Sección digital Otras reseñas Marzo de 2008

Anselmo Cassani, Diritto, antropologia e storia. Studi su Henry Sumner Maine

prefazione di Vincenzo Ferrari, CLUEB, Bologna, 2002.

Piero Venturelli

 

Iolume si compone di cinque saggi dedicati da Anselmo Cassani (studioso prematuramente scomparso nel maggio 2001) al pensiero di Henry James Sumner Maine (1822-1888), uno dei più eminenti sociologi e storici del diritto dell’Inghilterra vittoriana. L’autorevole prefazione a questa raccolta è di Vincenzo Ferrari, il curatore dell’edizione italiana del libro più conosciuto e influente di Maine, Ancient Law [1] .

Cassani, che ha anche offerto una prima traduzione in italiano di alcuni scritti dell’intellettuale britannico (raccolti in un’antologia pubblicata più di quattro lustri fa [2] ), analizza in questi contributi il pensiero mainiano estendendo l’indagine storiografica e teorica fino ai testi minori, molti dei quali apparvero anonimi [3] . Il rigoroso scandaglio delle opere, unito ad un’accurata ricostruzione del vivace contesto storico-culturale del periodo, consente a Cassani sia di evidenziare e discutere criticamente i non pochi lati problematici delle concezioni di Maine sia di mettere in luce l’impatto anche ideologico-politico  che i suoi punti di vista ebbero sul dibattito contemporaneo sia di indugiare sugli autori che ne raccolsero l’eredità scientifica.

I saggi in questione, frutto di una pluriennale e coraggiosa ricerca, non possono che incentrarsi sul capolavoro assoluto di Maine, Ancient Law (1861), un libro che riscosse immediatamente un grande successo e suscitò una serie di discussioni in certi casi non ancora sopite a distanza di un secolo e mezzo. Anche se più di un interprete rimproverò allo studioso britannico la tendenza a proporre generalizzazioni un po’ troppo ardite, da parecchie menti di quel tempo, piene di entusiasmo per la scienza, la pubblicazione di Ancient Law venne addirittura salutata come il principio di una nuova epoca nella storia del diritto, e si lodò Maine per aver saputo organizzare in un’unica opera un materiale vastissimo in forma compatta e intelligibile. Tuttavia, l’importanza del libro andava ben oltre il campo strettamente giuridico: in esso, come fu subito rilevato, il suo autore “forgiava con un solo colpo da maestro un nuovo e durevole legame tra il diritto, la storia e l’antropologia” [4] .

Ancient Law, specie allo sguardo di un interprete novecentesco o odierno, appare – in un certo senso – un’opera di transizione. In questo libro confluisce una molteplicità di temi e di suggestioni, a volte contraddittori; ed è in questa immagine assai variegata che, secondo Cassani, risiede “il suo principale motivo d’interesse per una storia delle idee che voglia evitare la retorica dei ‘padri fondatori’ e delle attualizzazioni più o meno improvvisate” [5] . Siccome l’intreccio di motivi teorici e ideologici presente in Ancient Law è più complesso di quanto potrebbe sembrare ad una lettura superficiale, egli ritiene che, per ricavare un quadro sufficientemente preciso, si renda necessaria un’analisi articolata e approfondita che tenga conto del giusto peso che i diversi aspetti rivestono nel pensiero di Maine, senza pretendere che essi si dimostrino interamente compatibili. Questo, nella visione di Cassani, è l’unico approccio in grado di “cogliere quei nessi (tra ‘teoria sociologica’ e ‘atteggiamenti politici’, tra ‘individualismo’ e conservatorismo) che l’interpretazione corrente si lascia sfuggire, e di porre in luce, accanto alla complessità teorica, la forte unità ideologica del suo pensiero” [6] .

Tutti e cinque i contributi raccolti in questo volume si soffermano a lungo sui fondamenti concettuali ed epistemologici di Ancient Law e degli altri scritti di Maine. Alla ricerca di un metodo delle scienze storiche che potesse avvicinarle al modello delle scienze fisiche, l’autore britannico condivise l’inclinazione storica della scuola di Friedrich Carl von Savigny (1779-1861), con la sua insistenza sul carattere organico del diritto, ma risolse di fornirle inedite basi comparative. Lo scopo di Maine consisteva nel rimuovere le connotazioni astratte acquisite nell’Europa continentale dalle indagini storico-giuridiche e, quindi, nel respingere le teorie che, come quelle del diritto naturale e del contratto sociale, non fossero suscettibili di verifica. Veniva così introdotto, anche in questo campo di studi, l’“elemento della scienza nel senso inglese del termine, cioè della conoscenza esatta fondata sull’osservazione e volta alla formulazione di leggi” [7] .

Far proprio il metodo comparativo significava, per il “ricercatore scientifico” descritto e – insieme – incarnato da Maine, interpretare le somiglianze tra fenomeni riscontrati in tempi e luoghi assai distanti l’uno dall’altro come segni di un’identica derivazione da una fonte primitiva. Ciò, dal suo punto di vista, a patto che l’applicazione di tale metodo fosse circoscritta alle istituzioni giuridiche dei popoli “ariani”, ossia delle società appartenenti al ceppo indoeuropeo, poiché la discendenza comune – dimostrata, secondo Maine, dall’affinità linguistica – assicurava l’esistenza di una reale connessione storica omologa. E siccome, a suo giudizio, unicamente gli “Ariani” non vantavano un passato selvaggio, ne seguiva che qualsiasi tipo di raffronto che sconfinasse al di là dell’ambito indoeuropeo possedeva un valore puramente speculativo.

La dimensione comparativa della ricerca mainiana, imperniata sull’accostamento critico tra forme di organizzazione sociale e fenomeni giuridici ancora vigenti o storicamente documentati, richiedeva l’adozione sistematica del metodo a posteriori e del procedimento induttivo, già impiegati con profitto in fisica e in fisiologia: secondo lo studioso britannico, questi strumenti rendevano possibile l’individuazione di sequenze uniformi di sviluppo (“leggi”). Nasceva, così, una vera e propria scienza della storia delle istituzioni umane, fondata sull’“osservazione” e capace di indagare “sobriamente” e con coerenza i tempi remoti della società, nella convinzione che la forma primitiva del diritto contenesse in potenza tutte le configurazioni che esso assunse in seguito. L’aspirazione a ricostruire la “storia reale” allontanava, per molti aspetti, Maine dall’Analytical Jurisprudence e dall’economia politica, ambedue indifferenti al complesso di consuetudini e di idee ereditate dal passato; e, al medesimo tempo, lo conduceva a togliere ogni credito alla “storia immaginaria o puramente ipotetica”, cara a quei teorici che, lungi dallo studiare la “realtà effettiva del diritto”, preferivano restare sul terreno dell’opinione indimostrabile “scientificamente”.

L’autore britannico trasse consapevolmente la sostanza del modello per le proprie riflessioni sul diritto e sulla società dalla filologia comparata (e dalla sua estensione allo studio del mito), una scienza che ormai da tempo stava ottenendo ragguardevoli esiti euristici. Come le ricerche di Cassani mettono bene in rilievo, il richiamo di Maine a questa disciplina risultava, però, di natura assolutamente peculiare, e gli consentiva (almeno nelle intenzioni) di svincolare la sua indagine dai postulati evoluzionistici di un John Ferguson McLennan (1827-1881) o di un Lewis Henry Morgan (1818-1881). Questo parallelismo metodologico tra filologia comparata e giurisprudenza comparata venne compiutamente sviluppato solo dopo la pubblicazione di Ancient Law, opera in cui tale corrispondenza rimaneva ancora allo stato di abbozzo. Cionondimeno, la discussione dei risultati più noti e significativi che scaturivano dall’applicazione del metodo storico-comparativo allo studio del diritto, trovavano largo spazio già nel capolavoro di Maine, ove erano posti in rilievo entrambi gli orientamenti basilari della sua riflessione, tra loro strettamente connessi, aspetti sui quali l’Autore ebbe occasione di ritornare in svariati scritti successivi: la ricostruzione dei rudimenti dello stato sociale sulla base della testimonianza offerta dal diritto arcaico e il rinvenimento della direzione del progresso giuridico e sociale. In altri termini, queste due dimensioni dell’indagine storica corrispondevano – rispettivamente – alla “teoria patriarcale” e all’enunciazione della “legge di progresso” (“dallo status al contratto”).

Secondo l’autore inglese, lo studio comparato del diritto antico permetteva di individuare i tratti salienti di un’epoca remotissima in cui gli uomini vivevano (come i Ciclopi descritti da Omero) “in gruppi perfettamente isolati, tenuti insieme dall’obbedienza al padre”, e l’unica legge riconosciuta e rispettata era costituita dai “comandi dispotici del capofamiglia” [8] . In linea con alcuni settori dell’antropologia coeva, Maine diede il nome di “teoria patriarcale” a questa condizione arcaica della razza umana; per attestarne la fondatezza, chiamò in causa l’universalità della parentela agnatizia nei sistemi giuridici primitivi dei popoli indoeuropei. Questa sua teoria, però, ha cura di avvertire Cassani, era da ritenersi una dottrina non tanto della fonte della sovranità (come la considerava, ad esempio, Robert Filmer [1588-1653]) quanto dell’“origine della società”, o – almeno – dello stadio sociale più primitivo di cui la giurisprudenza comparata si occupava.

A parere dello studioso britannico, la famiglia incarnava “il gruppo elementare” da cui si erano successivamente sviluppate, come “un sistema di cerchi concentrici” [9] , forme sempre più complesse di organizzazione sociale: la gens, la tribù e infine lo Stato. La famiglia era “il tipo della società arcaica” [10] in un duplice senso: non soltanto esprimeva il modello cui si conformavano le aggregazioni più vaste, ma – all’interno di queste ultime – essa costituiva la struttura portante della vita sociale, lasciando “un’impronta riconoscibile in tutti i settori del diritto” [11] , come stavano a dimostrare la tutela degli orfani di sesso maschile e la condizione delle donne e degli schiavi.

Non priva di ambiguità e di incoerenze, la “teoria patriarcale” di Maine era affetta, in primis, da una gravissima contraddizione metodologica fra la scelta di limitare il campo d’indagine (e, conseguentemente, i risultati) della Comparative Jurisprudence alle istituzioni di popoli appartenenti al ceppo indoeuropeo e la non occasionale tendenza ad attribuire a queste argomentazioni una validità universale. Del resto, già gli antropologi evoluzionisti suoi contemporanei, assertori della priorità cronologica della discendenza matrilineare, avevano aspramente criticato questa teoria, e le ricerche condotte in seguito dagli studiosi determinarono il definitivo accantonamento della maggior parte delle tesi mainiane sulla società primitiva.

Se la fortuna storica della “teoria patriarcale” di Maine fu – tutto sommato – esigua, considerevole e duratura rinomanza ebbe – invece – la sua “legge di progresso”, che Cassani definisce il “risultato scientificamente più rilevante (ed ideologicamente più pregnante) dell’applicazione del ‘metodo storico’ allo studio del diritto” [12] . L’autore inglese credette d’individuare la direzione del progresso giuridico e sociale nel “movimento dallo status al contratto” [13] , cioè nel passaggio graduale da una condizione personale di “dipendenza dalla famiglia”, intesa come l’unica fonte di diritti e di doveri, alla nascita di obbligazioni reciproche frutto del libero accordo degli individui; ovvero nel cammino che, muovendo da forme sociali arcaiche, in cui tutti i rapporti fra le persone erano completamente determinati dal posto che ciascuna di esse occupava nel primitivo aggregato patriarcale, approdò agli stadi più evoluti delle società “progressive”, allorquando il “contratto” s’impose come il principio organizzatore delle relazioni fra gli uomini. Di conseguenza, la società primitiva non era un insieme di individui, ma si configurava come un aggregato di famiglie dove potere e parentela apparivano intimamente collegati: “l’unità sociale nella società antica era la famiglia, nella società moderna è l’individuo” [14] .

Secondo Maine, la civilizzazione (il progresso) era il risultato dell’ampliamento della sfera del diritto civile tramite modifiche quasi impercettibili – ma continue – che fornivano risposte al mutare delle necessità sociali. La regolamentazione giuridica dei rapporti all’interno della società veniva a superare gli iniziali limiti familiari fino a riconoscere come unico arbitro i tribunali pubblici; onde, il dispotismo patriarcale cedeva via via il posto al rule of law, contrassegnato dall’affermazione della libertà dell’individuo, ancorché di una freedom of contract limitata alla sfera del diritto privato. Dietro i rapporti contrattuali fra gli uomini, l’autore britannico scorgeva, dunque, la forza coercitiva dello Stato. Ma, più precisamente, il progresso giuridico gli pareva derivare – a un tempo – dalla maturazione graduale dei bisogni sociali e da una volontà consapevole di miglioramento che si esplicava, nel suo stadio finale, mediante l’attività legislativa dello Stato moderno.

Gli ingredienti dello schema “storico” di Maine erano l’origine greca del “principio del progresso”, l’unicità dell’esperienza giuridica romana (riconducibile alla natura peculiare dello Stato romano, “legiferante” e non semplice “percettore di tributi”) e l’influenza del modello romano sulle società “progressive” dell’Occidente (sulla formazione dello Stato moderno). Le sue indagini storico-comparative s’incentravano, pertanto, sullo studio del diritto romano, sistema giuridico a cui egli attribuiva un valore paradigmatico, poiché gli sembrava esemplificare alla perfezione la “legge di progresso” e, anzi, offrirne l’unica prova integralmente documentata.

A più riprese, Cassani mette l’accento sugli innumerevoli titoli di merito delle osservazioni mainiane, alcune delle quali vengono ancora oggi riconosciute pienamente valide dalla comunità scientifica, ma non passa sotto silenzio uno dei maggiori limiti inerenti a tali concezioni: l’incapacità di svelare i motivi per cui – di fatto – unicamente le società romana antica e quella dell’Europa nord-occidentale, fra le tante “comparabili”, fossero riuscite a rompere i “vincoli della staticità” e progredire “dallo status al contratto”. Inoltre, Cassani si premura di segnalare le robuste implicazioni ideologiche delle teorie di Maine, il quale offre una neanche tanto implicita giustificazione all’“individualismo vittoriano” e, proprio per questo, è indotto a soffocare alcuni degli esiti più interessanti e innovativi della sua riflessione.

Come sottolinea Vincenzo Ferrari nella sua prefazione, la notevole familiarità con la cultura britannica dell’Età moderna e contemporanea, dimostrata dalla profonda conoscenza dei testi ottocenteschi e del panorama storiografico successivo, rende l’occhio vigile di Cassani un’eccellente guida per orientarsi nel fecondo clima intellettuale che vide la nascita della “teoria sociale vittoriana”. La sua vasta disamina critica del pensiero di Maine e dei principali interlocutori, attenta e minuziosa, contribuisce senza dubbio a porre rimedio al grave disinteresse che generazioni di studiosi italiani tributarono a una temperie culturale che – come ben attesta la presente raccolta di saggi – seppe esprimere concezioni teoriche di grande rilievo e di non trascurabile influenza sugli autori a venire.


 

[1] H.S. Maine, Diritto antico (1861), trad. it. di A. Ferrari, a cura di V. Ferrari, pres. di C. Faralli, E. Cantarella e V. Ferrari, Giuffré, Milano, 1998.

[2] Il richiamo è a H.S. Maine, Società primitiva e diritto antico. Scritti di Henry Sumner Maine, trad. it., intr. e note di A. Cassani, Faenza editrice, Faenza, 1986.

[3] Il volume è formato di cinque capitoli, ognuno dei quali ripropone i testi degli altrettanti studi che Cassani, nel corso degli anni, dedicò a Maine, pubblicandoli singolarmente in diverse sedi; nella presente raccolta, sono state conservate le intitolazioni originarie. Il primo capitolo, La “Comparative Jurisprudence” di Henry Sumner Maine (pp. 1-18), costituisce una nuova versione del saggio contenuto in A. Santucci (a cura di), Scienza e filosofia nella cultura positivistica, Feltrinelli, Milano, 1982, pp. 402-413; “Ancient Law” e i contemporanei: aspetti del dibattito sull’idea di progresso (pp. 19-55), il secondo capitolo, apparve come articolo nella rivista «Intersezioni», V (1985), pp. 287-312; il terzo capitolo, intitolato Un trionfo del metodo storico: “Ancient Law” di Henry Sumner Maine (pp. 57-108), uscì la prima volta nel «Giornale critico della filosofia italiana», LXIV (1985), pp. 429-460; Metodo storico e “benthamismo legislativo” nel pensiero di Henry Sumner Maine (pp. 109-139), il quarto capitolo, venne pubblicato nella «Rivista di filosofia», LXXVII (1986), pp. 359-387; Metodo storico e teoria del progresso. Henry Sumner Maine e la cultura vittoriana (pp. 141-202), il quinto e ultimo capitolo del volume, corrisponde all’introduzione a H.S. Maine, Società primitiva e diritto antico, cit., pp. 5-44.     

[4] F. Pollock, Sir Henry Maine and His Work [1888], in Id., Oxford Lectures and Other Discourses, Books for Libraries Press, Freeport, 1972, p. 159.

[5] A. Cassani, Diritto, antropologia e storia. Studi su Henry Sumner Maine, pref. di V. Ferrari, CLUEB, Bologna, 2002, p. 93 (d’ora in poi: Diritto).

[6] Diritto, p. 139.

[7] P. Vinogradoff, The Teaching of Sir Henry Maine [1904], in Id., The Collected Papers, vol. II, Clarendon Press, Oxford 1928, p. 182.

[8] H.S. Maine, Ancient Law. Its Connection with the Early History of Society and Its Relation to Modern Ideas [1861], Dent, London, 1972, p. 74 (d’ora in poi: Ancient).

[9] Ancient, p. 76.

[10] Ancient, p. 78.

[11] Ancient, p. 79.

[12] Diritto, p. 104.

[13] Ancient, p. 100.

[14] Ancient, p. 74.

 

ISSN 0327-7763  |  2010 Araucaria. Revista Iberoamericana de Filosofía, Política y Humanidades  |  Contactar