Araucaria. Revista Iberoamericana de Filosofía, Política y Humanidades | Sección digital
Sección digital Otras reseñas Diciembre de 2008
Religione e politica in Montesquieu.
A proposito di una recente pubblicazione
Domenico Felice
Quand on critique un ouvrage, et un grand ouvrage, il faut tâcher de se procurer une connaissance particulière de la science qui y est traitée. La critique pouvant être considérée comme une ostentation de sa supériorité sur les autres […], ceux qui s’y livrent méritent bien toujours de l’équité, mais rarement de l’indulgence. Cet art de trouver dans une chose, qui naturellement a un bon sens, tous les mauvais sens qu’un esprit qui ne raisonne pas juste peut lui donner, n’est point utile aux hommes: ceux qui le pratiquent ressemblent aux corbeaux qui fuient les corps vivants et volent de tous cotés pour chercher des cadavres.
Montesquieu, Défense de L’Esprit des lois, IIIe Partie.
C’est mal raisonner contre la religion, de ressembler dans un ouvrage une longue énumération des maux qu’elle a produits, si l’on ne fait de même celle des biens qu’elle a faits. Si je voulais raconter tous les maux qu’ont produits dans le monde les lois civiles, la monarchie, le gouvernement républicain, je dirais des choses effroyables. Le christianisme est plein de bon sens.
Montesquieu, De l’Esprit des lois, XXIV, 2, 26.
Come sempre accade, quando l’interesse per un grande ‘classico’ del pensiero filosofico-politico torna ad essere particolarmente significativo [1] , cominciano ad apparire, accanto a pubblicazioni pregevoli, studi o raccolte di studi quanto mai discutibili: questo è il caso del recente volume Montesquieu, l’État et la religion, in cui sono riunite le relazioni presentate al colloquio organizzato a Sofia, nei giorni 7-8 ottobre 2005, dalla Società Montesquieu e dalla Nuova Università Bulgara, in occasione del 250° anniversario della morte dell’autore dell’Esprit des lois [2] . Chi si aspettasse una ulteriore originale messa punto dello studio, assai articolato e complesso, di Montesquieu sulle religioni, resterà deluso. Della vasta enquête montesquieuiana sulle grandi religioni come il cristianesimo (nelle sue varie forme), l’islam, il confucianesimo, l’induismo o il buddismo, l’attenzione del volume è rivolta esclusivamente al primo, e in particolare alla sua variante principale, il cattolicesimo. Ora, senza minimamente negare lo spazio rilevante che a tale confessione è riservata negli scritti di Montesquieu, è quanto mai arbitrario ‘restringere’ ad essa il suo pensiero in materia religiosa, ovvero non dire nulla o quasi dei suoi giudizi sulle altre religioni, e in particolare sull’islam e sul confucianesimo, i quali, seppure in misura minore rispetto al cristianesimo, occupano anch’essi uno spazio cospicuo, e di grande interesse, nei suoi scritti dati e non dati alle stampe. Ma la cosa più grave è il modo singolarmente parziale e tendenzioso in cui viene esaminata la raffigurazione montesquieuiana del cattolicesimo, a cominciare dalla prima relazione, che è quella che dà il ‘tono’ al volume. Ne è autrice Céline Spector, la più prolifica studiosa di Montesquieu di questo primo scorcio del nuovo millennio, come attestano, oltre a svariati articoli [3] , i suoi due corposi volumi (di 300 e 500 pagine), intitolati, rispettivamente, Montesquieu. Pouvoirs, richesses et sociétés [4] e Montesquieu et l’émergence de l’économie politique [5] . Gli obiettivi della sua relazione, pomposamente [6] intitolata Naturalisation des croyances, religion naturelle et histoire naturelle de la religion: le statut du fait religieux dans «L’Esprit des lois» e lunga quasi 40 pagine (pp. 40-78), sono due: 1) evidenziare che, diversamente da quanto dichiara, Montesquieu «subordina la religione alla politica», ovvero il cristianesimo allo Stato; 2) sottolineare che, «en amont» di questa «subordination», egli compie un’altra più importante operazione: «naturalise» il cattolicesimo, «en le reconduisant à des “motifs d’attachement”» (p. 61). Il luogo dell’Esprit des lois in cui ‘si consuma’ la «subordinazione» è il libro XXIV, nel quale Montesquieu «envisage surtout la foi en tant que “motif réprimant” (facteur de crainte, véritable “frein” agissant sur les passions»); il luogo, invece, in cui si ‘manda ad effetto’ la «naturalizzazione del cattolicesimo» è il libro XXV, in cui egli «appréhende [la foi] comme un “sentiment”, associé à l’amour plutôt qu’à la crainte» (p. 62).
Circa il libro XXIV, la conclusione dell’autrice è la seguente:
L’éloge de la religion chrétienne […] n’a de sens qu’en ce que celle-ci atténue la férocité des princes, tant dans le domaine de la sureté extérieure et du droit des gens […] que dans le domaine de la sureté intérieure […]. L’audace de l’auteur de L’Esprit des lois doit être mesurée ici: le christianisme [= le catholicisme] n’est pas seulement l’auteur de véritables barbaries, il apparait aussi comme l’équivalent fonctionnel du commerce ou de l’économie: sa fonction modératrice est analogue – prévenir o contrer les abus du pouvoir […]. Là où l’économie régule par l’intérêt entendu come désir de profit dans le monde, espoir de gagner et crainte de perdre [7] , la religion régule par l’espoir ou par la crainte des récompenses et des peines de l’autre monde; l’une influence les conduites par le désir des biens matériels d’ici bas, l’autre par le désir des biens de l’au-delà – d’où le conflit possible entre les deux logiques, celle de la vie active et de la vie contemplative. Montesquieu subordonne ainsi la Cité de Dieu à la Cité de l’homme, qui lui assigne ses formes et ses fins (pp. 59-60; enfasi di Spector).
Le osservazioni che si potrebbero fare sono davvero tante, ma – per rispetto alla pazienza del lettore – mi limito a farne quattro.
La prima: ognuno ha il suo credo, e Spector, sulla scia della sua maestra Catherine Larrère [8] , ha il suo: l’economia. Essa «emerge», come recita il titolo del suo ultimo volume, con Montesquieu ed è la chiave di volta del suo sistema di pensiero. È ‘la misura di tutte le cose’, anche della religione cristiana, la quale perciò è il suo «equivalente funzionale». Il cristianesimo pensa a ‘salvare’ l’anima, l’economia a ‘salvare’ il corpo, il quale comunque è superiore all’anima e perciò le assegna «le sue forme e i suoi fini» [9] . La tesi è decisamente nuova. Che cosa dire? Anzitutto, che per Montesquieu il cristianesimo non è l’equivalente di nulla, dato che esso è per lui sia il maggior bene ultraterreno (ha come «objet» «la félicité de l’autre vie»: EL, XXIV, 3 [10] ), sia il primo dei beni in questa terra (esso è «le plus grand bien que les hommes puissent donner et recevoir»: EL, XXIV, 1). Ma per l’autrice nel capoverso dove Montesquieu enuncia questa importante tesi farebbe, non si capisce come né ella ce lo spiega, dell’«ironia» [11] . In secondo luogo, è solo parzialmente vero che la «funzione moderatrice» del cristianesimo sia «analoga» a quella del commercio/economia. Infatti: il cristianesimo «adoucit les mœurs» (EL, XXIV, 4); il commercio invece le «adoucit» e le «corrompt» (EL, XX, 1). Il primo ha fatto compiere un straordinario salto di qualità (un salto che «la nature humaine ne saurait assez reconnaître»: EL, XXIV, 3) sia al diritto internazionale che al diritto politico/pubblico, il secondo invece genera sì la pace tra le nazioni, ma non l’«unione» tra i privati cittadini, che al contrario ‘isola’ tramite la mercificazione totale delle «azioni umane», delle «virtù morali» e delle più piccole cose che «l’umanité demande»:
L’effet naturel du commerce est de porter à la paix […]. Mais, si l’esprit de commerce unit les nations, il n’unit pas […] les particuliers. Nous voyons que dans les pays où l’on n’est affecté que de l’esprit de commerce, on trafique de toutes les actions humaines, et de toutes les vertus morales: les plus petites choses, celles que l’humanité demande, s’y font ou s’y donnent pour de l’argent (EL, XX, 2; enfasi mia).
Inoltre: il cristianesimo modera il potere sia con i suoi i precetti «fixes» (EL, XXVI, 2), che ruotano attorno all’amore e alla mitezza («douceur») (EL, XXIV, 1, 3-4), sia – nel caso del cattolicesimo – in quanto «potere che arresta (arrête) il potere» (il potere del clero cattolico arrête, assieme a quelli della nobiltà e dei Parlamenti giudiziari, il potere del monarca: EL, XI, 4; II, 4; cfr. infra); il commercio invece lo fa solo «en vertu de sa mobilité» (p. 60), ovvero tramite le «lettere di credito», «biens invisibles, qui peuv[ent] être envoyés partout, et ne laiss[ent] de trace nulle part» (EL, XXI, 20).
Stando così le cose, sarebbe stato molto più corretto parlare di «analogia» non del cristianesimo col commercio/economia, ma del commercio/economia col cristianesimo, il quale è comunque un qualcosa di infinitamente superiore all’economia e svolge una funzione moderatrice (come s’è accennato) più ampia e complessa. È esso, e non il profitto, che fa la nostra «felicità (bonheur)» anche in questa vita [12] ; è esso e non il profitto, il primo dei beni terreni («le plus grand bien», «le premier bien»: EL, XXIV, 1, 25; Défense, IIe Partie, «Tolérance»).
In terzo luogo, in nessun luogo dell’Esprit des lois Montesquieu sostiene la subordinazione della Città di Dio alla Città degli uomini, del cattolicesimo allo Stato o, peggio ancora, del cattolicesimo all’economia. Tra le choses che gouvernent les hommes, elencate in EL, XIX, 4 («Ce que c’est que l’esprit général»), l’economia (o il commercio) non figura, mentre c’è la religione, e in una posizione ‘strategica’: è la prima nella lista dei fattori ‘morali’ («Plusieurs choses gouvernent les hommes: le climat, la religion, les lois, les maximes du gouvernement, les exemples des choses passées, les mœurs, les manières […]»). Come fa a subordinare a sé la religione una chose che per Montesquieu non rientra neppure tra le choses che «governano gli uomini» [13] ? Circa poi il rapporto tra cristianesimo e politica, Montesquieu è chiaro: «A l’égard de la vraie religion [il cristianesimo], il ne faudra que très peu d’équité pour voir que je n’ai jamais prétendu faire céder ses intérêts aux intérêts politiques, mais les unir» (EL, XXIV, 1; enfasi mia). Evidentemente, sprovvista di questa très peu d’équité, Spector ‘finge’ di ignorare questo ‘avvertimento’ montesquieuiano, come pure ‘finge’ di ignorare tutto quanto Montesquieu scrive – e che il compianto Sergio Cotta ha messo magistralmente a fuoco più di quarant’anni addietro [14] – sul potere del clero cattolico come fattore di stabilità, di moderazione e di libertà della monarchia ‘alla francese’, ossia della monarchia basata sui «pouvoirs intermédiaires, subordonnés et dépendants» (EL, II, 4). Credo di capire la ragione di quest’ultima ‘ignoranza’: ‘inchiodata’ all’idea che in Montesquieu l’economia è il motore delle forme politiche e della storia e che tutte le altre choses sono al suo servizio, ovvero, più in concreto, convinta che Montesquieu sia un Mandeville ‘a tutto tondo’ (s’intende, il Mandeville del celebre paradosso vizi privati/pubblici benefici) [15] e un apologista della monarchia francese del suo tempo basata sull’humeur sociable, sull’onore, sul lusso, sulla vanità, ecc. [16] , Spector deve necessariamente passare sotto silenzio il fatto che: 1) la Francia di Montesquieu è «la fille ainée de l’Église catholique» (o quella dei «Rois très-chrétiens», come Luigi XIV); 2) la monarchia ‘alla francese’ che il Nostro disegna nell’Esprit des lois non sta in piedi senza il «potere intermedio» del clero cattolico; 3) la moderazione e la libertà in questo modello di monarchia si danno anche per la presenza dei «privilegi ecclesiastici», privilegi che per Montesquieu vanno «fissati» una volta per tutte, ma nient’affatto aboliti («Je ne suis point entêté des privilèges ecclésiastiques: mais je voudrais qu’on fixât bien une fois leur juridiction»; «Rendez sacré et inviolable l’ancien et nécessaire domaine du clergé; qu’il soit fixe et éternel comme lui»: EL, II, 4; XXV, 5). Mi rendo perfettamente conto che tesi come queste sui «privilegi» del clero cattolico siano un boccone molto amaro per i ‘laicisti’ di tutte le risme, ma tant’è: se si vuole interpretare ‘Montesquieu secondo Montesquieu’, questo boccone bisogna ingoiarlo. Detto in modo un po’ meno polemico: l’uomo del modello di monarchia ‘alla francese’ ideato da Montesquieu [17] non è l’individuo egoista-immorale del paradosso di Mandeville, ma il suddito moderato cattolico, che vive costantemente il contrasto «entre le engagements de la religion et ceux du monde», e la cui religione «travaille tantôt à détruire, tantôt à régler» l’onore in quanto «préjugé» (EL, IV, 2, nota b, 4).
Detta com’è: Montesquieu non separa politica e morale né tantomeno morale e religione. Egli prende atto [18] che nella società monarchica l’onore, il lusso e la vanità fanno funzionare la macchina dello Stato e producono ricchezza, ma ciò non genera/suscita in lui alcuna adesione/ammirazione [19] . L’onore fa compiere il proprio dovere, ma è un «préjugé» ed è «faux»; il lusso è sinonimo di benessere, ma «est fondé […] sur les commodités qu’on se donne par le travail des autres»; la vanità produce dei «biens sans nombre» (EL, III, 6-7; VII, 1; XIX, 9), ma rende «vains» gli individui e la società in cui essi vivono: in questa, si legge nello Spicilège, la vanità «représente la vertu comme le billet de banque représente l’argent» [20] . Tra i suoi effetti c’è la moda, la quale «augmente sans cesse les branches de son commerce», ma lo fa «à force de […] rendre l’esprit frivole» (EL, XIX, 8) [21] .
La si può girare come si vuole, ma Montesquieu è il filosofo del limite o della moderazione, non solo dei governanti ma anche dei governati: il suo ideale è il cittadino moderato nelle repubbliche e il suddito moderato nelle monarchie, non l’individuo hobbesiano-mandevilliano intento a perseguire esclusivamente e illimitatamente il proprio «interesse». Ancora, Montesquieu è esplicito: è vero che gli uomini giudicano le azioni dal «successo», ma questo loro giudizio è un «deplorevole abuso nella morale» [22] : donde la sua condanna della schiavitù antica e di quella moderna tanto degli indigeni americani quanto dei neri (queste fanno sì ‘girare’ l’economia, ma attraverso l’«abbattimento [abattement]» e l’«avvilimento [avilissement]» della natura umana, tramite «il più violento abuso [le plus violent abus]» mai perpetrato contro di essa: EL, XV, 1, 4-5; Pensées, n° 2194). E dietro la morale c’è, ci deve essere, dato che ne è «le meilleur garant» (EL, XXIV, 8), la religione. Anche qui: la si può girare come si vuole, ma l’uomo di Montesquieu è l’esatta antitesi dell’uomo di Mandeville: è l’uomo ‘morale’, non l’uomo ‘immorale’ (e ateo), che agisce – e perfino crede in Dio, secondo Spector [23] – solo per «interesse», per soddisfare i propri ‘appetiti’ materiali e spirituali, fisici e psichici. Montesquieu ammira la morale cristiana («ci rende felici anche in questa vita», è una morale mite [«douce»] [24] e attiva [25] ), la morale degli stoici (essi «n’étaient occupés qu’à travailler au bonheur des hommes, à exercer les devoirs de la société»: EL, XXIV, 10) [26] , la morale confuciana (è «toute pratique» [27] ). Ammira gli uomini che hanno una morale, come gli imperatori stoici (gli Antonini e Giuliano l’Apostata: EL, XXIV, 10 [28] ). Detesta, invece, bollandoli come «mostri», quelli che ne sono privi [29] . È perfino convinto che gli uomini amino la morale: «Les hommes, fripons en détail, sont en gros de très honnêtes gens: ils aiment la morale» (EL, XXV, 2). Dovendo a un certo punto fare i conti con questa affermazione, che mette radicalmente in discussione le sue principali ipotesi interpretative su Montesquieu, Spector è ‘costretta’ a qualificarla, senza darne alcuna spiegazione plausibile, come «l’une des propositions universelles les plus étranges qui soient dans L’Esprit des lois» (p. 67, nota 62; enfasi mia).
Last but not least: mentre gli interessi egoistici, particolari, come la ricerca spasmodica del profitto, o del denaro, fonte/origine della mercificazione totale, ‘isolano/separano’ gli uomini, la religione cristiana li «unisce» e ciò la rende particolarmente adatta al regime monarchico e a tutti i governi moderati (EL, XIX, 18) [30] .
Veniamo ora alle conclusioni circa il libro XXV, e segnatamente al suo capitolo 2 («Du motif d’attachement pour les diverses religions»), attorno al quale pressoché esclusivamente Spector concentra la sua attenzione. In esso si ‘manderebbe ad effetto’, a suo dire, la «naturalisation» del cattolicesimo («indépendamment de la Révélation et des Écritures Saintes, sans privilèges sur les autres religions» [31] ):
Toutes [sic!] les formes dogmatiques et culturelles présentes de façon privilégiée dans le christianisme, et en particulier dans le catholicisme […] se trouvent […] déduites [dans XXV, 2] des désirs ou des intérêts sensibles et spéculatifs de l’homme: dogme d’un Être spirituel suprême, liturgie (culte marial par exemple, renvoyé à un pur et non obscur objet du désir [32] ), idée d’une élection, idée d’un lieu de récompenses et de peines, pureté de la morale, magnificence du culte… Plutôt que dans une «critiques» à la Voltaire, la force subversive [sic! [33] ] de Montesquieu réside dans cette homogénéisation du naturel et du surnaturel, dans l’articulation du matériel et de l’intellectuel, du sensuel et du spirituel (p. 66; enfasi di Spector).
Anche qui le osservazioni che si potrebbero fare sono innumerevoli. Mi limito di nuovo a farne quattro.
Primo. Nel capitolo in questione Montesquieu non si occupa della genesi/nascita delle religioni, ma dei «motifs d’attachement» alla loro «conservazione», come dice espressamente (ma Spector ‘fa finta’ di non saperlo) nella Défense: «Tout le second chapitre du vingt-cinquième livre roule sur les motifs plus ou moins puissants qui attachent les hommes à la conservation de leur religion» [34] . Si occupa, cioè, del perché le religioni durano nel tempo, non del perché o del come nascono. Pertanto, la tesi fondamentale dell’autrice secondo cui l’«origine» della «fede cristiana» starebbe nell’«orgoglio» [35] («origine» che, per giunta, Montesquieu affermerebbe, a suo dire, con «ironia», stante che l’orgoglio è l’opposto dell’umiltà cristiana: pp. 61-62), è priva di fondamento. La credenza in Dio, l’«idea del Creatore», è un’«idée spéculative» (EL, I, 2) e non una passione [36] o un interesse speculativo, è la prima legge naturale [37] , è cioè una legge che l’uomo «riceve» nello «stato di natura» (EL, I, 2). Come ho cercato di mostrare in altra sede, Montesquieu scompone questo stato in due fasi o momenti: (a) lo stato di natura vero e proprio, meramente ipotetico, in cui egli considera l’uomo in quanto tale, anteriormente alla costituzione della società, ed esclusivamente dal punto di vista dei suoi bisogni e delle sue inclinazioni naturali; e (b) la società di natura – o stato di società ‘naturale’ – storicamente esistita (o storicamente possibile), in cui invece egli esamina l’uomo come vivente in società con i suoi simili e dal punto di vista anche delle sue capacità ‘razionali’ e delle sue passioni, per così dire, ‘artificiali’ - ossia acquisite tramite la società e col progredire della civiltà [38] . Questa ‘scomposizione’ è ignota a Spector [39] , che pertanto assimila lo stato di società naturale con la società tout court, ovvero con la società regolata dalla leggi positive, e finisce così col sostenere, contro tutte le dichiarazioni di Montesquieu, che l’idea di Dio non è una legge naturale, e cioè una legge che l’uomo riceve nello stato di natura [40] .
Secundo. In EL, XXV, 2, Montesquieu non pensa affatto solo al cristianesimo sub specie cattolicesimo, ma a tutte le religioni e in particolare alle tre grandi religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo e islam): lo dice espressamente nel capitolo in questione [41] e lo ripete nella Défense (IIe Partie, «Erreur particulier du critique»). Ma per Spector quello che Montesquieu dice non conta, conta invece quello che pensa e che lei, guarda caso, ha il ‘dono’ di conoscere… Simili approcci all’Esprit des lois sono stati sprezzantemente respinti dal Président nella sua Défense, là dove, fingendo di far parlare il suo censore ecclesiastico (per noi: Spector), così scrive:
Vous nous donnez d’ailleurs de très belles choses sur la religion chrétienne; mais c’est pour vous cacher que vous les dites; car je connais votre cœur, et je lis dans vos pensées. Il est vrai que je n’entends point votre livre […]; mais je connais au fond toutes vos pensées. Je ne sais pas un mot de ce que vous dites; mais j’entends très bien ce que vous ne dites pas (Défense, IIe Partie, «Idée générale»; enfasi mie).
E più avanti, sempre nella Défense, in termini altrettanto sprezzanti, il Nostro afferma:
Lorsqu’un auteur [= Montesquieu] s’explique par ses paroles ou par ses écrits, qui en sont l’image, il est contre la raison de quitter les signes extérieures de ses pensées, pour chercher ses pensées; parce qu’il n’y a que lui qui sache ses pensées. C’est bien pis, lorsque ses pensées sont bonnes, et qu’on lui en attribue de mauvaises (Défense, IIIe Partie; enfasi mie) [42] .
Tertio. L’idea che in EL, XXV, 2, Montesquieu si riferisca di fatto solo al cristianesimo cattolico non è nuova: l’avevano già formulata Robert Shackleton [43] e Jean Ehrard [44] . Spector ignora il primo [45] e cita il secondo, ma solo in nota (p. 66, nota 60)... Comunque: la ‘genealogia’ è chiara.
Last but not least: ‘folgorata’ dal vecchio e inconsistente libretto di Albert Hirschman, The Passions and the Interests [46] , Spector vede passioni e interessi dappertutto, in cielo (la religione cristiana, che ha le sue «radici nel cielo» [EL, XXIV, 1], è un «objet du désir» [p. 61], ovvero, come esplicita più avanti nel volume Guillaume Barrera, una «religion de la chair» [47] ), in terra (tutte le altre religioni, avendo le loro «radici sulla terra» [EL, XXIV, 1], sono altrettanti «oggetti del desiderio», e quindi parimenti «religioni carnali») e in ogni luogo (gli esseri umani sono tutti ‘hobbesiani’, ci sono nati e ci restano [48] : hanno un unico ‘motore’, l’interesse, ovvero la/le voluptas/voluptates del corpo (il profitto / i piaceri o i beni materiali) e dell’anima (la vanità - l’orgoglio / i piaceri o i beni spirituali) [49] … Fermiamoci qui [50] e passiamo agli altri contributi.
Intento del secondo contributo (David Diop, Des lectures à l’écriture: la question de la laïcisation de l’État dans «L’Esprit des lois» de Montesquieu, selon les apologistes et les encyclopédistes, pp. 79-109) è evidenziare, attraverso un’«étude lexicale» alquanto cervellotico [51] , che gli elogi del cristianesimo (o dello stoicismo), oppure la dura confutazione del paradosso di Bayle sull’impossibilità di una società di veri cristiani da parte di Montesquieu (EL, XXIV, 1-2, 6, 10, 19), non sono frutto delle sue più profonde convinzioni e acquisizioni ‘scientifiche’, ma sarebbero dettati dalla «présence, presque ménaçante» (p. 99), «irréductible» del «censeur religieux» (p. 108), ovvero che il Nostro non scrive l’Esprit des lois avendo in mente soprattutto l’immortalità, ovvero i lettori di tutti i tempi a venire, ma avendo quasi sempre davanti agli occhi i censori cattolici del suo tempo: gesuiti, giansenisti, docenti della Facoltà di teologia della Sorbona e prelati della Congregazione dell’Indice. L’autore è talmente convinto di quello che dice che interpreta come riferito esclusivamente ai censori cattolici il celebre passaggio della «Préface» all’Esprit des lois, in cui il Président domanda, «solennellement» (p. 99), une grace qu’il craint qu’on ne lui accorde pas: «c’est de ne pas juger par la lecture d’un moment, d’un travail de vingt années; d’approuver ou de condamner le livre entier, et non pas quelques phrases» [52] . Ora, non ci vuole molto per capire che questa «demande» montesquieuiana si riferisce a tutti i lettori dell’Esprit des lois, e forse in primo luogo non ai lettori clericali, ma a quelli anticlericali, ovvero ai lettori laici ‘alla Voltaire’, i quali lo leggono così come lo leggeva appunto Voltaire, ovvero – e il presente volume ne è una dimostrazione palese – ‘a spezzoni’, condannando e approvando sue singole frasi o affermazioni o teorie [53] . A ben vedere, ciò che più ha veramente nociuto e nuoce ad una ‘corretta’ interpretazione e valutazione di Montesquieu non sono state e non sono tanto le critiche da parte cattolica (peraltro gli studiosi cattolici contemporanei più avveduti, come Sergio Cotta, hanno stravisto e stravedono per il Nostro), quanto invece proprio, e soprattutto, a mio giudizio, le letture ‘laiche’ alla Voltaire, le quali, scegliendo quasi sempre a casaccio brani dagli scritti editi e da quelli ‘privati’ di Montesquieu (come le Pensées, lo Spicilège, le note di lettura, ecc.), hanno come unico scopo, pesantemente ideologizzate come sono, di evidenziare che il Président o è un incallito difensore dello ‘Stato feudale dei ceti’, ovvero è un insopportabile reazionario (nonché un succube delle autorità ecclesiastiche, come insinua talora già il Patriarca di Ferney [54] ), o, come accade ad esempio negli studi di Spector, è uno spregiudicato apologista del mondo moderno, in cui a farla da padrone è l’individuo ‘borghese’, ovvero l’individuo individualista-possessivo della coppia Hobbes-Mandeville.
Terzo contributo: Guillaume Barrera, Comment certaine religion contredit l’esprit de l’Antiquité et contrarie les temps modernes, pp. 110-124. L’autore, che è un convinto seguace di Spector, si propone di dimostrare che per Montesquieu il cristianesimo «contredit l’Antiquité» e «contrarie les temps modernes», ma la dimostrazione gli riesce assai più ardua di quel che crede, tanto che è costretto a rinviare, più di una volta, ad un suo libro sul tema, «à paraître prochainement» (pp. 111, 121-122, in nota). Rimandiamo anche noi a questa pubblicazione per un esame approfondito delle sue ‘impegnative’ analisi e ipotesi interpretative, e accontentiamoci per ora della sua ultima «remarque» (una «remarque» in cui egli ci dice con chiarezza che cosa, a suo giudizio, avrebbe fatto Montesquieu «en matière de religion» e che cosa non dobbiamo assolutamente «chercher chez lui»):
L’arme la plus efficace de l’écrivain en matière de religion, ce n’est pas seulement l’ironie [55] , moins maladive et mécanique [chez Montesquieu] que chez Voltaire. C’est le sens de l’historique. Son art consiste à substituer la question du caractère, de l’esprit, en un mot, du génie du christianisme à sa vérité intrinsèque. La science politique s’empare ainsi d’un objet qu’elle dérobe à la philosophie proprement dite, la théologie étant déjà discréditée. Les héritiers de Montesquieu s’en souviendront. Chez lui, en tous cas, ce n’est pas seulement Dieu, mais particulièrement son Fils que l’on cherche en vain (p. 123).
Quarto contributo: Walter Seitter, Montesquieu, Pléthon. Politique et religion dans l’Empire byzantin et dans un projet de réforme tardo-byzantin, pp. 125-139. È suddiviso in due parti. Nella prima, l’autore ricorda alcuni duri giudizi che Montesquieu formula sull’Impero bizantino negli ultimi capitoli delle sue Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (1734) [56] ; nella seconda, suggerisce alcuni «liens» tra Montesquieu e il filosofo bizantino Giorgio Gemisto Pletone (1355/60 ca. - 1452), il cui scopo sembra essere quello di far passare il Président per uno che, al pari di Pletone, considera il cristianesimo responsabile della rovina dell’impero di Bisanzio e che prospetterebbe, con il suo elogio dello stoicismo, la necessità di istituire «une religion nouvelle» (pp. 136-137). Se la prima tesi è largamente fondata (ma con l’importante precisazione, non sottolineata da Seitter, che il cristianesimo bizantino è per Montesquieu «dégénération», «bigoterie», «superstition grossière», «idolâtrie» [57] ), la seconda è completamente campata in aria [58] , come pure l’«association» che lo studioso austriaco propone tra Giuliano l’Apostata, il sovrano «[le] plus digne de gouverner les hommes» per Montesquieu (EL, XXIV, 10), e il «philosophe apostat» Pletone (p. 138). Montesquieu non prospetta un bel nulla in sostituzione del cristianesimo per la semplice ragione, già accennata, che esso è per lui la religione migliore che ci sia, perché ci rende felici tanto in questa vita quanto – cosa che non fa assolutamente lo stoicismo [59] – nell’altra.
Quinto contributo: Marian Skrzypek, Montesquieu et les modèles des rapports entre l’État et l’Église dans les Lumières françaises, pp. 142-152. L’autore sostiene che i philosophes – ai quali Montesquieu è acriticamente assimilato [60] – avrebbero elaborato tre modelli di rapporto tra Stato e Chiesa – il modello della subordinazione, della separazione e della soppressione – ma che solo i primi due si rinverrebbero in Montesquieu, mentre il terzo, quello della «suppresion de l’Église et de la formation d’un État entièrement laïque» (p. 145) è in lui assente, come attesta il suo drastico rigetto del «paradosso» di Bayle sulla preferibilità dell’ateismo all’idolatria (pp. 147-149). A sostegno dell’idea secondo cui Montesquieu enuncerebbe la tesi della «soumission de l’Église à l’État», l’autore adduce, da un lato, la giovanile Dissertation sur la politique des Romains dans la religions (1716), dove la religione è concepita – sulla scia di Machiavelli e dei libertini – come instrumentum regni, e, dall’altro, le severe critiche che nelle Lettres persanes (1721) vengono rivolte al celibato dei preti, all’inattività degli ecclesiastici, ecc. [61] Ora, per quanto concerne la Dissertation, è a tutti noto che Montesquieu negli scritti successivi abbandona completamente questa sua idea della religione come «pura ideologia al servizio del potere» [62] , e, per quanto riguarda le Persanes, che egli attenua significativamente, nell’Esprit des lois, le sue critiche al cattolicesimo [63] . Ma, per Skrzypek, Montesquieu è come il suo avversario Voltaire, per il quale bisogna che «tous les ecclésiastiques soient soumis en tous les cas au gouvernement, parce qu’ils sont sujets de l’État» (p. 143) [64] . Circa poi l’idea secondo cui anche nel Président sarebbe presente la tesi della separazione tra Stato e Chiesa, l’autore scrive:
En proposant la séparation du pontificat et du gouvernement civil dans De l’Esprit des lois, Montesquieu ne se borne pas […] à la déclaration du principe. Il précise que ce problème doit être arrangé d’une manière différente dans les trois types de gouvernement: la séparation est indispensable dans la république, admissible dans la monarchie et inadmissible dans le despotisme, car dans ce dernier cas l’Église peut jouer un rôle modérateur (p. 145).
Skrzypek non indica dove, nell’Esprit des lois, Montesquieu farebbe simili affermazioni, ma è da presumere, visto l’uso del termine «pontificat», che egli abbia in mente l’importantissimo capitolo 8 del libro XXV intitolato appunto «Du pontificat». Ma, primo: in tale capitolo Montesquieu non parla affatto di repubblica, bensì soltanto di monarchia e di dispotismo [65] . Secundo: per quanto riguarda la monarchia, egli adopera parole ben più significative di « séparation… admissible»:
Dans la monarchie – scrive infatti –, où l’on ne saurait trop séparer les ordres de l’État, et où l’on ne doit point assembler sur une même tête toutes les puissances, il est bon que le pontificat [= il supremo potere religioso] soit séparé de l’empire [= imperium, il supremo potere civile] (enfasi mie).
Tertio. Circa il dispotismo Montesquieu scrive:
La même nécessité [de séparer le pontificat de l’empire] ne se rencontre pas dans [ce] gouvernement […], dont la nature est de réunir sur une même tête tous les pouvoirs. Mais, dans ce cas, il pourrait arriver que le prince regarderait la religion comme ses lois mêmes, et comme des effets de sa volonté. Pour prévenir cet inconvénient, il faut qu’il y ait des monuments de la religion; par exemple, des livres sacrés qui la fixent et qui l’établissent. Le roi de Perse est le chef de la religion, mais l’Alcoran règle la religion: l’empereur de la Chine est le souverain pontife, mais il y a des livres qui sont entre les mains de tout le monde, auxquels il doit lui-même se conformer. En vain un empereur voulut-il les abolir, ils triomphèrent de la tyrannie.
Come si vede, il dispotismo di cui qui si ragiona è il «despotisme asiatique» [66] (il grande assente nel volume che stiamo esaminando [67] ), e segnatamente il dispotismo dell’impero cinese e quello della Persia savafide. Inoltre, non vi si menziona l’«Église», ma il Corano e i «libri classici» cinesi. A quale/i Paese/i sta allora pensando Skrzypek quando parla di «despotisme» in cui «l’Église peut jouer un rôle modérateur»? Forse alla Spagna e al Portogallo moderni, dei quali Montesquieu discute ripetutamente (specialmente della Spagna) nell’Esprit des lois. Ma il Président non qualifica affatto gli Stati di questi due Paesi come dispotismi, bensì come monarchie che inclinano al dispotismo nel quale, tuttavia, non precipitano per la presenza appunto della Chiesa, ovvero del pouvoir del clero cattolico: «Où en saraient l’Espagne et le Portugal depuis la perte de leurs lois, sans ce pouvoir qui arrête seul la puissance arbitraire?» (EL, II, 4; enfasi mia) [68] . Montesquieu arriva persino a sostenere che il cristianesimo cattolico è in grado di impedire al dispotismo di attecchire in Paesi come l’Etiopia, ad esso ‘predestinati’ in forza della vastità dello Stato e del clima caldo (EL, XXIV, 3) [69] .
Ma nessuna di queste distinzioni, precisazioni, asserzioni, è presente nel contributo di Skrzypek, il quale ‘si perde’ in generiche quanto fumose enunciazioni, nonché in ‘visioni’ quanto mai peregrine, tipo quella secondo cui dietro la legge della separazione tra Chiesa e Stato, votata in Francia il 5 dicembre 1905, vi sarebbe l’Esprit des lois (p. 152).
Sesto contributo: Catherine Larrère, Montesquieu: tolérance et liberté religieuse, pp. 153-171. L’autrice riassume così le sue analisi:
De la liberté religieuse on peut dire ce qu’il [Montesquieu] dit du commerce: elle a “du rapport avec la constitution”. Dans les gouvernements modérés, on trouve la tolérance, et celle-ci garantit la liberté politique, comme sureté, mais elle ne s’accompagne pas toujours de liberté religieuse. Celle-ci n’existe que dans les gouvernements républicains (ou là “où la république se cache sous la forme de la monarchie”): la liberté religieuse y est alors une des formes des libertés publiques, une manifestation d’indépendance. Quant aux régimes despotiques […] ils ne connaissent ni tolérance ni liberté religieuse (p. 171).
Come si vede, Larrère stabilisce chiaramente due connessioni, governo moderato - tolleranza - libertà religiosa e governo dispotico - intolleranza - assenza di libertà religiosa, precisando che, per quanto riguarda la prima, la libertà religiosa si trova solo nei governi moderati di tipo repubblicano oppure là dove la repubblica «si nasconde» sotto la forma monarchica (EL, V, 19). Trovano riscontro nell’Esprit des lois queste due connessioni e la precisazione? Vediamo.
Montesquieu dà la seguente definizione della tolleranza: «Quand on est maître de recevoir dans un État une nouvelle religion, ou de ne plus la recevoir, il ne faut pas l’établir; quand elle y est établie, il faut la tolérer (EL, XXV, 10) [70] ». Come l’autrice sa benissimo (visto che accenna al «caso» della Cina), i due ‘principi di condotta pratica’, le due «règles» come dice lei (p. 157), contenuti in questa definizione – ne pas établir una nuova religione; la tolérer, se essa è già établie – valgono per tutti gli Stati, non solo per quelli moderati. Montesquieu lo dice esplicitamente per i regimi politici dell’Asia, il continente dove il dispotismo è «naturalizzato (naturalisé)» (EL, V, 14): «Tous les peuples d’Orient, excepté les mahométans, croient toutes les religions en elles-mêmes indifférentes. Ce n’est que comme changement dans le gouvernement, qu’ils craignent l’établissement d’une autre religion (EL, XXV, 15)». Dunque: mentre sul piano religioso, tranne i maomettani, i popoli orientali sono tolleranti («croient toutes les religions en elles-mêmes indifférentes»); sul piano politico, essi temono il diffondersi di una nuova religione in quanto ciò potrebbe comportare uno «changement dans le gouvernement». Sicché: «Un prince qui entreprend dans son État de détruire ou de changer la religion dominante, s’expose beaucoup. Si son gouvernement est despotique, il court plus de risque de voir une révolution, que par quelque tyrannie que ce soit, qui n’est jamais dans ces sortes d’États une chose nouvelle (EL, XXV, 11; enfasi mia)».
Pena «une révolution», lo Stato dispotico deve quindi impedire, al pari di quello moderato (a cui peraltro Montesquieu accenna esplicitamente, seppure solo nel manoscritto dell’Esprit des lois che si è conservato [71] ), il propagarsi di una nuova religione. L’unica differenza sta nel fatto che nel dispotismo, essendo la religione la sola chose fixe [72] , il rischio di un cambiamento del regime politico è maggiore, appunto perché verrebbe a mancargli, o verrebbe sostituito, proprio ciò su cui esso ‘si regge’, la chose che gli dà fixité/stabilità [73] . In altri termini, lo Stato dispotico rischia di più rispetto quello moderato un mutamento di regime politico (e perciò è, deve essere, più intollerante, o, se si preferisce, meno tollerante, in materia di introduzione di una nuova religione), perché in esso, secondo Montesquieu, la religione ha più «influenza» che altrove (EL, V, 14), vuoi in quanto è suo il principale fattore di stabilità, vuoi in quanto attenua, umanizzandola, la passione della crainte/terreur che «lo fa agire/muovere (le fait agir/mouvoir)», ciò che pure contribuisce alla sua durata nel tempo (EL, III, 1; V, 14; VIII, 10) [74] .
Quindi, le connessioni Stato moderato - tolleranza / Stato dispotico - intolleranza proposti da Larrère non stanno in piedi. Il problema è po’ diverso e po’ più complesso. Qualora si tratti dell’introduzione di una nuova religione sia lo Stato moderato che lo Stato dispotico sono parimenti intolleranti. La differenza tra i due è solo di grado [75] : il dispotismo è più intollerante (oppure, è meno tollerante), in quanto esso rischia di più per il ruolo maggiore, cruciale, che vi svolge la religione. Se, invece, questa vi è già stabilita (com’era, ad esempio, in Francia al tempo dell’editto di Nantes [1598-1685], o in Cina, dove, oltre al confucianesimo, c’erano, e continuano tuttora ad esserci, anche altre grandi religioni, come il buddismo e il taoismo), essi devono tollerarla. Gli unici Stati che fanno accezione a quest’ultima «regola» sono quelli musulmani, dato il carattere intollerante dell’islam [76] . In sintesi: in tema di tolleranza/intolleranza, lo Stato moderato e lo Stato dispotico, ad eccezione dei governi maomettani, si comportano allo stesso modo: tollerano una religione già stabilita, non tollerano il radicarsi di una nuova religione. In questo secondo caso, l’unica differenza tra i due è solo di grado: lo Stato dispotico, per il ruolo ‘strategico’ che vi gioca la religione, è più intollerante (o meno tollerante) dello Stato moderato. Sono entrambi intolleranti, ma uno lo è di più, o, inversamente, lo è di meno, dell’altro. Montesquieu è, vuole essere, il filosofo del più e del meno [77] , ovvero il filosofo delle sfumature [78] . Bisogna allora coglierle, e ‘raccordare’ ad esse i propri ‘schemi’, e non, viceversa, ‘raccordare’ – ovvero ‘costringere’ – le sfumature di Montesquieu entro i propri schemi.
E veniamo alla questione della libertà religiosa. Come s’è visto, Larrère ritiene che essa si dia solo nelle repubbliche, ma non fornisce al riguardo alcun esempio né rinvia ad alcun luogo dell’Esprit des lois o di altre opere di Montesquieu, per cui non si riesce né a consentire né a dissentire da lei. Si sofferma invece sull’Inghilterra, considerata da Montesquieu una nazione «où la république se cache sous la forme de la monarchie». Ora, su questa famosa affermazione montesquieuiana si è soffermato a lungo Lando Landi nella sua monumentale monografia su L’Inghilterra e il pensiero politico di Montesquieu, pervenendo alla conclusione, a mio giudizio rispettosa dei testi e perciò condivisibile, che per Montesquieu l’Inghilterra uscita dalla Glorious Revolution non è una né una repubblica né una cripto-repubblica, ma una monarchia tendente alla repubblica, e cioè «un sottotipo del tipo monarchia» [79] . Per Larrère, invece, l’Inghilterra montesquieuiana sarebbe, dal punto di vista della «constitution», una monarchia; dal punto di vista delle sue «mœurs politiques», una repubblica. Ora, a parte il discutibile uso di un’espressione come mœurs politiques nell’esaminare il pensiero di un autore che, come Montesquieu, distingue nettamente «lois», «mœurs» e «manières» (EL, XIX, 16), l’unico argomento che l’autrice adduce a favore della sua tesi sono un paio di citazioni da EL, XIX, 27 («Comment les lois peuvent contribuer à former les mœurs, les manières et le caractère d’une nation»), dalle quali ella ricava l’opinione che nell’Inghilterra raffigurata nell’Esprit des lois la libertà sarebbe concepita, oltre che come «sicurezza», anche come «indipendenza», ovvero come «la capacité de faire, à son gré, ce que l’on veut» (pp. 161-162). Ma i due brani montesquieuiani citati – «tout citoyen […] aurait sa volonté propre, et ferait valoir à son gré son indépendance»; «Comme chaque particulier, toujours indépendant, suivrait beaucoup ses caprices et ses fantaisies» – non autorizzano, a mio avviso, una simile opinione, perché si riferiscono non alla libertà come «capacità/diritto di fare», bensì alla libertà come «capacità/diritto di pensare». Peraltro, Montesquieu contrappone drasticamente «libertà» e «indipendenza», ovvero nega che sia libertà l’indipendenza quale diritto del popolo di «faire ce qu’il veut» [80] . Né sta in piedi l’idea della libertà-indipendenza come «participation au pouvoir politique des citoyens des républiques» (p. 161). La partecipazione del popolo alla gestione del potere è stata per Montesquieu un «grand inconvénient», un «grand vice», delle democrazie antiche [81] , ai quali si è posto rimedio, a partire dal Medioevo barbarico, con l’istituto della rappresentanza (EL, XI, 6, 8), un istituto che costituisce – lo dice proprio in EL, XIX, 27 – «le grand avantage» del governo inglese settecentesco «sur les démocraties anciennes, dans lesquelles le peuple avait une puissance immédiate». Insomma, Larrère fa una gran confusione, da cui non si ricava nulla di buono per la comprensione della posizione di Montesquieu in merito al tema della libertà religiosa. Cose assennate, invece, ella dice esaminando la «Très humble remontrance aux Inquisiteurs d’Espagne et de Portugal» (EL, XXV, 13), la quale «peut être considéré comme une défense de la liberté religieuse» (p. 154). Da questo rilevantissimo testo montesquieuiano, che Voltaire non mancherà di citare nel suo celebre Traité sur la tolérance (cap. XV), si ricavano due importanti argomenti – più che mai attuali anche nel nostro tempo – a favore della tolleranza e della libertà religiosa: (1) la conversione religiosa deve escludere qualsiasi «recours à la contrainte physique»; (2) «les rapports entre les différentes religions (ou les différentes sectes d’une même religion) doivent être réglée par un principe de réciprocité, qui est celui de la règle d’or (ne fais pas à autrui ce qui tu ne voudrais pas qu’on te fît) et du droit naturel (qui enjoint de considérer les hommes comme également libres)» (p. 168; cfr. anche pp. 170-171).
Settimo contributo: António Carlos dos Santos, Montesquieu: religion, politique et intolérance dans le monde ancien, pp. 172-185. Le tesi dell’autore sono estremamente semplici: prima dell’apparizione del cristianesimo regnava nel mondo occidentale la tolleranza; con l’avvento del cristianesimo si è instaurata l’intolleranza; il compito per noi oggi è di restaurare «l’idée de tolérance comme équilibre politique et religieux» del mondo antico [82] . Che cosa abbiano a che fare simili ‘vedute’ con un pensatore complesso, raffinato e soprattutto moderato come Montesquieu, non si capisce proprio. Ovvero: basta dare una ‘rapida occhiata’, come fa Dos Santos nella sua relazione, sulla giovanile Dissertation sur la politique des Romains dans la religion, o sui giudizi relativi alla politica religiosa di Giustiniano contenuti nelle Considérations sur les Romains, per stabilire ‘correttamente’ ciò che Montesquieu pensava della religione nel mondo greco-romano [83] e del cristianesimo da quando è sorto fino al Settecento, e quali siano, oggi, i compiti che ci attendono? Evidentemente no, donde viene qui a pennello il severo ‘consiglio’ che il Président indirizza agli esaminatori ‘troppo zelanti’ del suo pensiero: «Quand on écrit sur les grandes matières, il ne suffit pas de consulter son zèle [leggi: le proprie ubbie ideologiche], il faut encore consulter ses lumières; et, si le ciel ne nous a pas accordé de grands talents, on peut y suppléer par la défiance de soi-même, l’exactitude, le travail et les réflexions (Défense, IIIe Partie)».
Ottavo contributo: Sergey Zanin, Rousseau, Montesquieu et la «religion civile», pp. 186-212. Qui gli ‘insulti’ a Montesquieu toccano l’apice. Basta un solo esempio: l’autore – che ignora, tra l’altro, che Rousseau redasse nel corso del 1749 degli estratti dell’Esprit des lois a uso dei coniugi Dupin, ovvero degli autori della prima critica sistematica del capolavoro montesquieuiano [84] –, riferisce al papa di Roma il capitolo sul Pontificat del libro XXV e così scrive:
[Montesquieu] qualifie de “despotique” le gouvernement du “pontife” dont “la nature est de réunir sur une même tête tous les pouvoirs” (EL, XXV, 8). Dans son analyse du gouvernement sous lequel l’Église a “un chef visible” qui serait le chef d’État Rousseau, tout de même que Montesquieu, critique le despotisme d’un pareil gouvernement et manifeste son anticléricalisme (p. 192) [85] .
Che dire? Che è davvero desolante che, dopo 250 anni di studi e dibattiti, anche aspri, sull’Esprit des lois, a qualcuno sia venuto in mente, attribuendola a Montesquieu, una insulsaggine del genere!
Nono contributo: Catherine Maire, Montesquieu et la Constitution civile du clergé, pp. 212-228 [86] . Si tratta dell’unico contributo sensato di tutta la raccolta. E tuttavia, anche qui, non si possono non avanzare alcune riserve radicali. L’autrice sostiene che «le regard» di Montesquieu sulla religione non è quello «sociologique», mirante ad «abbracciare» le leggi, i costumi, le usanze e le religioni di tutti i popoli della terra [87] , ma «le regard gallican», il quale «vise à ne considérer que les rapports du christianisme à la société, à n’examiner les liens et les frontières entre le deux souverainetés, celle de l’Église et celle de l’État, que sous la perspective de la catégorie de l’utilité sociale, à l’aune “du bien que l’on en tire dans l’état civil”». E non basta: dopo aver ‘ristretto’ lo sguardo di Montesquieu al solo cristianesimo, l’autrice va ancora oltre e sostiene che esso è ‘ristretto’ anche dal punto di vista temporale, dato che «toutes [sic!] les critiques» che il Nostro rivolge a questa religione (nella sua variante cattolica, s’intende)
prennent sens si l’on considère qu’elles participent des nombreux débats qui ont lieu au XVIIIe siècle sur des problèmes qui engagent les rapports entre l’Église et l’État: la Constitution Unigenitus, le célibat des prêtes, le monachisme, les jésuites, les biens ecclésiastiques, la puissance coactive de l’Église, le mariage des protestants, la tolérance civile.
Ora, a parte la bolla Unigenitus (promulgata l’8 settembre 1713), tutti gli altri «problemi» qui elencati (celibato ecclesiastico, monachesimo, gesuiti, beni ecclesiastici, ecc.) non erano stati dibattuti anche prima del XVIII secolo, ad esempio durante la Riforma, la Controriforma e la Guerra dei Trent’Anni? E poi: davvero tutte le critiche di Montesquieu al cristianesimo cattolico si spiegano solo se rapportate alle controversie, alle ‘beghe’ politico-religiose del suo secolo? Questo ‘contestualismo’ a tutti i costi non finisce con l’‘uccidere’ il Nostro, trasformando il suo ‘sguardo d’aquila’ su tutte le religioni, occidentali ed orientali, antiche e moderne, in uno ‘sguardo di piccione’ concentrato solo sui ‘guai’ del cristianesimo cattolico della Francia del suo tempo? Non ha forse egli scritto da qualche parte che era «un francese solo per caso» [88] ? Non ha forse egli riflettuto sui problemi politico-religiosi anche di Roma antica (sia pagana che cristiana), anche dell’Impero cristiano di Bisanzio, anche del Medioevo cristiano europeo? Per un contestualista a tutti i costi non dovrebbero esistere, oltre alle analogie e alle similitudini, anche le differenze, le specificità, le peculiarità, gli eventi irripetibili, ecc.? Diversamente, non finiremmo con l’essere come quel parroco di campagna, al quale degli astronomi facevano vedere la luna in un telescopio, ma egli vi vedeva soltanto il suo campanile (Défense, Ie Partie, «Réponse à la Neuvième Objection»)?
Maire insiste qui, come in altri suoi scritti, nel qualificare Montesquieu come un «gallican modéré», perché egli non sostiene la subordinazione della Chiesa cattolica allo Stato francese. Ma se così è, ed è così, che senso ha definirlo «gallicano»? Il gallicanesimo non è quella dottrina che, in modi più o meno accentuati, ha propugnato proprio la subordinazione della Chiesa allo Stato [89] ? A mio avviso, l’autrice va molto più vicino al vero quando definisce Montesquieu «un auteur catholique qui a beaucoup critiqué la religion chrétienne, tout en essayant de reconnaître ses mérites» (p. 214) e allorché afferma che, se egli si fosse trovato di fronte (ammesso e non concesso che abbia senso un simile «exercice d’histoire fiction») alla Costituzione civile del clero, «loi sacrée de l’Église de France et de la Nation», approvata il 12 luglio 1790, ne avrebbe provato solamente «horreur» (pp. 227-228).
Condivisibili, comunque, sono molte ricostruzioni analitiche e giudizi di Maire. Ne riporto alcuni:
Sans remettre en cause ses privilèges, Montesquieu a beaucoup dénoncé les richesses de l’Église qui ne sont plus le patrimoine des pauvres [...]. Tout en reconnaissant la sacralité et l’inviolabilité de l’ancien domaine du clergé, il préconise de laisser “sortir de ses mains les nouveaux domaines”. Néanmoins, il refuse la contrainte dans la mise en œuvre de ce projet: “Au lieu de défendre les acquisitions du clergé, il faut chercher à l’en dégoûter lui-même; laisser le droit, et ôter le fait” (pp. 218-219).
Dans les Lettres persanes, [Montesquieu] a exprimé une nette préférence pour la religion protestante [90] , plus favorable au développement de la société, au commerce, aux manufactures, à l’agriculture et au peuplement que la catholicisme qui encourage, selon lui, l’idéal d’une vie tranquille et retirée du monde, le monachisme et le célibat […]. [Néanmoins], il ne remet pas en cause le catholicisme comme religion dominante dans la monarchie puisqu’il établit une correspondance entre les deux: “la religion catholique convient mieux à une monarchie et la religion protestante s’accommode mieux d’une république” […]. [Il] s’est engagé à soutenir la religion catholique et les libertés de l’Église qui sont avantageuses en dernière analyse pour la France, fille ainée de l’Église: “La France doit soutenir la religion catholique, qui est incommode à tous les autres pays catholiques et ne lui fait aucun mal. Par là, elle conserve la supériorité sur les autres pays catholiques” (p. 221).
[Montesquieu] défend la politique royale du silence et en particulier les déclarations de 1730 et de 1754 qui posent la bulle Unigenitus comme une loi de l’État. Il y voit comme “une espèce de repos et de point de ralliement entre les citoyens”. En ce sens, Montesquieu n’est pas un partisan des théories conciliaires. Il lui importe de ne pas laisser le clergé “passer a d’autres prétentions, sous prétexte de la dite Bulle”, mais en même temps, il ne veut pas trop limiter la juridiction des évêques: “J’ai toujours pensé que leur juridiction pour la correction des mœurs n’était que trop bornée”. Montesquieu défend en dernière analyse la primauté du successeur de saint Pierre: “Je crois que l’autorité du Pape nous est même politiquement parlant infiniment utile. Car, que deviendrions nous dans cette nation turbulente où il n’y a aucun évêque qui pense comme son voisin?” (p. 222).
Si [Montesquieu] a parlé de l’union des deux pouvoirs, le temporel et le spirituel, il n’a jamais voulu leur fusion organique [91] , moins encore leur indistinction. Séparés mais complémentaires, la Religion et l’État, tels deux organes du gouvernement, devaient à ses yeux, coopérer dans le but commun de former de “bons citoyens” (p. 228).
Decimo e ultimo contributo: Jean Baubérot, Des Lumières à la laïcité, pp. 230-238. L’autore, noto giurista protestante e qualificato studioso della «laïcité française» [92] , propone un’interessante ricostruzione della suddetta laicità in cui però a Montesquieu non viene attribuito alcun ruolo (è nominato solamente un paio di volte e di sfuggita). Anzi, Baubérot conclude il suo intervento con un invito alla «riscoperta» di Bayle, l’autore direttamente e duramente attaccato dal Nostro sia per il suo «paradosso» sulla preferibilità dell’ateismo all’idolatria sia per quello sull’impossibilità di una società di veri cristiani. Non si capisce pertanto perché il presidente onorario della Société Montesquieu, Jean Ehrard, abbia invitato proprio questo studioso a chiudere un convegno su «religione e Stato» in Montesquieu. Per suggerirci forse di ‘dimenticare Montesquieu’ in merito ai problemi del rapporto tra religione e potere, tra cristianesimo e Stato, tra cristianesimo ed Europa [93] ? Lungi da me l’idea di voler fare un qualsiasi processo alle intenzioni, ma certo è molto strano che il convegno sia stato concluso in questo modo.
Qualche battuta finale. Tra i tanti elogi che Montesquieu tesse del cristianesimo, il più significativo è forse quello contenuto in EL, XXIV, 13, dedicato ai «crimes inexpiables». Poiché questo elogio non solo non è esaminato, ma neppure è mai ricordato nei contributi del volume, lo riporto qui in extenso:
La religion païenne, qui ne défendait que quelques crimes grossiers, qui arrêtait la main et abandonnait le cœur, pouvait avoir des crimes inexpiables; mais une religion qui enveloppe toutes les passions; qui n’est pas plus jalouse des actions que des désirs et des pensées; qui ne nous tient point attachés par quelques chaînes, mais par un nombre innombrable de fils; qui laisse derrière elle la justice humaine, et commence une autre justice; qui est faite pour mener sans cesse du repentir à l’amour, et de l’amour au repentir, qui met entre le juge et le criminel un grand médiateur, entre le juste et le médiateur un grand juge: une telle religion ne doit point avoir de crimes inexpiables. Mais, quoiqu’elle donne des craintes et des espérances à tous, elle fait assez sentir que s’il n’y a point de crime qui, par sa nature, soit inexpiable, toute une vie peut l’être; qu’il serait très dangereux de tourmenter sans cesse la miséricorde par de nouveaux crimes et de nouvelles expiations; qu’inquiets sur les anciennes dettes, jamais quittes envers le Seigneur, nous devons craindre d’en contracter de nouvelles, de combler la mesure, et d’aller jusqu’au terme où la bonté paternelle finit.
Di fronte a questo «beau tableau» della religione cristiana [94] , Robert Shackleton, il più noto e intransigente assertore di un Montesquieu deista [95] , ha scritto che si tratta di una «retrospective and perhaps nostalgic glance at the beliefs which first his mother, and later the fathers of the Oratory, had nurtured him», ovvero di un «vestige of earlier certainty, now elusive and external to Montesquieu, but still worthy to receive respect and praise» [96] . A me pare invece che ci troviamo davanti ad «un des plus beaux morceaux» dell’Esprit des lois [97] , un morceau in cui Montesquieu esprime le sue convinzioni religiose più autentiche, in coerenza con tutto il resto dell’opera, con la Défense e con la sua visione complessiva dell’Europa e della sua storia: un’Europa cristiana (cattolica e protestante), un’Europa moderata dalle leggi, dai costumi e dal cristianesimo, la religione dell’amore, della mitezza e del perdono.
Invito garbatamente il lettore a soffermarsi su alcune affermazioni di Montesquieu: diversamente dalla religione pagana, che «arrêtait la main et abandonnait le cœur», la religione cristiana «enveloppe toutes les passions», è «jalouse» sia delle «actions» sia dei «désirs» e delle «pensées», ci tiene «attachés […] par un nombre innombrable de fils», si lascia indietro «la justice humaine, et commence une autre justice», è fatta «pour mener sans cesse du repentir à l’amour, et de l’amour au repentir».
Prego infine il lettore di soffermarsi sulle battute finali del ‘pezzo’ in questione, dove il filosofo del limite, con inusitato ardire, ‘applica’ a Dio stesso, e precisamente alla sua bontà/misericordia, il concetto di limite, liberando una volta per tutte il cristianesimo dall’accusa di perdonismo a tutti i costi che da sempre gli viene rivolto. Questa religione (di cui il cattolicesimo era ed è, con buona pace dei contributori di questo volume, la maior pars) «fa comprendere a sufficienza (fait assez sentir)» che, se non vi è delitto che, per sua natura, sia inespiabile,
toute une vie peut l’être, qu’il serait très dangereux de tourmenter sans cesse la miséricorde par de nouveaux crimes et de nouvelles expiations; qu’inquiets sur les anciennes dettes, jamais quittes envers le Seigneur, nous devons craindre d’en contracter de nouvelles, de combler la mesure, et d’aller jusqu’au terme où la bonté paternelle finit (enfasi mie).
[1] L’ultimo decennio (1998-2008) registra una vera e propria ‘esplosione’ dell’interesse e degli studi su Montesquieu: per l’Italia, vedi D. Felice, Pour l’histoire de la réception de Montesquieu en Italie (1789-2005), avec la collaboration de G. Cristani, Bologna, Clueb, 2006, cap. VI; per il resto del mondo, cfr. la rubrica Bibliographie della «Revue Montesquieu» (1997 ss.), reperibile on line, e del Site Montesquieu: < https://montesquieu.ens-lsh.fr >.
[2] Montesquieu, l’État et la religion, Colloque de Sofia (7 et 8 octobre 2005), précédé d’une table ronde État et religion en Bulgarie, en France et dans l’Europe d’aujourd’hui, avant-propos de Jean Ehrard, président d’honneur de la Société Montesquieu, «Cahiers Montesquieu», hors série, Sofia, Éditions Iztok-Zapad, 2007. Tra le pubblicazioni pregevoli più recenti, mi limito a segnalare i volumi di R. Minuti, Orientalismo e idee di tolleranza nella cultura francese del primo ’700, Firenze, Olschki, 2006, il cui ampio capitolo conclusivo è interamente dedicato a Montesquieu: «Montesquieu, l’Oriente religioso e la tolleranza», pp. 331-402; e di M. Platania, Montesquieu e la virtù. Rappresentazioni della Francia di Ancien Régime e dei governi repubblicani, Torino, Utet, 2007; nonché, su Montesquieu e la religione, i saggi di L. Bianchi: Nécessité de la religion et de la tolérance chez Montesquieu. La «Dissertation sur la politique des Romains dans la religion», in Lectures de Montesquieu, Actes du Colloque de Wolfenbüttel (26-28 octobre 1989) réunis par E. Mass et A. Postigliola, Napoli-Paris-Oxford, Liguori-Universitas-Voltaire Foundation, 1993, pp. 25-39; Religione e tolleranza in Montesquieu, «Rivista di storia della filosofia», 49 (1994), pp. 49-71 (nuova versione: Montesquieu e la religione, in Leggere l’«Esprit des lois». Stato, società e storia nel pensiero di Montesquieu, a cura di D. Felice, Napoli, Liguori, 1998, pp. 203-227); La funzione della religione in Europa e nei paesi orientali, in L’Europe de Montesquieu, Actes du Colloque de Gênes (26-29 mai 1993) réunis par A. Postigliola et M.G. Bottaro Palumbo, Napoli-Paris-Oxford, Liguori-Universitas-Voltaire Foundation, 1995, pp. 375-387; Histoire et nature: la religion dans «L’Esprit des lois», in Le temps de Montesquieu, Actes du colloque international de Genève (28-31 octobre 1998) pubbliés par M. Porret et C. Volpilhac-Auger, Genève, Droz, 2002, pp. 289-304; Leggi divine e leggi umane. Note sulla religione nel libro XXVI dell’«Esprit des lois», in Libertà, necessità e storia. Percorsi dell’«Esprit des lois» di Montesquieu, a cura di D. Felice, Napoli, Bibliopolis, 20
03, pp. 243-275; «‘L’auteur a loué Bayle, en l’appelant un grand homme’: Bayle dans la «Défense de l’Esprit des lois», in Montesquieu, œuvre ouverte? (1748-1755), Actes du colloque de Bordeaux (6-8 décembre 2001) présentés et publiés par C. Larrère, Napoli-Oxford, Liguori-Voltaire Foundation, 2005, pp. 103-104; gli articoli «Athéisme» e «Pierre Bayle» nel Dictionnaire électronique Montesquieu (2008).
[3] Per una lista completa, vedi il suo Curriculum Vitae: < crephinat.u-bordeaux3.fr/membres/spector/index.html >.
[4] Paris, Puf, 2004.
[5] Paris, Champion, 2006.
[6] La ‘pomposità’ risulta evidente dalla triplice occorrenza di ‘natura’ (naturalisation, naturelle, naturelle) e dall’impegnativo termine «statut». Superfluo rilevare che l’insistenza sulla naturalizzazione delle credenze e sulla religione naturale è fatta in contrapposizione a religioni rivelate o positive.
[7] Qui Spector rinvia in nota al suo Montesquieu et l’émergence de l’économie politique, cit.
[8] Basti qui ricordare la sua interpretazione ‘economicistica’ del pensiero di Montesquieu proposta nella «Introduction» e nei «Commentaires» alle Réflexions sur la monarchie universelle en Europe, in Œuvres complètes de Montesquieu, t. 2, éd. par P. Andrivet, C.P. Courtney, C. Larrère, C. Volpilhac-Auger et F. Weil, Oxford-Napoli, Voltaire Foundation-Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2000, pp. 321-337, 343 (nota 9), un’interpretazione che ‘imperversa’, salvo rare eccezioni, nella raccolta di studi su «Montesquieu et l’empire» apparsa recentemente sulla «Revue Montesquieu», 8 (2005-2006). Sulla ‘devozione’ dell’allieva alla maestra, vedi le abbondanti citazioni e la bibliografia completa (degli scritti della Larrère) nei volumi Montesquieu. Pouvoirs, richesses et sociétés, cit., e Montesquieu et l’émergence de l’économie politique, cit.; su quella della maestra all’allieva, invece, le recensioni della prima ai libri della seconda nella «Revue Montesquieu», 7 (2003-2004), pp. 203-210, 8 (2005-2006), pp. 249-258.
[9] Un’idea del genere trapela anche nel contributo di C. Larrère, pp. 154, 157, 159 (cfr. infra).
[10] D’ora in poi le principali opere di Montesquieu saranno così abbreviate: LP = Lettres persanes; Romains = Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence; EL = De l’Esprit de lois; Défense = Défense de l’Esprit des lois.
[11] «Non sans ironie, le principe de la charité chrétienne se convertit de la sorte en principe du meilleur en politique: “La religion chrétienne, qui ordonne aux hommes de s’aimer, veut sans doute que chaque peuple ait les meilleurs lois politiques et les meilleures lois civiles, parce qu’elles sont, après elle, le plus grand bien que les hommes puissent donner et recevoir (XXIV, 1)”» (p. 58; enfasi mia).
[12] Sull’importanza del concetto di bonheur nel pensiero di Montesquieu, vedi C. Rosso, Montesquieu moraliste: des lois au bonheur, Paris, Ducros, 1971, un testo ignoto all’estensore dell’articolo «Bonheur» nel Dictionnaire électronique Montesquieu, cit.
[13] La tentazione ‘irresistibile’ di ricondurre tutto all’economia (una tentazione tipica del marxismo volgare), porta Spector a fare di Montesquieu un precursore di Marx: vedi in proposito quanto ella scrive, ragionando sulla categoria montesquieuana di subsistance (EL, XVIII, 8), nel suo articolo Sujet de droit et sujet d’intérêt: Montesquieu lu par Foucault, «Astérion», n° 5, 2007, < https://asterion.revues.org/document766.html >: «Montesquieu pose-t-il l’existence d’un “très grand rapport” entre ce que Marx nommera l’infrastructure économique (le mode de production) et la superstructure qu’est l’institution juridique vouée à trancher les différends entre particuliers (le droit civil)». Per un tentativo d’analisi ‘meno ideologizzato’ della suddetta categoria montesquieuiana, vedi Th. Casadei, D. Felice, «Subsistance», «code des lois» ed «état politique» nel libro XVIII dell’«Esprit des lois», in D. Felice (a cura di), Politica, economia e diritto nell’«Esprit des lois» di Montesquieu, in corso di pubblicazione.
[14] S. Cotta, La funzione politica della religione secondo Montesquieu (1966), in Id., I limiti della politica, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 189-190. Spector non ignora evidentemente questo contributo fondamentale di Cotta, ma lo cita ‘con sufficienza’ e senza mai nominare il cattolicesimo, al quale soprattutto Cotta si riferisce nel suo studio (cfr. p. 42, nota 7, del volume in esame). Sul Montesquieu di Cotta, vedi Th. Casadei, D. Felice, Per una filosofia del limite: Sergio Cotta interprete di Montesquieu: «Bibliomanie», n° 14, 2008, < bibliomanie.it/filosofia_limite_sergio_cotta_montesquieu_casadei_felice.htm >.
[15] Vedi, ad esempio, i suoi articoli “Vices privés, vertus publiques”: de la «Fable des abeilles» à «L’Esprit des lois, in Montesquieu and the Spirit of Modernity, ed. by D. Carrithers, Oxford, Voltaire Foundation, 2002, pp. 127-157, e Cupidité ou charité? L’ordre sans vertu, des moralistes du grand siècle à «L’Esprit des lois» de Montesquieu, «Corpus», n° 43, 2003, pp. 23-69.
[16] Vedi il suo Montesquieu. Pouvoirs, richesses et sociétès, cit., che riprende, amplificandole a dismisura, le tesi sostenute da S. Krause nel suo Liberalism with Honour, Cambridge-London, Harvard University Press, 2002, le cui pagine dedicate all’onore nell’Esprit des lois «avrebbero fatto epoca», secondo Spector, nel panorama degli studi critici su Montesquieu («Revue Montesquieu», 6 [2002], p. 262).
[17] Vedi ora su questo modello di monarchia il ricco ed equilibrato contributo di M. Goldoni, L’onore del potere giudiziario: Montesquieu e la monarchia dei poteri intermedi, in D. Felice (a cura di), Politica, economia e diritto nell’«Esprit des lois» di Montesquieu, cit.
[18] Cfr. EL, IV, 2, nota b, dove, parlando delle «règles suprêmes» dell’onore, Montesquieu riprende quanto aveva già spiegato ai dottori della Facoltà di Teologia della Sorbona («XIIe Proposition/Réponse et Explication»: «Il n’est point question ici du droit, mais du fait; c’est ce qui est, et non pas ce qui doit être») e afferma: «On dit ici ce qui est et non pas ce qui doit être. L’honneur est un préjugé que la religion travaille sans cesse tantôt à détruire, tantôt à régler» (enfasi mie); EL, XIX, 5, dove egli suggerisce che in una nazione come la Francia, naturalmente piena di gaiezza, sia meglio «laisser-lui faire les choses frivoles sérieusement et gaiement les choses sérieux»; ed EL, XIX, 6, dove sottolinea l’opportunità di lasciare ai Francesi la loro humeur sociable: «Qu’on nous laisse comme nous sommes».
[19] Ciò vale anche la Réflexion (citata sovente a sproposito dagli studiosi) che Montesquieu fa in EL, XIX, 11, subito dopo aver rilevato come il carattere insieme truffaldino e intraprendente dei Cinesi consenta loro di accrescere il commercio: «Je n’ai point dit ceci [sul carattere e sui successi commerciali dei Cinesi] pour diminuer rien de la distance infinie qu’il y a entre les vices set les vertus: à Dieu ne plaise! J’ai seulement voulu faire comprendre que tous les vices politiques ne sont pas des vices moraux, et que tous les vices moraux ne sont pas des vices politiques; et c’est ce que ne doivent point ignorer ceux qui font des lois qui choquent l’esprit général».
[20] Montesquieu, Spicilège, éd. par R. Minuti et annoté par S. Rotta, in Œuvres complètes de Montesquieu, cit., t. 13, Oxford-Napoli, Voltaire Foundation-Istituto italiano per gli Studi Filosofici, 2002, pp. 521-522 (n° 601). Vale la pena ricordare che Montesquieu vide come il fumo negli occhi l’esperimento, promosso da John Law, di sostituire la moneta metallica con quella cartacea: cfr. LP, CXXXVIII; EL, XXII, 10, in fine.
[21] Un altro effetto è la politesse, che è essenziale nelle manières della società monarchica, ma che «naît de l’envie de se distinguer. C’est par orgueil que nous sommes polis: nous nous sentons flattés d’avoir des manières qui prouvent que nous n’avons pas vécu avec cette sorte de gens que l’on a abandonnés dans tous les âges» (EL, IV, 2). Montesquieu lega strettamente donne-lusso-vanità-moda nelle monarchie, rilevandone benefici e rischi: «Les femmes ont peu de retenue dans les Monarchies; parce que la distinction des rangs les appellent à la Cour, elles y vont prendre cet esprit de liberté qui est le seul qu’on y tolère. Chacun se sert de leur agréments & de leurs passions pour avancer sa fortune; & comme leur faiblesse ne leur permet pas l’orgueil, mais la vanité, le luxe y règne toujours avec elles» (EL, VII, 9); tuttavia, se la «société des femmes» «forme le goût», «gâte les mœurs» (enfasi mie). Al lusso dei Francesi che nasce dalla vanità, il Président sembra opporre il «lusso solido» degli Inglesi fondato sui bisogni reali: «Il y [in Inghilterra] aurait un luxe solide, fondé, non pas sur le raffinement de la vanité, mais sur celui des besoins réels; & l’on ne chercherait guère dans les choses que les plaisirs que la nature y a mis» (EL, XIX, 27; enfasi mie). Vedi anche Pensées, n° 634 («[…] la vanité est sotte partout») e n° 786 («Choses frivoles, qui ne donnent rien à ceux qui en jouissent et dégradent ceux qui s’en occupent»).
[22] «Il est vrai qu’on juge toujours des actions par le succès; mais ce jugement des hommes est lui-même un abus déplorable dans la morale» (Pensées, n° 207; enfasi mie).
[23] Cfr. infra.
[24] Oltre a EL, XXIV, 3-4, vedi anche Romains, XV, e Pensées, n° 551: «Bien que la religion chrétienne n’ait pas fait beaucoup de princes vertueux, elle a néanmoins adoucit la nature humaine; elle a fait disparaître les Tibère, les Caligula, les Néron, les Domitien, les Commode et les Héliogabale».
[25] Cfr. in proposito la durissima confutazione del «paradosso» di Bayle secondo cui «de véritables chrétiens ne formeraient pas un État qui pût subsister». I cittadini cristiani, obietta Montesquieu, sono «infiniment éclairés sur leurs devoirs», hanno un «très grand zèle pour les remplir», sentono «très bien les droits de la défense naturelle» (EL, XXIV, 6).
[26] Cfr. anche la lettera di Montesquieu al vescovo Fitz-James dell’8 ottobre 1750: la morale degli stoici era una «morale pratique» (Œuvres complètes de Montesquieu, sous la direction d’A. Masson, Paris, Nagel, 1950-55, vol. III, p. 1327). Viene da chiedersi e da chiedere: come può essere un seguace/ammiratore di Mandeville un apologista degli stoici, i quali «regardaient comme une chose vaine les richesses, les grandeurs humaines, la douleur, les chagrins, les plaisirs»? Oppure, che «croyaient que tout leur destin était de travailler pour la société» e che «heureux par leur philosophie seule, il semblait que le seul bonheur des autres pût augmenter le leur»? (EL, XXIV, 10; enfasi mie).
[27] «Les législateurs de la Chine [Confucio e i suoi seguaci] furent plus sensés [di quelli dell’India] lorsque, considérant les hommes, non pas dans l’état paisible où il seront quelque jour, mais dans l’action propre à leur faire remplir les devoirs de la vie, ils firent leur religion, leur philosophie et leurs lois toutes pratiques» (EL, XIV, 5; enfasi mie). Cfr. anche EL, XIX, 10-11, 13, 16-20 e XXIV, 19, dove Montesquieu afferma che dalla negazione dell’immortalità dell’anima il confucianesimo e lo stoicismo «ont tiré […] des conséquences, non pas juste, mais admirables pour la société» (enfasi mia).
[28] Per Montesquieu le «réflexions morales», ovvero i Ricordi, di Marco Aurelio, sono «le chef-d’œuvre de l’Antiquité» (lettera a Fitz-James dell’8 ottobre 1750, in Œuvres complètes de Montesquieu, ed. Masson, cit., p. 1327). Vedi anche Pensées, n° 576: «Marc-Antonin. Jamais philosophe n’a mieux fait sentir aux hommes les douceurs de la vertu et la dignité de leur être: le cœur est touché; l’âme, agrandit; l’esprit, élevé». Su Giuliano l’Apostata, che ebbe come modello Marco Aurelio, cfr. pure Romains, XVII, e Pensées, nn° 98, 1711.
[29] Cfr. Romains, XVI: i Romani dovettero allo stoicismo i «migliori imperatori»: Nerva, Traiano, Adriano, i due Antonini; dopo di loro si ebbero «nuovi mostri», come Commodo, Caracalla, Eliogabalo. Vedi anche la lettera già citata a Fitz-James: la morale stoica era «pratique» e «les trois ou quatre empereurs qui eurent cette morale furent des princes admirables, tandis que ceux qui ne l’avoient pas furent des monstres» (Œuvres complètes de Montesquieu, ed. Masson, cit., p. 1327), e la Pensée n° 524: «[…] un prince sans morale est toujours un monstre».
[30] «La religion chrétienne, par l’établissement de la charité, par un culte public, par la participation aux mêmes sacrements, semble demander que tout s’unisse […]. [O]n trouvera dans ceci une des raisons qui font que le gouvernement monarchique et tout gouvernement modéré s’allient mieux avec la religion chrétienne» (EL, XIX, 18; enfasi mia).
[31] «La portée subversive du propos de Montesquieu se mesure ainsi: le catholicisme n’est pas seulement naturalisé (indépendamment de la Révélation et des Écritures Saintes, sans privilèges sur les autres religions); il est également associé à l’esprit de servitude des peuples du midi» (p. 57, nota 36; enfasi mie). Viene da chiedere a Spector: se cattolicesimo e schiavitù vanno di pari passo, che ne è dei sudditi e dei governanti della Francia cattolica moderna?
[32] Non mi è chiaro se Spector stia facendo dell’ironia o se stia brutalmente insultando chi crede nella Madonna; comunque il passo di EL, XXV, 2, a cui ella si riferisce, è il seguente: «Lorsque le peuple d’Ephèse eut appris que les pères du concile avaient décidé qu’on pouvait appeler la Vierge Mère de Dieu, il fut transporté de joie; il basait les mains des évêques, il embrassait leurs genoux; tout retentissait d’acclamations».
[33] Prima «l’audace de l’auteur de L’Esprit des lois» (p. 59), ora la sua «force subversive», altrove «la portée subversive» dei suoi «propositi» (p. 57, in nota): si vede bene che Spector non sta in sé dalla gioia di aver ‘scoperto’ un Montesquieu ‘audace’ e perfino ‘sovversivo’ (ovviamente, nei confronti del cattolicesimo).
[34] Défense, IIe Partie, «Erreur particulier du critique». Montesquieu contesta al suo censore ecclesiastico l’idea secondo cui il capitolo XXIV, 2 sarebbe stato scritto per spiegare perché gli uomini passano da una religione all’altra, nella fattispecie dall’idolatria ad una religione monoteistica.
[35] «Orgoglio» non è termine di Montesquieu, ma del suo censore ecclesiastico. Tuttavia egli, dopo aver sottolineato che in EL, XXV, 2, «il n’est question d’aucun passage d’une religion dans une autre», come crede invece il suddetto censore, afferma – in riferimento non all’idea di Dio, ma a quella della sua gloria e della sua grandezza – che se un cristiano ne prova «satisfaction» e si vuole chiamare questa «soddisfazione» orgoglio, allora essa è «un très bon orgueil».
[36] Spector, palesemente equivocando su quanto scrive Montesquieu, riduce la credenza in Dio (un’«idea speculativa») all’«amour de Dieu» (pp. 63, 71). Va da sé comunque che la prima non esclude il secondo, perciò Montesquieu nella Défense (Ie Partie, «Réponse à la Sixième Objection») conviene con il suo critico ecclesiastico che «la première des lois naturelles est d’aimer Dieu».
[37] «Cette loi qui, en imprimant dans nous-mêmes l’idée d’un créateur, nous porte vers lui, est la première des lois naturelles par son importance […]» (EL, I, 2).
[38] Cfr. D. Felice, Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali. Dispotismo, autonomia della giustizia e carattere delle nazioni nell’Esprit des lois di Montesquieu, Firenze, Olschki, 2005, pp. 158 ss.
[39] Ammesso e non concesso che non l’avesse letta nel mio Per una scienza universale, cit., avrebbe potuto, o meglio dovuto, leggerla in J. Ehrard, L’idée de nature en France dans la première moitié du XVIIIe siècle (1963), Paris, Albin Michel, 1994, pp. 476, 479 e nota 1; o in V. Goldschmidt, Anthropologie et politique. Les principes du système de Rousseau (1974), Paris, Vrin, 1983, pp. 209 ss.; oppure in J.-P. Courtois, Inflexions de la rationalité dans «L’Esprit des lois». Écriture et pensée chez Montesquieu, Paris, Puf, 1999, pp. 202-204, 225, 243-247, studiosi tutti ricordati nella mia succitata monografia.
[40] «A l’état de nature, l’homme est incapable d’avoir des idées spéculatives, et n’a donc pas par nature l’idée de Dieu [… ]; l’homme ne peut acquérir l’idée de la divinité qu’en société, grâce à sa perfectibilité» (p. 63).
[41] Parla esattamente di «religions idolâtres», di «religions qui font nous adorer un Être spirituel», di cattolicesimo, di protestantesimo, di islam, di ebraismo, della religione dei «peuples barbares et sauvages», della «religion des Indes» e della «religion des Shintos».
[42] In concreto: Spector vede (e, sulla sua scia, lo vede anche D. Diop, p. 95) nel «nous» del secondo capoverso di EL, XXIV, 2 («Nous sommes extrêmement portés à l’idolâtrie, et cependant nous ne sommes pas fort attachés aux religions idolâtres; nous ne sommes guère portés aux idées spirituelles, et cependant nous sommes très attachés aux religions qui nous font adorer un Être spirituel»), un «nous européocentré, voire catholique». Ora, a parte il fatto che l’Europa è, da cinque secoli, non solo cattolica, ma anche protestante (e questa suddivisione, per l’Esprit des lois, è conforme sia alla natura/clima che alla storia/cultura europee: EL, XXIV, 4), Montesquieu dice espressamente, nel luogo indicato della Défense, che nello scrivere la frase testé riportata stava pensando all’ebraismo e all’islamismo: perché non credergli? Perché poco dopo, dice Spector, egli parla di «peuples grossiers» e di «peuples éclairés», i primi idolatri, gli altri, invece, monoteisti. Ma: per caso il Dio della religione maomettana, «une religion intellectuel» (ibidem), o quello della religione ebraica, non è anch’esso, come quello dei cattolici, un «Essere spirituale»? In ogni caso, è palese a chiunque legga con un minimo di equità il passo in questione che Montesquieu non sta contrapponendo l’Europa cattolica al resto del mondo idolatra, bensì – e lo dice chiaramente – le religioni politeistiche/idolatriche dei «peuples grossiers» alle religioni monoteistiche (quindi: ebraismo, cristianesimo e islam) dei «peuples éclairés»: «Nous regardons l’idolâtrie comme la religion des peuples grossiers, et la religion qui a pour objet un Être spirituel, comme celle des peuples éclairés» (EL, XXIV, 2). Ora, se così stanno le cose, la tesi di Spector secondo cui il cattolicesimo sarebbe, per Montesquieu, addirittura un’idolatria (p. 65, testo e nota), non è in rotta di collisione con l’identificazione che ella qui propone tra popoli cattolici e popoli éclairés? Oppure Spector sta ragionando secondo la vulgata volterriana-althusseriana (su cui vedi il mio Oppressione e libertà. Filosofia e anatomia del dispotismo nel pensiero di Montesquieu, Pisa, Ets, 2000, «Premessa» e passim), per la quale tutto quello che Montesquieu dice dell’Asia dispotica non si riferisce all’Asia reale, ma alla monarchia assoluta francese, ovvero (per Spector) che tutto quello che Montesquieu dice delle religioni extraeuropee, in primis asiatiche, non si riferisce a tali religioni, ma sempre e solo al cattolicesimo? Viene spontaneo allora chiedersi: queste modalità di approccio all’Esprit des lois non sminuiscono oltre ogni ‘decenza intellettuale’ la ‘smisurata’ impresa teorica di Montesquieu? Che cosa ‘ci guadagniamo’ a dire che Montesquieu pensa e scrive solo per la Francia o solo contro la Chiesa cattolica? Ovvero, che egli pensa e scrive solo per «il nostro cortile»? Ci si può arrovellare o illudere quanto si vuole, ma Montesquieu non è Voltaire (qui: il Voltaire de «il faut cultiver notre jardin»): un simile ‘avvicinamento’, o addirittura ‘assimilazione’, gli avrebbe fatto solo orrore.
[43] Cfr. R. Shackleton, Montesquieu. A Critical Biography, Oxford, Oxford University Press, 1961, p. 338: in EL, XXV, 2, Montesquieu «list seven different reasons […] for adherence to the Christian religion: pleasure at our own intelligence in having selected a non-idolatrous faith (or in other words, intellectual vanity); the gratification afforded to our senses and emotions by the ceremonies of religion; the pride we feel in being able to regard ourselves as selected individuals; the frequency of occupation imposed on us by religions practices; the satisfaction given to our natural tendency to hope and to fear by the belief in heaven and in hell; the attractiveness of the morality taught by the Church […]; and finally, the great appeal made by magnificence and wealth of the visible Church, even to those who can but contrast it with their own poverty». Si noti la stretta somiglianza tra questo ‘pezzo’ di Shackleton e il ‘pezzo’ di Spector riportato più sopra nel testo.
[44] Cfr. J. Ehrard, L’idée de nature en France, cit., p. 467, dove, con rinvio in nota a EL, XXV, 2, si legge: «Spirituel et charnel en même temps, le catholicisme s’accorde parfaitement avec la double nature de l’homme, raisonnable et sensuelle» (enfasi mia).
[45] Ovviamente Spector non ignora la ‘biografica critica’ su Montesquieu di Shackleton, ma non la cita per il tema in oggetto, bensì solo per la questione relativa alle «croyances réelles» di Montesquieu: vedi nota 1 del suo contributo, p. 40.
[46] A.O. Hirschman, The Passions and the Interests. Political Arguments for Capitalism Before its Triumph, Princeton University Press, New Jersey, 1977, trad. it. Le passioni e gli interessi: Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Milano, Feltrinelli, 1979. Spector cita sovente questo testo nei suoi studi, così come fa anche la sua maestra Larrère.
[47] Barrera, che condivide in toto le idee di Spector, ne riassume così la relazione: «[…] le catholicisme est de toutes les religions celle qui par son culte et son dogme flatte le plus l’orgueil et la sensibilité des hommes. Tout le livre XXV l’explique. Céline Spector le rappelait à l’instant. En somme, la religion catholique est vraiment attachante […]. Or, c’est au fond à peu près ce que déclarait, voici un quarte de siècle, un théologien de circonstance aussi peu orthodoxe que Jacques Lacan! Pour lui aussi, soutenue par l’administration romaine, une religion du Père et de l’Incarnation, autrement dit de la chair, méritait l’épithète de “vraie”. Et Lacan de le soutenir à Rome!» (p. 124; enfasi mia).
[48] Contro una simile convinzione si possono ormai citare un’infinità di testi; mi limito a segnalare l’ultimo che ho letto: F. de Waal, Our Inner Ape (2005), tr. it. La scimmia che siamo. Il passato e il futuro della natura umana, Milano, Garzanti, 2006.
[49] Oltre che a Voltaire (cfr. nota 42), traspare anche dal saggio di Spector la volontà di ‘ridurre’ Montesquieu a Hobbes (in particolare all’Hobbes del Leviathan), ovvero al suo ‘antagonista per eccellenza’, come ho cercato di mostrare nel mio Pace e guerra in Hobbes e in Montesquieu, ovvero le alternative della modernità, in Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali, cit., pp. 145-170.
[50] Faccio solo, e solo qui in nota, un rapido cenno sulla conclusione generale del saggio: dopo aver discettato su quanto da me sommariamente riferito nel testo, Spector conclude (in palese contraddizione con tutto quanto scrive in precedenza) che «la naturalisation des croyances», la «religion naturelle» e l’«histoire naturelle da la religion» «ne conduit pas in fine [Montesquieu] à invalider toutes [sic!] les religions révélées mais plutôt à vouloir les délivrer de leurs préjugés destructeurs afin de les mettre au service d’un adoucissement des mœurs». Due noterelle: 1) non è chiaro, anzi è completamente oscuro, che cosa significhi, o a che cosa alluda, l’in fine; 2) il plurale religions révélées è una finzione, perché la religione che deve essere «délivrée» dai «pregiudizi distruttori» è una sola: la religione cattolica (l’autrice lo dice chiaramente a p. 62, nota 50, ed è il senso di tutte le sue osservazioni finali). Gira e rigira, dunque, il cattolicesimo è sempre (per Spector, ovviamente, non per Montesquieu) sul ‘banco degli accusati’, o meglio, è uno ‘spettro’.
[51] Basti un solo esempio. Montesquieu scrive: «[…] et si je pouvais un moment cesser de penser que je suis chrétien, je ne pourrais m’empêcher de mettre la destruction de la secte de Zénon au nombre des malheurs du genre humain» (EL, XXIV, 10). Diop commenta (e sfido chiunque a dimostrarmi che non si tratta di meri arzigogoli!): «On peut lire en effet dans cette phrase une prosopopée du sujet soutenue par un tour hypothétique et doublée par une sorte de prétérition et que l’on pourrait gloser de la façon suivante: en principe il m’est impossible de ne pas me penser chrétien mais je le fais quand même en vertu de l’honnêteté intellectuelle que je vous dois, amis lecteurs, et parce ce que, bien que je ne dusse pas l’avouer, la raison me contraint de penser que la destruction de la secte de Zénon est un des malheurs du genre humain dont pas même ma propre religion ne parvient à me consoler» (p. 105).
[52] ‘Riservare’, come fa Diop, solo ai prelati della Congregazione dell’Indice i verbi approuver e condamner (p. 100) è ideologia d’accatto, ovvero è anticlericalismo spicciolo. Forse che non usavano gli stessi verbi i Parlamenti giudiziari della Francia d’Ancien Régime e, successivamente, i Tribunali rivoluzionari? E che dire, poi, dei Tribunali di Stalin e di Hitler del secolo scorso?
[53] Sulla lettura volterriana dell’Esprit des lois, vedi il mio Voltaire lettore e critico dell’«Esprit des lois», in Oppressione e libertà, cit., pp. 217-253.
[54] Cfr. Voltaire, Commentaire sur l’Esprit des lois (1777), in Œuvres complètes de Voltaire, éd. par L. Moland, 55 voll., Paris, Garnier, 1877-85, vol. XXX, p. 419, dove, stupito per l’elogio montesquieuiano dell’opera dei gesuiti nel Paraguay (EL, IV, 6), egli osserva, con palese cattiveria: «Mais le Jésuites étaient encore puissants quand Montesquieu écrivait».
[55] Questa solfa dell’ironia dell’«écrivain en matrière de religion» sembra essere un chiodo fisso degli studiosi francesi di Montesquieu: oltre che, come s’è già accennato, nel contributo di Spector, la si ritrova anche in P. Rétat, Figure de la litote dans «L’Esprit des lois» et les «Pensées», in La fortune de Montesquieu-Montesquieu écrivain, Actes du Colloque internationale de Bordeaux (18-21 janvier 1989) réunis par L. Desgraves, Bordeaux, Bibliothèque Municipale, 1995, il quale bolla come «ironie froide» (p. 295) il modo in cui Montesquieu si esprime nella sua severa confutazione del «paradosso» di Bayle sull’impossibilità di una società di veri cristiani (EL, XXIV, 6).
[56] Il giudizio montesquieuiano su cui Seitter insiste, a ragione, di più è quello relativo alla non-distinzione/separazione tra potere ecclesiastico e potere civile: «La source la plus empoisonnée de tous les malheurs des Grecs, c’est qu’ils ne connurent jamais la nature ni les bornes de la puissance ecclésiastique et de la séculière; ce qui fit que l’on tomba, de part et d’autre, dans des égarements continuels. Cette grande distinction, qui est la base sur laquelle pose la tranquillité des peuples, est fondée, non seulement sur la religion, mais encore sur la raison et la nature, qui veulent que des choses réellement séparées, et qui ne peuvent subsister que séparées, ne soient jamais confondues» (Romains, XXII; enfasi mie).
[57] Romains, XXII. Concetti analoghi sono ribaditi in EL, XII, 5.
[58] Seitter si rende conto che la sua idea secondo cui Montesquieu punterebbe a soppiantare il cristianesimo con lo stoicismo non sta in piedi, però di fatto finisce con l’avallarla: «La théologie nouvelle de Pléthon, évidemment, ne trouve pas d’équivalent exact [sic!] chez Montesquieu qui n’était pas et ne voulait pas être théologien. Il faut cependant se rendre compte que Montesquieu avait du sens philosophique, notamment dans ses considérations sur la nature des choses et les lois qui en découlent. Quelquefois il se livre sur ses préférences philosophiques et s’il parle de la secte stoïque, c’est pour s’en déclarer partisan. Il va jusque à mettre entre parenthèses son appartenance au christianisme et affirmer que la destruction de l’école stoïcienne a été un grand malheur pour l’humanité […]. [L]e point de vue de Montesquieu […] conduit, de toute évidence, à relativiser le christianisme» (pp. 136-137; enfasi mie).
[59] Per Montesquieu, gli stoici non credevano nell’immortalità dell’anima (EL, XXIV, 19).
[60] Se il philosophe per eccellenza è Voltaire, allora non ci vuole molto a capire che Montesquieu non appartiene alla coterie philosophique. Eppure, non solo in questo contributo, ma in tutti i contributi del volume in esame, l’‘arruolamento’ di Montesquieu nel parti philosophique è effettuato in modo ‘automatico’, ‘senza problemi’. Invece i problemi ci sono e come, a partire proprio dall’atteggiamento di Montesquieu verso la religione in generale e il cristianesimo in particolare, un atteggiamento che ha assai poco a che vedere con quello di un Voltaire, o di un Diderot, o di un Helvétius. L’ha evidenziato assai bene S. Cotta nel suo La funzione politica della religione secondo Montesquieu, cit., là dove afferma di condividere l’opinione in proposito di Brethe de La Gressaye («Montesquieu a subi l’influence de son temps, mais comparé à ses contemporains, d’Alembert, Helvétius, Diderot, Voltaire, il était assez chrétien pour ne pouvoir être de leur parti»: De l’Esprit des lois, ed. Brethe de La Gressaye, t. III, Paris, Les Belles Lettres, 1958, p. 238) e quando sottolinea che mentre il modo in cui i philosophes considerano la religione è viziato da un’«ostilità pregiudiziale», la «prospettiva» secondo cui la studia Montesquieu è quella del «sociologo», dello «scienziato» (p. 586).
[61] Cfr. in particolare LP, CXVII.
[62] S. Cotta, La funzione politica della religione secondo Montesquieu, cit., p. 589.
[63] Ad esempio, nell’opera maggiore viene meno l’atteggiamento irrisorio nei confronti del papa e dei vescovi (LP, XXIV, XXIX), e la critica al celibato diventa assai più moderata: mentre in LP CXVII si sostiene che la «continence éternelle» degli ecclesiastici «a anéanti plus d’hommes que les pestes et les guerres les plus sanglantes n’ont jamais fait», in EL, XXV, 4 (e poi anche nella Défense, IIe Partie, «Célibat») si afferma che la legge del celibato è nociva solo nella misura in cui il clero diviene troppo numeroso rispetto ai laici. L’ultimo studioso in ordine di tempo che ha evidenziato la sostanziale diversità d’approccio al problema religioso tra Lettres persanes ed Esprit des lois è R. Minuti, Orientalismo e idee di tolleranza, cit., cap. IV.
[64] La citazione di Voltaire è tratta dall’articolo «Lois civiles et ecclésiastiques» del suo Dictionnaire philosophique.
[65] Il che non significa, ovviamente, che nella repubblica non bisogna separare pontificat e gouvernement civil, ma Skrzypek, a parte il cenno nel brano citato nel testo, non dice nient’altro sull’organizzazione dei poteri nelle repubbliche secondo Montesquieu.
[66] Romains, IX. Nell’EL e in Pensées (n° 1889) Montesquieu adopera l’espressione equivalente «despotisme de l’Asie» (XI, 6).
[67] Questa assenza, come si è già avuto modo di sottolineare, è molto grave, perché, secondo Montesquieu, è proprio nel dispotismo asiatico – nei dispotismi asiatici – che la religione ha la massima «influenza» (EL, V, 14). Non si poteva, e non si doveva, dunque, ignorare quanto egli scrive sull’islam, sull’induismo, sul buddismo, sul taoismo, sul confucianesimo e sullo scintoismo. Vi accenna, ma solo in nota, Spector (p. 57), e unicamente per dire cose arcinote (dispotismo - clima caldo - islam, monarchia - clima dell’Europa meridionale - cattolicesimo, repubblica - clima dell’Europa settentrionale - protestantesimo), peraltro già messe bene in luce negli studi sopracitati di L. Bianchi. Qualcosa di più e di nuovo, sul tema ‘dispotismo e religione in Montesquieu’, ho cercato di mettere in luce nel mio Per una scienza universale, cit., cap. I. Importante, a questo riguardo, sono anche la raccolta di studi, da me curata, su Dispotismo. Genesi e sviluppi di un concetto filosofico-politico, 2 voll., Napoli, Liguori, 20042, e il capitolo IV del volume, anch’esso già citato, di R. Minuti.
[68] Sulla raffigurazione della Spagna e del Portogallo nell’Esprit des lois, vedi il mio Oppressione e libertà, cap. II.
[69] Per una succinta e persuasiva analisi di questa tesi montesquieuiana, vedi R. Minuti, Orientalismo e idee di tolleranza, cit., pp. 371-372, 387.
[70] Nello stesso capitolo, immediatamente prima del capoverso citato, Montesquieu scrive: «[…] ce sera une très bonne loi civile, lorsque l’État est satisfait de la religion déjà établie, de ne point souffrir l’établissement d’une autre».
[71] «Si le gouvernement est modéré, la difficulté n’est pas moindre […]»: l’affermazione si trova, sempre in EL, XXV, 11, subito dopo il brano citato nel testo (Ms. dell’EL, Bibliothèque Nationale de France, n.a.fr. 12832-12836, t. V, f. 236r; enfasi mia).
[72] «Il y des États [les États despotiques] où les lois ne sont rien, ou ne sont qu’une volonté capricieuse et transitoire du souverain. Si, dans ces États, les lois de la religion étaient de la nature des lois humaines, les lois de la religion ne seraient rien non plus: il est pourtant nécessaire à la société qu’il y ait quelque chose de fixe: et c’est cette religion qui est quelque chose de fixe» (EL, XXVI, 2; enfasi mie).
[73] È per questa ragione che il governo dispotico corre maggior rischio di vedere una rivoluzione che per qualsiasi altro atto di tirannide (EL, XXV, 11).
[74] Ho illustrato e argomentato diffusamente queste tesi montesquieuiane sul dispotismo nel mio Oppressione e libertà, cit.
[75] Sta forse qui la ragione della soppressione, nel testo a stampa dell’Esprit des lois, del passo del manoscritto relativo al governo moderato: l’incipit di tale passo, infatti, sembra negare questa differenza di grado – «Si le gouvernement est modéré, la difficulté n’est pas moindre» – e mettere sullo stesso piano dispotismo e governo moderato in merito al problema dell’introduzione di una nuova religione.
[76] Questo carattere dell’islam è, per Montesquieu, immutabile: esso «agit encore sur les hommes avec cet esprit destructeur qui l’a fondé» (EL, XXIV, 4; enfasi mie). Circa il cristianesimo, invece, tranne che in Spagna e in Portogallo, dove operava ancora il Tribunale dell’Inquisizione, esso appare a Montesquieu, almeno nelle Lettres persanes, sulla via dell’emancipazione dall’intolleranza: «Ils [gli Ebrei] n’ont jamais eu dans l’Europe un calme pareil à celui dont ils jouissent. On commence à se défaire parmi les Chrétiens de cet esprit d’intolérance qui les animait: on s’est mal trouvé en Espagne de les avoir chassés, et en France d’avoir fatigué des Chrétiens, dont la croyance différait un peu de celle du Prince. On s’est aperçu que le zèle pour le progrès de la Religion, est différent de l’attachement, qu’on doit avoir pour elle, et que pour l’aimer, et l’observer, il n’est pas nécessaire de haïr et de persécuter ceux qui ne l’observent pas» (LP, LX; enfasi mia).
[77] Scrive nella Défense, rivolgendosi al suo critico ecclesiastico: «Le critique [per noi: la Larrère] ne connait que les qualités positives et absolues; il ne sait ce que c’est que ces termes plus ou moins […]» (IIe Partie, «Usure»; enfasi di Montesquieu).
[78] «[…] le bon sens consiste beaucoup a connaître les nuances des choses» (Défense, IIe Partie, «Idée générale»; enfasi mia).
[79] L. Landi, L’Inghilterra e il pensiero politico di Montesquieu, Padova, Cedam, 1981, p. 394 (enfasi di Landi).
[80] «Il est vrai que dans les démocraties le peuple paraît faire ce qu’il veut; mais la liberté politique ne consiste point à faire ce que l’on veut […]. Il faut se mettre dans l’esprit ce que c’est que l’indépendance, et ce que c’est que la liberté. La liberté est le droit de faire tout ce que les lois permettent; et si un citoyen pouvait faire ce qu’elles défendent, il n’aurait plus de liberté, parce que les autres auraient tout de même ce pouvoir» (EL, XI, 3).
[81] «Le grand avantage des représentants, c’est qu’ils sont capables de discuter les affaires. Le peuples n’y est point du tout propre; ce qui forme un des grands inconvénients de la démocratie […]. Il y avait un grand vice dans la plupart des anciennes républiques: c’est que le peuple avait droit d’y prendre des résolutions actives, et qui demandent quelque exécution, chose dont il est entièrement incapable. Il ne doit entrer dans le gouvernement que pour choisir ses représentants, ce qui est très à sa portée» (EL, XI, 6; enfasi mie).
[82] «Bref, l’aube du christianisme a produit un excès, un pathos: l’intolérance. Comment la contourner? Voici l’esprit que l’on peut inférer aussi bien de la Dissertation sur les Romains que des Considérations sur la décadence des Romains [sic!], en ce qui concerne la question de la tolérance: la réponse est des renforcer les bases politiques du pouvoir séculier, de préserver les institutions, de rendre possible inconditionnellement la liberté et d’engager un combat ouvert contre l’abus de n’importe quel genre de pouvoir, qu’il soit politique ou religieux. L’intolérance apporté par le christianisme a été la perversion de quelque chose d’originairement salutaire. La présence de la religion dans la politique est également une stratégie politique: elle y participe comme support moral pour que, avec le temps, la politique elle-même puisse corriger ce mal, se libérer de l’intolérance, par la consolidation de ses bases, récupérant ainsi l’idée de tolérance comme équilibre politique et religieux» (pp. 184-185; enfasi di Dos Santos).
[83] A Dos Santos capita di scrivere delle autentiche sciocchezze, come nel passo in cui attribuisce al cristianesimo (quando non era ancora nato!) la «destabilizzazione» della Repubblica romana: «[…] le christianisme déstabilise la République romaine» (p. 179). È vero invece, ma lui lo ignora, che per Montesquieu la diffusione a Roma, sul finire della Repubblica, dell’epicureismo «contribua beaucoup à gâter le cœur et l’esprit des Romains», ovvero a ridurre il loro ‘tasso’ di religiosità (Romains, X, incipit).
[84] C. Dupin, Refléxions su quelques parties d’un livre intitulé de L’Esprit des Loix, [Paris, 1749]; Id., Observations sur un livre intitulé de L’Esprit des lois; divisées en trois parties, [Paris, Guérin et Delatour, 1757-1758]. Su questi testi, vedi C. Rosso, Montesquieu et Dupin (un éreintement avorté), in Id., Montesquieu moraliste. Des lois au bonheur, cit., pp. 283-316; G. Zamagni, Oriente ideologico, Asia reale. Apologie e critiche del dispotismo nel secondo Settecento francese, in D. Felice (a cura di), Dispotismo. Genesi e sviluppi di un concetto filosofico-politico, cit., pp. 359-364; Ch. Porset, Madame Dupin et Montesquieu, ou les infortunes de la vertu, in Actes du colloque international tenu à Bordeaux, du 3 au 6 décembre 1998, pour commémorer le 250° anniversaire de la parution de L’Esprit des lois, réunis et présentés par L. Desgraves, Bordeaux, Académie de Bordeaux, 1999, pp. 287-304; e, soprattutto, V. Recchia, Uguaglianza, sovranità, virtù. Rousseau lettore dell’«Esprit des lois», in D. Felice (a cura di), Montesquieu e i suoi interpreti, 2 tt., Pisa, Ets, 2005, t. I, pp. 67-108, a cui rinvio per un’analisi approfondita ed equilibrata dei rapporti tra Montesquieu e Rousseau. Per Zanin, Rousseau avrebbe «consulté les œuvres de Montesquieu à l’époque de la composition du Deuxième Discours [1754]» (p. 196).
[85] Zanin, che ribadisce la sua opinione poco più avanti («Rousseau et Montesquieu exigent une “certaine laïcisation de l’État” qui se manifeste dans leur critique du “pontificat” […]»: p. 194), molto probabilmente ignora che «pontife» è un termine di derivazione latina (pontifex) e che esisteva ben prima dell’apparizione del pontefice cristiano.
[86] Maire ha curato, assieme a P. Rétat, l’edizione critica del Mémoire sur le silence à imposer sur la Constitution (1754), in Œuvres complètes de Montesquieu, t. IX, Oxford-Napoli, Voltaire Foundation-Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2006, pp. 519-535; ed è autrice, tra l’altro, degli articoli «Constitution Unigenitus», «Gallicanisme», «Jansénisme», «Mémoire sur le silence à imposer sur la Constitution», «Théologie», del Dictionnaire électronique Montesquieu, cit.; del saggio su La censure différée de «L’Esprit des lois» par Mgr Bottari, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 41 (2005), n° 1, pp. 175-191; e del ponderoso volume De la cause de Dieu à la cause de la Nation. Le Jansénisme au XVIIIe siècle, «Bibliothèque des Histoires», Paris, Gallimard, 1998 (rist. 2005).
[87] Cfr. Défense, IIe Partie, «Idée générale»: «Ceux qui auront quelques lumières verront du premier coup d’œil que [L’Esprit des lois] a pour objet les lois, les coutumes et les divers usages de tous les peuples de la terre. On peut dire que le sujet en est immense, puisqu’il embrasse toutes les institutions qui sont reçues parmi les hommes». Come si vede, nella lista di Montesquieu non figurano le religioni, ma è evidente a chiunque legga il suo capolavoro con un minimo di equità – a chiunque «a quelques lumières» – che esse vi rientrano perfettamente.
[88] «Si je savais une chose utile à ma nation qui fût ruineuse à une autre, je ne la proposerais pas à mon prince, parce que je suis homme avant d’être Français (ou bien) parce que je suis nécessairement homme, et que je ne suis Français que par hasard» (Pensées, n° 350).
[89] Lo dice chiaramente, tra gli altri, uno studioso che se ne intende come Jean Baubérot (cfr. infra): «[…] les lumières françaises […] sont, de façon dominante, dans l’optique gallican de la subordination de la religion à l’État» (p. 237; enfasi mie). Peraltro, lo stesso Montesquieu pare perfettamente consapevole della dipendenza politica che comporta per la Chiesa il sistema delle libertà della Chiesa gallicana inaugurata da P. Pithou (Les libertés de l’Église, 1594): «On devrait bien plutôt dire la servitude de l’Église gallicane, puisqu’elles [ces libertés] ne servent qu’à maintenir l’autorité du roi contre la juridiction ecclésiastique et ôter au Pape la force de la maintenir, puisqu’elles ôtent aux ecclésiastiques le droit qu’ils ont sur les magistrats et les rois mêmes, en qualité de fidèles» (Pensées, n° 215).
[90] Questa preferenza non viene meno, a mio avviso, nell’Esprit des lois, anche se vi appare meno esplicita. Basti pensare al favore con cui Montesquieu guarda alla diffusione del protestantesimo fra i popoli del nord d’Europa (è essa la religione che «convient mieux» al loro «esprit d’indépendance et de liberté»: EL, XXIV, 5); o all’elogio che egli tesse delle religioni «attive» (in cui rientra, senza dubbio, anche il protestantesimo, e in particolare il calvinismo) rispetto a quelle «contemplative» (EL, XXIV, 6, 11-12, 19); o, infine, all’evidente compiacimento con cui egli sottolinea la riduzione nei Paesi protestanti (rispetto a quelli cattolici) del numero delle festività (EL, XXIV, 23).
[91] È quanto crede, invece, M. Skrzypek, là dove afferma che Montesquieu avrebbe ripreso «l’idée de Hobbes sur la nécessité de réunir les deux têtes de l’aigle en une seule» (p. 147).
[92] Tra i suoi studi: Vers un nouveau pacte laïque, Paris, Le Seuil, 1990, e Laïcité 1905-2005, entre passion et raison, Paris, Le Seuil, 2004.
[93] Nell’Esprit des lois, Montesquieu riconosce l’indissolubilità del matrimonio cattolico e si dichiara contrario al dualismo di legislazioni contraddittorie: «[…] c’est à la loi de la religion à décider si le lien sera indissoluble ou non: car si les lois de la religion avaient établi le lien indissoluble, et que les lois civiles eussent réglé qu’il se peut rompre, ce serait deux choses contradictoires»: XXVI, 13). Ragionando per conto proprio, ovvero ignorando questa presa di posizione, in cui il Président fa «una forte concessione ai privilegi della chiesa cattolica» (C. Borghero, L’ordine delle leggi e la natura delle cose nel libro XXVI dell’«Esprit des lois», in D. Felice [a cura di], Politica, economia e diritto nell’«Esprit des lois» di Montesquieu, cit.), Ehrard, in una noterella di chiusura della Table ronde, si chiede, e ci chiede, retoricamente: «[…] si le droit d’un pays permet le divorce tout en reconnaissant une valeur civile au mariage religieux, ne crée-i-il pas le risque d’une situation inextricable»? (p. 36).
[94] Cfr. Table analytique et alphabétique des matières dell’edizione dell’Esprit des lois del 1757, s. v. «Religion chrétienne» (la Table è riprodotta, tra l’altro, nell’ed. Derathé dell’Esprit des lois, 2 tt., Paris, Garnier, 1973, t. II, p. 711).
[95] Cfr. R. Shackleton, La religion de Montesquieu (1956), in Id., Essays on Montesquieu and on the Enlightenment, ed. by D. Gilson and M. Smith, Oxford, Voltaire Foundation, 1988, pp. 109-116; Id., Montesquieu, cit., pp. 349-354. Sull’insostenibilità della tesi del deismo di Montesquieu – in particolare, del Montesquieu maturo – ha scritto parole conclusive, a mio giudizio, R. Minuti, Orientalismo e idee di tolleranza, cit., pp. 338-346.
[96] R. Shackleton, Montesquieu, cit., p. 352. Subito dopo il biografo montesquieuiano afferma che «it is in deism that is to be found the real religious belief of Montesquieu» (ibidem).
[97] L. de Jaucourt, articolo «Expiation, Littérature», in Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers di Diderot e d’Alembert, t. XIII.