcopale, cioè a costituirsi in diocesi senza territorio, così come è avvenuto nel 1982 per l’Opus Dei e come può avvenire in futuro per altre comunità non legate ad un territorio. Questa de-localizzazione della Chiesa, in un mondo secolarizzato e multiculturale, non può non cambiare la fisionomia del governo della Chiesa da parte del pontefice e non è escluso che possa consentire un recupero delle personae del papa trascurate negli ultimi secoli.
P.V.: A questo proposito, considero molto interessante il quadro che Lei, nelle voci Giovanni Paolo II e Papa, delinea delle “figure” del pontefice. A Suo avviso, a partire dal consapevole recupero di esse, sarà davvero possibile pervenire un giorno all’unione di tutte le Chiese cristiane e a forme di dialogo più avanzate con i vertici delle altre grandi religioni monoteistiche?
P.P.: Credo si possa affermare che, dopo l’abbandono della figura del papa-re, anche le altre personae, o figure, del papa (come primate dell’Occidente, patriarca e vescovo di Roma) si stanno nei fatti ridisegnando, sebbene non si intraveda ancora un’adeguata riflessione ecclesiologica. Anche la stessa figura del patriarca di Roma, inesplorato terreno di una storia istituzionale e spirituale che emerge solo indirettamente e ancora nebulosamente dalla storia del cristianesimo dei primi secoli, si rivela indispensabile in relazione sia all’ecumenismo sia alla società pluriculturale emergente nel processo di globalizzazione. Per quali motivi ciò accade? Dal punto di vista ecumenico, perché si è già dimostrato l’insuccesso tanto di tutti i tentativi di buona volontà che non affrontano il problema della fine dell’idea occidentale di missione, come conversione anche alla nostra cultura, quanto di una nuova forma di aggregazione delle Chiese cristiane; in questa riflessione, forse, potrebbe esserci d’aiuto, almeno in senso simbolico, l’ingresso in Europa degli antichi patriarcati di Antiochia e Costantinopoli. Dal punto di vista dei poteri universali emergenti, invece, non mi sembra superfluo recuperare la persona del patriarca di Roma, perché, dinanzi al pericolo costituito dai fondamentalismi delle nuove religioni politiche, diventa urgente rifondare il principio evangelico di unità e di alterità della Chiesa universale («Quae sunt Caesaris Caesari, quae sunt Dei Deo»), allo scopo di salvarci dalla trasformazione dei conflitti culturali in guerre di religione.
Ritengo che il quadro appena delineato faciliti un abbozzo di risposta alle Sue domande inerenti alla possibilità di pervenire in futuro all’unione delle Chiese cristiane e ad un maggior dialogo tra le grandi religione monoteistiche. Si tenga presente, tuttavia, che questi complessi ambiti di discorso richiederebbero, sia sul piano teologico sia sul piano storico, riflessioni più ampie ed approfondite, che non è il caso di sviluppare in questa sede. A mio avviso, comunque, si può dire – in generale – che spezzare una visione monolitica dell’autorità del pontefice e vedere, al contrario, in una prospettiva di esercizio del primato, le sue diverse figure – come vescovo di Roma, come metropolita e primate d’Italia, come patriarca dell’Occidente –, possa essere molto utile per affrontare i problemi della globalizzazione in un quadro ecumenico.
P.V.: Spostiamo ancora una volta il fuoco dell’attenzione. La voce Pubblico e privato muove da una significativa citazione tratta dai Ricordi di Francesco Guicciardini per mettere in risalto come, nel fertile dibattito etico-politico fiorentino del Rinascimento, fosse già ben chiaro che la distinzione tra la sfera dello Stato e quella della società civile rappresenta il principale baluardo posto a difesa della libertà dei cittadini [9] . Sono trascorsi cinque secoli da allora e proprio in Italia, è sotto gli occhi di tutti, si fatica oggigiorno a discutere seriamente su questi temi. Sembra un paradosso.
P.P.: Non è un paradosso, se si considera che lo Stato moderno, che faticosamente si veniva costruendo proprio al tempo di Francesco Guicciardini (1483-1540), nella fase storica odierna si rivela impotente dinanzi ai nuovi poteri che sono emersi nell’economia e nel controllo della comunicazione. Nelle cronache quotidiane, noi abbiamo soltanto ragguagli sul costo della classe politica e sugli episodi di corruzione e di strumentalizzazione del “pubblico” per scopi privati, ma – al di sotto – si possono cogliere sintomi di una patologia molto più profonda, per la quale la distinzione faticosamente costruita negli ultimi secoli tra la sfera privata e la sfera pubblica sembra ormai prossima ad evaporare. Anche nella nostra piccola Italia, con le pseudo-privatizzazioni e la proliferazione delle società di origine pubblica, ma a gestione privata [10] , pare essersi invertito il principio fondamentale della tassazione: la giusta richiesta ai cittadini di contribuire alla gestione della cosa pubblica si scontra con un flusso opposto di denaro che dal pubblico va verso il privato. In questo, pure l’evasione fiscale trova una sua giustificazione.
Anche a livello planetario stiamo rischiando di uscire da questa nostra storia occidentale. Non si tratta soltanto di globalizzazione in senso spaziale: anzi, a mio avviso, la discussione sulla globalizzazione può costituire un grande alibi. In realtà, l’egemonia del potere economico mondiale su un potere politico in crisi (incapace di superare la forma dello Stato moderno) minaccia direttamente la sopravvivenza stessa tanto dello Stato di diritto quanto della democrazia come noi l’abbiamo conosciuta nella sua dialettica secolare. Questo processo si innesca col venir meno dell’etica economica come fondamento del mercato: non basta invocare le regole del mercato, come si poteva pensare sino alla generazione che ci ha preceduti. Dovrebbe ormai risultare ben evidente a qualsiasi osservatore della realtà economica attuale, che il confine tra il furto e il comportamento “onesto”, appare sempre più incerto a mano a mano che diviene più vaga e indefinita la distinzione tra il potere politico e quello economico, tra la proprietà privata e quella pubblica. Rubare non è più disobbedire al settimo comandamento ed essere responsabili di fronte a Dio e al prossimo, ma soltanto infrangere l’una o l’altra norma emanata da un’autorità che abbia la forza per imporsi.
P.V.: Leggendo alcune voci, professor Prodi, sembra a tratti di rilevare un certo Suo fastidio nei riguardi del potere che, soprattutto con la fine della cosiddetta “Prima Repubblica”, sono andati via via acquisendo i “tecnici” a scapito dei “politici di professione”. Ritiene che questa tendenza dimostri che il nostro Paese sta tuttora vivendo in una sorta di prolungato regime di supplenza cagionato dalla profonda crisi dei “titolari”, cioè di coloro che avrebbero il compito di rispondere con coerenza e lucidità, utilizzando strumenti politici e l’arte della mediazione, alle sfide del XXI secolo? Quale può essere, in questo quadro, il cammino da percorrere in un mondo sempre più complesso e globalizzato, che vede la crescente inadeguatezza, non solo in Italia, dei politici di professione?
P.P.: Se la malattia ha raggiunto uno stadio di gravità così avanzato, occorre intervenire con medicamenti adeguati e a più livelli. Anzitutto, bisogna capire subito quali siano i farmaci dannosi che è necessario mettere da parte. Moltiplicare le leggi positive, ingabbiando tutta la nostra vita sociale in una rete continua di norme e rimandare ogni problema emergente a tecnici o ad authority sottratte ad ogni controllo politico, non fa che aggravare il male, anche qualora ciò fosse figlio delle più buone intenzioni per salvaguardare la libertà e la privacy. Si riempiono le carceri, o si trasforma in carcere l’intera società, come ho cercato di mostrare nel volume Una storia della giustizia [11] . Il problema fondamentale, distinguendo sempre le patologie tipiche italiane (ancor più gravi, ahimè, a causa della particolare debolezza delle nostre istituzioni) da quelle comuni a tutte le democrazie occidentali, è quello di ridare fiato il più possibile alla politica, ritrovando un nuovo rapporto tra la rappresentanza democratica e l’efficienza nelle coordinate spaziali e temporali odierne, così diverse da quelle dei tempi di Savonarola e Machiavelli.
Per quanto riguarda le malattie tipicamente italiane, io insisto molto, nelle voci qui presentate, sulla necessità di un intervento chirurgico urgente che ristabilisca la circolazione democratica all’interno dei partiti, facendone i canali per la selezione della classe dirigente e per la definizione dei programmi politici da proporre al Paese come scelte. Purtroppo, anche ora che si parla senza posa di sistemi elettorali (nella preoccupazione di garantire i singoli gruppi di potere in cui i vecchi partiti si sono trasformati), mi sembra che sia molto scarso il reale interesse per l’articolo 49 della Costituzione: attuandolo, invece, verrebbero conferite al partito la natura di soggetto giuridico di rilevanza costituzionale e ai cittadini la possibilità di controllarne la trasparenza e la vita democratica interna. Un discorso analogo va fatto, come ho sostenuto in alcune voci, per l’articolo 39, concernente i sindacati, senza temere di denunciare gli aspetti conservativi, inevitabili dopo oltre un cinquantennio di gestione di un grande potere.
P.V.: In diverse voci, ed in modo particolarmente efficace soprattutto in quella intitolata Regime, Lei focalizza l’attenzione sul carattere anacronistico di molti degli estenuanti dibattiti che da tempo pullulano nel nostro Paese. Spesso, ahimè, capita di ascoltare stucchevoli e urticanti argomentazioni avanzate da opinionisti accalorati il cui punto d’onore è mettere incessantemente in guardia i concittadini contro il rischio che rinascano da un momento all’altro copie carbone dei totalitarismi storici del Novecento; eppure, è evidente che simili regimi oggigiorno non potrebbero mai più risorgere tali e quali, essendo l’orizzonte storico-culturale odierno completamente mutato rispetto a quello del principio del secolo scorso. Il fatto è che, nel Duemila, i pericoli sono ormai in buona parte differenti, tanto che riesumare slogan palesemente anacronistici non solo risulta oltremodo fastidioso, a motivo dell’inevitabile gran puzzo di naftalina, ma appare anche – e soprattutto – deleterio, in quanto allontana lo sguardo e l’interesse dalle autentiche minacce odierne, il che – col tempo – non può che rendere sempre più arduo riconoscerle come tali. E che cosa accade, invece? Da anni, l’uomo e la donna di buona volontà si trovano spesso a fare i conti con un soffocante conformismo “perbene”, politically correct, che narcotizza le coscienze, condanna il pensiero critico e svia dalla ricerca della verità. Se questa constatazione si rivela fondata, se – cioè – dilagano davvero miserevole opportunismo e ripetizione meccanica di idées reçues, si ha l’ennesima conferma che la salute di cui gode la democrazia italiana è lungi dall’essere invidiabile. Il neonato Partito Democratico non dovrebbe al più presto porre in adeguato rilievo proprio questi aspetti? [12]
P.P.: La Sua domanda contiene in se stessa la risposta, mi pare. Purtroppo, la storia come fardello e come strumentalizzazione ideologica (non come ricerca della nostra identità!) sembra essere veramente un grosso ostacolo alla nascita del nuovo: dopo le speranze suscitate con la proposta delle “primarie”, tutto sembra in procinto di ripiegarsi in una “fusione fredda”, dal cui pericolo avevo cercato di mettere in guardia qualche tempo fa con un’espressione che è diventata purtroppo di moda con le delusioni seguite. Mentre scrivevo, negli ultimi anni, gli articoli che abbiamo qui rielaborato e raccolto, mi auguravo che molti dei problemi urgenti sui quali attiravo l’attenzione potessero risolversi a breve termine grazie a scelte politiche lucide e coerenti: così non è stato, malauguratamente, e devo prendere atto che sono ancora parecchie le questioni rimaste aperte davanti a noi e, insieme, che l’Italia non riesce a superare questa pericolosa e mortificante situazione di stallo, per non dir di peggio.
Non so se questo ripetermi con testardaggine sia davvero utile, ma certamente può servire a sgravare la mia coscienza e, ancor di più, a coinvolgere altri concittadini affinché si cerchi tutti insieme una strada diversa dalla politica attuale e da un’antipolitica sempre più dilagante. Un conforto-sconforto è pensare che la storia non si sviluppa mai come viene progettata. Forse, vi sono in Italia energie per un rinnovamento della vita politica; beninteso, se non le lasciamo disperdere nell’antipolitica [13] .
P.V.: All’interno di queste Sue voci, si dà notevole risalto alle anomalie della Destra italiana. In un’occasione, e precisamente in Regime, Lei giunge ad auspicare la formazione in Italia di uno schieramento conservatore di carattere europeo. Che cosa occorre, a Suo giudizio, alla Destra del nostro Paese per poter conseguire tale obiettivo?
P.P.: Premetto che, nell’articolo citato, io utilizzo la parola “regime” nel suo senso storico e non in senso dispregiativo: esistono regimi democratici, regimi dittatoriali ecc., e anche regimi imperfettamente democratici (come – ad esempio – quello italiano odierno, in cui l’alternanza viene vista come potenzialmente pericolosa sia da una parte sia dall’altra). Per esprimermi in termini semplici, e un po’ provocatori, ritengo che in Italia si potrebbe dire di aver raggiunto un livello decente di democrazia nel caso in cui io stesso [14] , in una campagna elettorale con programmi chiari, potessi essere incerto sulle persone a cui dare il mio voto. Sembra una cosa semplice, ma invito ciascuno ad un esame di coscienza: i nostri voti sono per lo più contro e non per. Mi sembra quasi superfluo porre in evidenza che non è matura la democrazia in cui si vota più contro che per, in base ai pericoli che s’intravedono per la sua stessa sopravvivenza.
Avendo vissuto negli ultimi tempi in Germania (a Erfurt, la città natale di Max Weber, nel Centro di studi a lui dedicato), penso che la scelta tra la CDU di Angela Merkel e la SPD di Gerhard Schröder sarebbe, per me, il risultato di un esame meticoloso dei rispettivi programmi, ad iniziare da come vengono trattati dai due maggiori partiti in lizza i grandi temi della politica nazionale e internazionale. Sono persuaso che ora in Italia ciò non sia effettivamente possibile: questo, non solo per le contraddizioni di questo mostruoso congegno elettorale e per la pletora dei partiti (i cui profili programmatici, oltretutto, sono spesso scarsamente definiti), ma anche per la mancanza di una Destra credibile. La Destra italiana rivela gravi anomalie, perché esiste un grave conflitto di interessi che riguarda la persona di Silvio Berlusconi [15] (il quale, a tratti, sembra essere stato tenuto in piedi tutti questi anni anche per fornire un comodo alibi alla Sinistra nella sua occupazione dello spazio pubblico) e – ancor di più, credo – perché siamo in presenza di un vasto conflitto di interessi irrisolto che coinvolge un’intera classe dirigente, la quale tende a strumentalizzare la presa di potere per l’arricchimento privato. La Destra italiana non può non porsi il problema del rapporto con un potere economico che sta prevalendo sulla politica e che, così, va gradualmente a soffocare gli ideali del liberalismo e quelle regole del mercato che, per la Destra democratica, costituiscono un valore imprescindibile.
P.V.: Viceversa, Lei ritiene che una Sinistra degna di questo nome sia tenuta a concentrarsi su grandi princìpi, a partire da quelli della solidarietà, della libertà e dell’uguaglianza delle possibilità. Entrando più nel dettaglio, si potrebbe dire che uno schieramento progressista, all’alba del XXI secolo, debba mirare – non solo in Italia, ma in tutto l’Occidente – sia alla tutela dei diritti sociali (lavoro, casa, sanità pubblica di qualità ed accessibile a tutti ecc.) e dei diritti civili (lotta alle discriminazioni), sia al rafforzamento della giustizia e della sicurezza, sia alla salvaguardia della libertà dell’informazione e della ricerca, sia al consolidamento della divisione dei poteri e delle istituzioni pubbliche, sia alla cancellazione dei conflitti d’interesse, sia alla promozione di valori quali l’onestà, il senso civico, la pace e la tolleranza. Dal Suo punto di vista, professor Prodi, il nuovo Partito Democratico sta iniziando concretamente a muoversi in questo senso oppure no?
P.P.: La Sua definizione di Sinistra è da condividere perfettamente. Non è vero che la Destra e la Sinistra abbiano perso le loro caratteristiche peculiari. Certamente, però, dopo la crisi delle ideologie tradizionali, i loro territori e i loro confini sono da ridisegnare nel nuovo mondo che sta davanti a noi: ora il cittadino comune ha sempre più difficoltà a distinguere le diverse posizioni e gli slogan avanzati dalla Sinistra massimalista temo facciano più danni che altro. L’identità della Sinistra non può più consistere in ideologie astratte, in miti: viceversa, bisogna che vengano elaborate soluzioni concrete nelle quali si sottolineano i valori a cui Lei accennava. È vero che le grandi tematiche della scarsità delle risorse, della difesa dell’ambiente, dello sviluppo sostenibile e del mantenimento del Welfare, in una società sempre più mobile e liquida, impongono di uscire dagli schemi statalisti e anche da quelli del socialismo tradizionale; ma, all’abbandono dei vecchi modelli, deve corrispondere un’altrettanto forte tensione per la ridefinizione di un nuovo spazio del bene comune. La difficoltà fondamentale è che l’impegno in questa direzione esige sacrifici nel breve periodo, sacrifici che si possono affrontare soltanto con un rinnovato senso di solidarietà e con la credibilità delle istituzioni; eppure, anziché proporre scelte anche dolorose, gli uomini politici continuano spesso a dilazionare decisioni importanti per timore di perdere il consenso elettorale o per una certa propensione a seguire i sondaggi. Nell’attuale società tecnologica, occorre soprattutto farsi carico delle generazioni future con politiche di lungo termine che, non di rado, si scontrano con la politica di corto respiro dominata dalle competizioni elettorali.
Per quanto concerne la domanda che mi ha posto, ritengo che la strada imboccata dal Partito Democratico, in questi suoi primi mesi di vita, non sia quella giusta, purtroppo. Non è ancora scaduto, comunque, il tempo per volgere altrove il cammino; e ciò potrà accadere, a mio avviso, solo se al più presto il PD saprà riprendere le intuizioni originarie, a partire dall’idea e dall’esperienza delle primarie, per farne gli strumenti di una nuova democrazia, quella all’interno dei partiti.
P.V.: Per concludere questa nostra conversazione, professor Prodi, può offrire ai lettori – a grandi linee, ovviamente – le coordinate delle Sue ricerche in corso, dedicate al ruolo del settimo comandamento – «Non rubare» – nella cultura europea tra il XIV e il XVIII secolo, e anticiparci alcune delle conclusioni a cui sta pervenendo?
P.P.: Posso soltanto dire che, da alcuni anni, mi è parso centrale il problema del furto, del rapporto tra quello che è mio e tuo, e ciò che è invece comune, un ripensamento – in fondo – della definizione di giustizia data da Ulpiano sulla scia di Cicerone: «suum cuique tribuere»27. Che cosa vuol dire oggi dare ad ognuno il suo? Nella società tradizionale occidentale, abbiamo finora sempre avuto una dialettica abbastanza chiara, nelle sue tensioni, tra un certo concetto di proprietà privata, da una parte, e l’insieme di beni comuni a tutta l’umanità (partendo dall’aria e dall’acqua), dall’altra. Una dialettica piena di abusi e di sopraffazioni, ma mediata dallo Stato e dal mercato, in un dualismo continuo tra il piano dell’etica, scaturito dalla tradizione giudaico-cristiana, e quello del diritto positivo, delle norme statali – cioè – derivate dal diritto romano. Oggigiorno, tuttavia, questi confini sembrano ormai prossimi a scomparire.
L’ipotesi da cui sono partito, con letture sull’economia attuale, è che la globalizzazione provochi non solo un ampliamento dei mercati ecc. (una prima globalizzazione di questo tipo cominciò, in Europa, nel secolo XVI), ma la fine del mercato occidentale, così come si è sviluppato negli ultimi secoli. Con la crisi degli Stati sovrani e la prevalenza assoluta delle grandi concentrazioni finanziarie – sia quelle “senza fissa dimora” sia quelle che si identificano con una superpotenza politica, con un impero – è svanito il rapporto di equilibrio e di tensione tra la politica e il mercato che ha caratterizzato lo sviluppo del mercato occidentale: mentre si indebolisce la politica (intesa come Stato di diritto e democrazia), viene anche meno il “nostro” mercato. Componente del mercato occidentale è, infatti, checché ne dicano i teorici neoclassici, il rapporto con la politica (rapporto che non può essere identificato per nulla con il dirigismo o con lo statalismo): democrazia e mercato «simul stabunt simul cadent».
Ma questa è un’altra storia, che spero di sviluppare nei prossimi anni.
[1] Si allude a P. Prodi, Introduzione allo studio della storia moderna, con la collab. di G. Angelozzi e C. Penuti, Bologna, Il Mulino, 1999.
[2] La polemica sferzante è diretta contro uno di quei pochissimi programmi “culturali” che la televisione pubblica italiana manda in onda in prima serata, e che – quasi fosse un animale in via di estinzione – viene sempre e acriticamente celebrato coram populo. Sono decenni che, quando ciclicamente torna a prendere in esame l’Umanesimo e il Rinascimento italiani, questo programma ripropone candidamente tesi e ricostruzioni abbandonate dalla storiografia ormai da tempo immemorabile, magari appoggiandosi ad immagini in bianco e nero tratte da vecchi e polverosi – ma, tutto sommato, incolpevoli – sceneggiati televisivi.
[3] Giuseppe Dossetti fu un uomo politico cattolico di idee antifasciste. Dopo aver partecipato alla Resistenza contro l’occupazione tedesca dell’Italia (1943-1945), venne nominato professore di Diritto ecclesiastico all’Università di Modena e membro dell’Assemblea Costituente che redasse la Carta costituzionale repubblicana. Dossetti diventò in breve tempo uno dei più autorevoli dirigenti del neonato partito di riferimento dei cattolici dell’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale e dal Ventennio fascista, la Democrazia Cristiana, della quale fu vice-presidente. Alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, egli si ritirò dalla vita politica per farsi monaco in un eremo sulle montagne bolognesi; nei quattro decenni seguenti, ricomparve più volte sulla scena pubblica (ad esempio, nel corso dei lavori del Concilio Vaticano II), ma sempre mantenendosi lontano dalla politica politicante. Verso la metà degli anni Novanta, l’ormai anziano Dossetti organizzò una serie di Comitati per la difesa di quella Costituzione che egli aveva contribuito a scrivere e che gli sembrava non solo in molte parti ancora disattesa, ma sempre più di frequente minacciata dallo stesso ceto politico.
Si tenga altresì presente che Paolo Prodi e la sua famiglia sono originari di Scandiano, un comune in provincia di Reggio Emilia, e che Dossetti era – nonostante i natali genovesi – reggiano di adozione (durante le fasi conclusive della seconda guerra mondiale e subito dopo la sconfitta del nazi-fascismo fu, tra l’altro, presidente del Comitato di Liberazione Nazionale di Reggio). Come Dossetti, infine, anche Prodi si laureò all’Università “Cattolica” di Milano (Dossetti, in Giurisprudenza; Prodi, in Scienze politiche).
[4] Ci si riferisce qui ai seguenti articoli e saggi di Prodi: Problemi attuali e tendenze nuove nell’università italiana, in «Il Mulino», a. XXVI (1977), fasc. 1 [n. 249], pp. 20-29 (testo della conferenza tenuta il 27 gennaio 1977 a Innsbruck davanti alla “Europäischen Studentenvereinigung Österreichs”); Il potere e l’impotenza dell’università, in «Il Mulino», a. XLII (1993), fasc. 4 [n. 348], pp. 677-685; L’ateneo irresponsabile, in «Il Mulino», a. XLV (1996), fasc. 3 [n. 365], pp. 565-571. Per approfondimenti intorno a questi temi, si rimanda ad altri contributi di Prodi, meno legati alla situazione attuale dell’università e più incentrati sulla sua storia plurisecolare: cfr. Università e città nella storia europea, in «Il Mulino», a. XXXVII (1988), fasc. 3 [n. 317], pp. 375-384; Il giuramento universitario tra corporazione, ideologia e confessione religiosa, in L. Avellini, A. Cristiani, A. De Benedictis (a cura di), Sapere e/è potere. Discipline, Dispute e Professioni nell’Università Medievale e Moderna. Il caso bolognese a confronto, Atti del convegno (Bologna, 13-15 aprile 1989), 3 voll., Bologna, Istituto per la Storia di Bologna, 1990, vol. III (Dalle discipline ai ruoli sociali, a cura di A. De Benedictis, intr. di P. Schiera), pp. 23-35; Le università nell’età confessionale tra Chiese e Stati (secoli XV-XVII), in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico», vol. XVII (1991) [ma: 1992], pp. 11-23.
[5] Ci si riferisce, infatti, a P. Prodi, Il potere e l’impotenza dell’università, in «Il Mulino», a. XLII (1993), fasc. 4 [n. 348], pp. 677-685; molte delle tesi lì avanzate, comunque, vengono riprese anche in un altro articolo di Prodi, L’ateneo irresponsabile, in «Il Mulino», a. XLV (1996), fasc. 3 [n. 365], pp. 565-571.
[6] Alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, il sacerdote cattolico Lorenzo Milani diede vita sulle colline sopra Firenze, nella sua parrocchia di S. Andrea a Barbiana, ad un originale esperimento scolastico e pedagogico, di stampo anti-autoritario, aperto ai figli dei lavoratori più umili della zona. Dagli anni Sessanta in poi, alcune forze politiche parlamentari – e talvolta anche extra-parlamentari – della Sinistra italiana videro in don Milani un importante intellettuale che, pur dall’interno della Chiesa cattolica, sposava con convinzione molte delle tesi marxiste e metteva in luce, cercando di porvi rimedio, i mali procurati dalla cosiddetta “società borghese e classista”. Al medesimo tempo, le sue prese di posizione, i suoi metodi educativi e i suoi scritti provocarono sovente dure reazioni delle gerarchie ecclesiastiche vaticane. Il celebre motto di don Milani, «I care», a cui accenna Prodi nella risposta seguente, intendeva contrapporsi esplicitamente allo slogan mussoliniano «Me ne frego».
[7] Il Partito Democratico è nato ufficialmente nel 2007 dall’unione delle due maggiori forze politiche di Centro-Sinistra presenti nelle due Camere italiane, i Democratici di Sinistra e la Margherita. Ha partecipato alle elezioni politiche del 13-14 aprile 2008, vinte dallo schieramento di Centro-Destra (composto da Popolo della Libertà e Lega Nord), e ha ottenuto 217 seggi alla Camera e 118 seggi al Senato.
[8] I decreti delegati del 1974 introdussero in Italia nella scuola organi collegiali e una certa autonomia didattica; in realtà, si aprirono le porte soltanto ad esigue rappresentanze dei genitori, mentre il territorio e le sue istituzioni non vennero coinvolti.
[9] Prodi apre la voce Pubblico e privato con la seguente citazione: «Dico che el duca di Ferrara che fa mercatantia [commerci], non solo fa cosa vergognosa, ma è tiranno, faccendo quello che è officio de’ privati e non suo: e pecca tanto verso e populi, quanto peccherebbono e populi verso lui intromettendosi in quello che è officio solum del principe» (F. Guicciardini, Ricordi. Con il saggio “L’uomo del Guicciardini” di Francesco De Sanctis, a cura di S. Marconi, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 133: si tratta del “ricordo” n. 94 della redazione “B” [1528]). Parlando in questo luogo del «duca di Ferrara», Guicciardini intende riferirsi a Borso d’Este (1413-1471: sebbene egli regga Ferrara come “signore” e “marchese” dal 1450 e sia anche duca di Modena e Reggio Emilia e conte di Rovigo dal 1452, diventa “duca” di Ferrara solo nell’aprile 1471, quattro mesi prima di morire) e ai suoi due successori, Ercole I (1431-1505, in carica dal 1471) e Alfonso I (1476-1534, al potere dal 1505).
Nel “ricordo” n. 93 della redazione “C” (1530), invece, Guicciardini scrive: «Quando uno privato erra verso el principe e committe crimen lese maiestatis volendo fare quello che appartiene al principe, tanto erra uno principe e committe crimen lesi populi, faccendo quello che appartiene a fare al popolo e a’ privati: però merita grandissima riprensione el duca di Ferrara faccendo mercatantie, monopoli [commerci dei privati] e altre cose meccaniche [attività comuni] che aspettano a’ fare a’ privati» (ibid., p. 75; si noti che, in questo volume, la versione “B” è posposta alla “C”).
Un illustre concittadino di Guicciardini, Niccolò Machiavelli, si era fatto latore, nel 1513, di una posizione analoga: «[uno principe] debbe animare li sua cittadini di potere quietamente esercitare li esercizii loro [le loro attività], e nella mercanzia e nella agricultura et in ogni altro esercizio delli uomini, e che quello non tema di ornare la sua possessione per timore che li sieno tolte, e quell’altro di aprire uno traffico per paure delle taglie [imposte]» (cfr. N. Machiavelli, Il Principe, a cura di G. Inglese, con un saggio di F. Chabod, Torino, Einaudi, 1995, pp. 152-153: cap. XXI). Alcune considerazioni interessanti sul principe de facto “assoluto”, su colui – cioè – che s’intromette negli affari dei privati cittadini, non distinguendo lo Stato dalla società civile e rivelando, così, tentazioni tiranniche, cfr. F. Prieto, Manual de historia de las teorías políticas, Madrid, Union, 1996, p. 253; A. Hermosa Andújar, “El Príncipe” y las leyes de la política, primero estudio preliminar de N. Maquiavelo, El Príncipe, traducción y estudios preliminares de A. Hermosa Andújar, Buenos Aires, Prometeo, 2006, pp. 13-43: 19-21.
[10] Tanto l’avvio del processo di privatizzazione (o, come sostiene polemicamente Prodi, di «pseudo-privatizzazione») quanto la nascita di società di origine pubblica, ma a gestione privata, risalgono alla stagione degli effimeri governi “tecnici” dei primi anni Novanta del secolo scorso.
[11] Si allude a P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna, Il Mulino, 2000.
[12] L’obiettivo polemico è rappresentato da tutti quegli influenti intellettuali italiani che da tempo sono ospiti fissi sui mass media evidentemente per fungere da “custodi del limite”, o “testimoni dell’ortodossia”, e per soffocare ogni dibattito sensato a suon di slogan gridati e anatemi fuori del tempo.
[13] Prodi allude, in particolare, a quel crescente senso di malessere di molti cittadini italiani nei confronti della cosiddetta “casta” dei politici, insofferenza che sta determinando il rafforzamento negli ultimi mesi del movimento d’opinione guidato dal comico genovese Beppe Grillo, il cui blog è uno dei più cliccati dell’intera rete web mondiale (cfr. <https://www.beppegrillo.it>).
[14] Paolo Prodi si riferisce, tra le righe, al fatto che uno dei suoi fratelli è un importante economista e uomo politico di Centro-Sinistra, Romano Prodi (n. 1939), il quale è stato due volte presidente del Consiglio dei ministri in Italia (1996-1998 e 2006-2008) e presidente della Commissione Europea (1999-2004).
[15] Silvio Berlusconi (n. 1936), tycoon italiano per antonomasia, è dal 1994 il capo dello schieramento parlamentare di Centro-Destra, prima come presidente del partito Forza Italia (da lui fondato), poi – dal 2008 – come leader del Popolo della Libertà, movimento politico nato dalla confluenza dei due maggiori partiti italiani di Centro-Destra, Forza Italia e Alleanza Nazionale. È appena diventato per la quarta volta presidente del Consiglio dei ministri (aveva ricoperto questa carica già nel 1994, nel 2001-2005 e nel 2005-2006).