Sección digital Otras reseñas Marzo de 2008

Domenico Fisichella, Joseph de Maistre pensatore europeo

Laterza, Roma-Bari, 2005. Pp. X-152

Piero Venturelli

 

In quest’opera, Domenico Fisichella approfondisce e amplia le già ricche argomentazioni contenute in due preziosi testi critici che egli, nel corso degli anni, ha pubblicato su Joseph de Maistre (1753-1821), celebre quanto discusso uomo politico e filosofo savoiardo [1] . Nel senatore di Chambéry, lo studioso riconosce non soltanto uno dei più lucidi intelletti che mai si siano confrontati con la Rivoluzione francese, ma anche un implacabile “pensatore della crisi” che, denunciando il carattere negativo di quest’ultima, si propone quale “teorico della inevitabile provvisorietà e transitorietà della crisi, dunque teorico dell’essere e quindi della positività, intesa come ri-composizione, ri-costruzione, ri-collegamento, ri-vendicazione dei dati e valori costanti e permanenti dell’esistenza individuale e collettiva” [2] .

La trattazione di Fisichella è incentrata sull’ipotesi secondo cui la reazione di Maistre all’Illuminismo muoverebbe da princìpi cari al giusnaturalismo classico e medievale piuttosto che da premesse storicistiche. Tale prospettiva analitica, già rivelatasi assai feconda nei due libri che egli ha dedicato in precedenza al filosofo savoiardo, è ora condivisa da svariati interpreti [3] . Esaminando accuratamente il pensiero maistriano, e non mancando d’inquadrarlo nel suo tempo e di raffrontarlo con le concezioni di autori vissuti nel XVIII e nel XIX secolo (da Claude-Henri Saint-Simon ad Auguste Comte, da Jean-Jacques Rousseau a Charles Darwin), Fisichella viene a porre in luce diversi nodi concettuali oltremodo interessanti, e talora problematici, della riflessione dello scrittore di Chambéry.

Tra i caratteri generali della riflessione maistriana, non di rado tanto significativi quanto trascurati dalla critica, lo studioso ritiene particolarmente degne di nota sia la tensione fra metascienza e scienza, cioè fra “comprensione” metafisica (metaempirica) e “spiegazione” empirica, sia la propensione a fondare le scienze socio-politologiche su basi metodologiche ed epistemologiche componibili con quelle delle scienze fisico-naturali. Riguardo a quest’ultimo aspetto, Fisichella sottolinea che “è presente in Maistre una continua interpenetrazione tra il livello di analisi giusnaturalista e il livello di analisi storico, con il conferimento alla storia del ruolo di ‘politica sperimentale’, e con l’esplicita configurazione dello studio della politica come studio su basi scientifiche, come scienza politica, aggiungendo anzi che la politica è forse la più spinosa delle scienze, dunque la più ardua (ma anche in potenza la più feconda e cognitivamente appagante) in ragione della ricorrente difficoltà di distinguere ciò che è costante e ciò che è variabile nei suoi elementi. Senza infine dimenticare che l’ordine morale, come l’ordine fisico, ha le sue leggi, e la ricerca di queste leggi merita di occupare le meditazioni di ogni autentico pensatore” [4] .

Come opportunamente nota Fisichella, nell’opera di Maistre la presenza del tema della rivoluzione è costante. Il pensatore di Savoia vede nel fenomeno rivoluzionario l’insurrezione perpetrata dagli uomini contro Dio. A suo avviso, chi impugna le armi per abbattere l’ordine tradizionale dimostra di non aver compreso che le uniche fonti della libertà sono la religione cristiana e l’intervento sovrannaturale della Grazia; il genere umano lasciato da solo, invece, non riesce a non fare il male, in quanto è naturalmente servo. Soltanto chi ha fede, perciò, possiede morale e libertà, ed è animato da uno spirito perfezionatore timoroso di Dio e consapevole di sé.

Tutto ciò si colloca in un contesto filosofico preciso. Il genere umano è attaccato al trono dell’Essere supremo con una catena flessibile che lo sostiene senza asservirlo. Nell’ordine universale delle cose, l’azione degli uomini sotto la mano divina è libera: essi operano – al medesimo tempo – volontariamente e necessariamente, facendo ciò che si propongono all’interno dei piani sovrannaturali. L’uomo non è in grado di alterare il piano divino: certamente, egli dispone dei mezzi idonei sia ad ampliare – con fatica – taluni confini della natura e della conoscenza di essa sia ad “impostare ordini politici e civili plurimi e diversificati nella loro mutevole storicità, ma non può capovolgere l’ordine generale che esprime l’imperativo dell’eternità” [5] .

In questo quadro, l’uomo che ambisce a creare non fa che ripetere il peccato originale, pretendendo di porsi al posto di Dio. Se la creazione risulta prerogativa dell’Onnipotente, sottolinea Fisichella, “[l]a rivoluzione, che vuole essere novazione, vale a dire distruzione dell’ordine fondato su basi divine e creazione ex nihilo dell’ordine nuovo, è intimamente perversa” [6] . Di conseguenza, Maistre non può che trovarsi in assoluto disaccordo col tentativo di trasformare ab imis il campo intellettuale e il campo politico: la rovina attende l’uomo che, mirando ad infrangere i propri limiti naturali, finisce col rinnegare Dio e se stesso. Alla luce di ciò, si rivela del tutto ingiustificata la tesi di chi vede nel filosofo di Savoia un importante precursore del totalitarismo [7] ; egli, al contrario, ha il merito di riuscire a “cogliere (e biasimare) l’essenza nichilista di quella che sarà la rivoluzione totalitaria: cambiare il mondo nel suo tutto, nella sua totalità” [8] .

Secondo Maistre, tutti gli episodi rivoluzionari – e, in special modo, quello appena accaduto in Francia – rappresentano empie insurrezioni del genere umano contro Dio e hanno in se stessi la loro punizione e negazione: si tratta, cioè, di eventi – insieme – luciferini e provvidenziali. Nella prospettiva del Savoiardo, ogni sollevazione armata – naturalmente annientatrice – è un crimine immenso e comporta sofferenze terribili per gli uomini, ma finisce poi col tradursi nel suo contrario, svelando così che la Divinità punisce per rigenerare. Nell’ambito di questa “teologia della storia di pretta derivazione patristica e agostiniana (e tuttavia non scevra di motivi martinisti, sempre presenti anche se poco per volta ‘riassorbiti’)” [9] , l’autore di Chambéry è convinto che la rivoluzione non sia suscettibile di alcuna “spiegazione” razionale, poiché nulla di semplicemente umano – a suo avviso – avrebbe potuto innescare un processo talmente grandioso. Egli ritiene che gli stessi protagonisti del movimento rivoluzionario francese abbiano palesato, in ogni istante, qualcosa di passivo e di meccanico, perché indotti da un’imperscrutabile Volontà superiore ad operare a vantaggio della regalità; Maistre, da ciò, trae la conferma che non sono gli uomini a guidare la rivoluzione, bensì è la rivoluzione a servirsi degli uomini (i quali, peraltro, ne portano la piena responsabilità).

Uno dei principali esiti della rivoluzione è, secondo il pensatore savoiardo, il ristabilimento della monarchia, ovvero la “controrivoluzione”. Lungi dal configurarsi come una “rivoluzione contraria”, la controrivoluzione di cui egli parla rappresenta l’opposto della rivoluzione. Infatti, spiega Fisichella, “anche se la rivoluzione è destinata a volgersi nel suo contrario, e dunque sotto questo profilo prima o poi deve concludersi con il ristabilimento dell’ordine, tuttavia i costi morali, civili, istituzionali, umani e sociali del disordine rivoluzionario sono talmente alti e devastanti che nessun uomo d’ordine può assumersi la responsabilità di invocare e promuovere una rivoluzione per combattere un’altra rivoluzione” [10] .

La restaurazione monarchica è condotta da uomini che, nel ripristinare l’ordine divino e tradizionale, si associano con l’Autore dell’ordine stesso, facendo così assumere alla controrivoluzione le sembianze di un’azione positiva che si rifà alle origini. A dispetto di una visione fortemente pessimistica della realtà, che lo porta a fissare nel fatidico 1789 la data in cui il Vecchio Continente ha cessato di vivere, “Maistre – rileva Fisichella – dà ancora speranza alla sua Europa, all’Europa della Tradizione, e alla sua capacità di resistere e di reagire. Muore per risorgere. L’immagine non potrebbe essere più simbolicamente appropriata per Joseph de Maistre, europeo perché cattolico, cattolico perché europeo” [11] .

Il conte savoiardo accusa il pensiero del XVIII secolo di aver gravemente peccato di orgoglio credendo che la ragione individua possa tutto. Questo suo attacco è esplicitamente indirizzato alla filosofia (morale, politica, scientifica) settecentesca, che ha fatto tesoro delle istanze del Protestantesimo e di talune concezioni di autori britannici come Francesco Bacone e John Locke, culminando nella rivolta contro il Divino e nella distruzione dei legami col passato. A giudizio dello scrittore controrivoluzionario, gli uomini dediti alla philosophie, predicando i princìpi della ragione individuale e irridendo i dogmi della ragione universale, hanno lanciato con tracotanza il guanto della sfida a Dio: così facendo, però, essi si sono rapidamente trasformati in esseri spregevoli e ribelli, isolati e orgogliosi, aridi ed egoisti, nocivi a sé e agli altri.

Maistre considera la filosofia illuminista pericolosamente imperniata su quella raison individuelle che mette capo a un fare inconsapevole dei limiti connaturati all’uomo, non più assistito da Dio e sprezzante dei legami col passato. Fonte dei peggiori mali sofferti dall’umanità, la ragione individuale costituisce il “dissolvente universale”, poiché l’urto delle opinioni particolari abbandonate a se stesse non produce altro che lo scetticismo distruttore di ogni cosa, laddove “tutto ciò che è grande” può conservarsi soltanto se riposa su una fede incondizionata e circonfusa di “mistero”. Secondo il punto di vista maistriano, pertanto, la ragione individuale tende a coincidere con la “passione”, cioè la volontà non temperata dal raziocinio, sciolta dai legami alle norme eterne e universali fissate dai dogmi comuni, incapace di sottomissione e ostile ad ogni vincolo. Benché non si spinga fino a negare una forza primigeniamente vitale come il sentimento, il pensatore di Chambéry si mostra convinto che, per evitare i conflitti più perniciosi, sia indispensabile “ricondurre la ragione individuale (volontà) e le passioni al loro posto e al loro rango, subordinandole alla ragione universale, che controlla e modera e acquieta” [12] .

Alla raison individuelle, sfrenata e malefica, l’autore savoiardo oppone la raison universelle. Quest’ultima, incompatibile con ogni soggettivismo volontaristico, è frutto della mescolanza di dogmi religiosi e politici, che – in quanto tali – sono percepiti dall’uomo come “universalmente rivelati una volta per tutte, indipendenti dalle volontà singole, sottratti al libero esame, cioè al giudizio della ragione individuale” [13] . Basilare importanza rivestono, dunque, le tradizioni avite, trasmesse di generazione in generazione, specie in forma orale: secondo Maistre, per sincerarsi della verità di un valore o di un principio è necessario e sufficiente considerarne la presenza nella “coscienza universale”, giacché “ogni credenza costantemente universale non può essere falsa”. In tale prospettiva, «[l]a tradizione sta al punto di incrocio tra Storia e Divinità”: “combina e rende coerenti e compatibili il gioco delle circostanze con la stabilità della cornice giusnaturalista, talché la Storia si fa veicolo di Tradizione come messaggio divino, come espressione del Divino che agisce appunto nella Storia” [14] .

Un evento drammatico e lacerante come la Rivoluzione francese testimonia, dal punto di vista maistriano, che nel mondo moderno la ribellione è ormai generale ed organizzata, e quindi talmente rovinosa e incontrollabile da non vantare precedenti storici di sorta. Il filosofo savoiardo nega, però, che la colpa principale del Settecento consista nell’aver voluto sviluppare la ricerca scientifica e il metodo scientifico, per i quali egli più volte – come sottolinea Fisichella – dà prova di non nutrire avversione. Al pensiero illuminista, invece, l’autore di Chambéry rimprovera i pervicaci sforzi tesi ad abolire l’autonomia rispettiva di scienza e religione. Secondo tale impostazione, più che una mera – anche se radicale – opposizione fra di esse, si è trattato di una rivolta sistematica della scienza contro la religione: la prima è stata strumentalizzata a fini di empietà, dimenticando che, nella “scala della generalità crescente”, è la religione a collocarsi ad un livello superiore rispetto alla scienza, in quanto può contare su una “estensione” di risposte più ampia e profonda.

La storia insegna che è possibile ottenere un’armonia mirabile fra religione e scienza, ma a patto che le conoscenze fisico-naturali vengano considerate un sapere necessario benché non sufficiente. Maistre osserva che, per addivenire a una siffatta condizione di equilibrio, occorre non dimenticare due aspetti fondamentali: da una parte, Dio – autore della natura (umana e fisica) – non ha mai inteso mortificare l’autonomia degli obiettivi e dei risultati dell’impresa scientifica; dall’altra, ogni scienza ha avuto origine nei templi, è stata favorita dalla religione (specie da quella cristiana) e, per poter continuare a svilupparsi, deve costantemente serbar memoria della propria origine e ad essa adeguarsi. Il XVIII secolo, viceversa, non si è curato di tutto ciò: la cronologia, la storia naturale, l’astronomia e la fisica sono state empiamente aizzate contro Dio e la religione, come se non si potesse fare lavoro scientifico senza demolire la fede. L’Illuminismo ha preteso che la scienza travalicasse i propri limiti e le proprie competenze, ne ha forzato il significato e gli esiti, si è addirittura spinta fino ad esplorare il mistero ultimo dell’esistenza. Il Savoiardo reagisce contro questo apriorismo antireligioso, perché vede in esso il presupposto dell’infimo abbruttimento del genere umano.

Nelle concezioni maistriane, dunque, il movimento illuminista viene accusato di essere il principale responsabile dell’attribuzione all’empietà di un carattere fino ad allora inusitato. Sebbene tutte le epoche storiche annoverino schiere di profanatori di dogmi religiosi, prima del Settecento non è possibile rinvenire alcun’altra insurrezione così radicale e complessiva contro Dio. A proposito di tale quadro interpretativo, sostiene Fisichella: “Vi sono sempre state religioni sulla terra, e sempre vi sono stati empi che le hanno combattute. L’empietà, osserva lo scrittore di Savoia, fu pur sempre un delitto; perché, come non ci può essere religione falsa senza qualche cosa di vero, così non ci può essere empietà che non combatta qualche verità divina, più o meno sfigurata. Ma non ci può essere vera empietà che in seno alla vera religione, e per necessaria conseguenza l’empietà non ha mai potuto produrre nei tempi passati i mali che essa ha prodotto ai giorni nostri: perché essa è sempre colpevole in proporzione della sua maggiore cultura” [15] . In questo orizzonte teorico, ben si spiegano, allora, i motivi per cui l’empietà antica non arrivò mai a adirarsi e gli stessi nemici del Cristianesimo mantennero di solito una certa misura, rimanendo – oltre tutto – costantemente isolati, mentre la philosophie ha rivestito un ruolo prioritario nella trasformazione del sacrilegio in associazione formale e congiura, coprendo l’intero Vecchio Continente.

Maistre individua nell’inizio del XVIII secolo il momento preciso in cui l’empietà è divenuta realmente una potenza e ha cominciato a scatenarsi con tutto il suo furore contro il sapere tradizionale, l’idea di autorità e quelle eminenti istituzioni politiche e religiose che, nella storia europea, si sono amalgamate in maniera sorprendente grazie al Cristianesimo. L’odio mortale dell’Illuminismo, rabbiosamente ostile al principio religioso e alla civilizzazione promossa dal Papato, si è a tal punto radicalizzato che questa insofferenza nei confronti degli ordinamenti più venerabili e tutte le animose inimicizie fra gli uomini ispirate dalla philosophie hanno portato alla catastrofica lacerazione rivoluzionaria del 1789.

Le critiche di Maistre al pensiero settecentesco investono vari aspetti propriamente filosofico-giuridici, oltre che teologici e filosofico-politici, come risulta chiaro soprattutto dalle sue prese di posizione contro il giusnaturalismo “moderno”, nel quale egli vede teorizzato uno stato di natura anteriore (almeno logicamente) alla società. A suo parere, la naturalità della condizione umana è la socialità, e quest’ultima è una legge di Dio, onde il “diritto naturale” non può che configurarsi – al medesimo tempo – come originariamente divino e originariamente sociale. In tale prospettiva, se prima della formazione delle società politiche l’uomo non è affatto l’uomo, allora sono necessariamente da rigettare sia il contrattualismo sia l’individualismo.

L’incompatibilità fra i postulati del Savoiardo e le dottrine contrattualistiche è lampante: l’identificazione dello stato di natura con lo stato di società implica che l’ordine sociale non possa trarre origine da una convenzione. Come rileva Fisichella, “Maistre respinge la ratio del contratto sociale, scorgendovi un meccanismo che, affrancando la res publica dalla natura e dunque dalla socialità, mira alla fondazione di una nuova moralità per la quale l’uomo aspira a trovare solo in se medesimo la regola esclusiva del proprio destino politico, così lacerato dalle radici sociali e dunque artificialmente programmato” [16] . Secondo l’autore di Chambéry, solamente richiamandosi a Dio è possibile trasfigurare quello che egli chiama il “principio della vita mediante mezzi violenti”, principio che assume carattere di legge di necessità nei regni animale e vegetale. Ed è proprio nella ricerca di Dio che, a suo avviso, la libertà umana si manifesta autenticamente; donde, osserva Fisichella, “la socialità dell’uomo si afferma e insieme si esprime nella sua forma più elevata, e la vita si impone nella sua continuità individuale e generazionale, oltre e malgrado le ricorrenti pulsioni di morte, oltre e malgrado le spinte dissolventi e dissociative” [17] .

Alla condanna maistriana delle dottrine contrattualistiche fanno eco giudizi severi indirizzati alle prospettive di carattere individualistico, accusate d’immaginare un uomo “astratto” dalla socialità e misura di tutte le cose, laddove la natura e i vincoli sociali ed etici mostrano l’assoluta insussistenza dell’uomo. Per lo scrittore savoiardo, il peccato individualista non fu introdotto nel pensiero europeo né dalla tradizione elleno-latina né dal genio cattolico romano medievale, quanto dalle genti barbariche che albergavano nella “foresta germanica” e che non conoscevano alcuna disciplina mentale, morale ed estetica. E la Riforma protestante – scaturita, non a caso, nel mondo germanico – contribuì in maniera decisiva alla diffusione e al radicamento di tale individualismo apportatore di disordine e conflitto. La situazione è venuta aggravandosi ancor di più durante il XVIII secolo, allorché – come si è dianzi precisato – le concezioni illuministe hanno messo l’accento sul valore irriducibile del singolo individuo, preferendo la raison individuelle alla raison universelle. Tuttavia, non si stanca mai di ripetere Maistre, privarsi dei tradizionali riferimenti al passato e alla dimensione sovrannaturale significa rendere pericolosamente “dispersiva” la filosofia ed esporsi alla contestazione sia dei fondamenti e delle istanze della religione sia del sacro principio di autorità.

Tale polemica contro il “diritto di natura” del pensiero settecentesco non viene condotta su basi storicistiche, ma è sviluppata in nome di una concezione che recupera il giusnaturalismo d’ispirazione medievale e classica, in contrapposizione al giusnaturalismo moderno. A questo riguardo, perspicua appare la sintesi di Fisichella: “l’individualismo si pone giuridicamente come affermazione dell’esistenza di diritti naturali pluralizzati, i quali si storicizzano poi compiutamente nelle dichiarazioni costituzionali, mentre Maistre, negando che si possa parlare di diritti intesi alla maniera del secolo ‘astratto e costituzionale’, affermando al contrario (con Bonald) che ‘nella società non ci sono diritti, ci sono solo doveri’, mostra piuttosto la convergenza sui presupposti del giusnaturalismo classico e medievale, atteso che ‘le dottrine della legge naturale premoderne insegnavano i doveri dell’uomo’: se prestavano una qualche attenzione ai suoi diritti, li concepivano come sostanzialmente derivati dai suoi doveri” [18] .

Partendo da queste basi teoriche, il gentiluomo di Savoia polemizza con la volontà di codificazione propria del giusnaturalismo laico settecentesco, in ciò vedendo una pericolosa indulgenza ai capricci del legislatore; le leggi di una cosmologia autenticamente giusnaturalista, invece, sono eterne e immutabili, non modificabili ad libitum. Maistre osteggia, in particolar modo, le costituzioni politiche: egli ritiene che la vera legge fondamentale sia quella che si pone al di sopra di tutti e che nessuno può abolire, giacché riposa nel cuore degli uomini; una costituzione genuina non è scritta e creata a priori, ed evidenzia un carattere di santità e perennità.

Ai diritti scritti, comunque, anche se meno importanti di quelli impressi nel cuore, è opportuno riconoscere un ruolo considerevole, a patto – però – che li soccorra il senso del dovere, che rinvia a una morale universale. Il timore del Savoiardo è che il potere politico travalichi le proprie funzioni, promuovendo quell’elefantiasi legislativa e quella massiccia burocratizzazione che, annullando le specificità della società civile, incatenano l’uomo. Maistre non nega che la stessa costituzione – in particolare, se è breve – possa garantire le persone e i gruppi dinanzi al potere, ma egli intende – prima di tutto – far notare come società e libertà siano subordinate all’esistenza di un idem sentire de re publica; ed è da questa comunanza di dogmi religiosi, venerabili tradizioni e buoni “pregiudizi” che, a suo avviso, traggono origine le vere costituzioni, le quali – perciò – rappresentano il posterius, non certo il prius. In altri termini, dal punto di vista maistriano, ogni istituzione realmente costituzionale non stabilisce mai nulla di nuovo: piuttosto, dichiara e difende diritti anteriori, cioè che si sono già affermati nel costume sociale e nel cuore della gente. Donde, in questa prospettiva, le istituzioni fondamentali non sono il prodotto delle deliberazioni a priori, bensì espressione dei grandi costumi religiosi e civili; il loro duplice compito consiste nel frenare le passioni negative e nell’assecondare le tendenze morali fruttuose ed equilibranti.

Si è detto che Maistre fa derivare la sovranità politica da Dio. Ciò non implica, comunque, che il legislatore umano possa comandare tutto quello che la sua volontà gli suggerisce: esistono, infatti, limiti normativi le cui fonti vanno ricercate altrove che nel comando del potere temporale. Nella visione maistriana, la legittimità formale e sostanziale di un regime è data dal rispetto dei canoni fondamentali da parte del comando positivo; quindi, come osserva Fisichella, “il diritto non è ridotto a volontà esclusiva del sovrano temporale e pro tempore, ma tale volontà deve sempre adeguarsi ad una norma che appare vigente in virtù di una sua intrinseca superiore razionalità” [19] . Contro il principio dell’onnipotenza dell’umano legislatore, il filosofo di Savoia respinge l’idea che possa darsi una specie di sovranità che non risulti assoluta: la si consideri attributo di un solo uomo ovvero di un gruppo più o meno ristretto, si organizzino e si bilancino i poteri come meglio aggrada, la sovranità è pur sempre “una, inviolabile e assoluta”, onde non può essere giudicata, a pena di vedere dissolvere la società politica.

Secondo l’impostazione teorica maistriana, parlare di sovranità assoluta non equivale a parlare di sovranità arbitraria: la sovranità può tutto esclusivamente nel suo ambito di competenza, tracciato dalle leggi fondamentali proprie di ciascun Paese. Entro tale quadro di “regole generali”, ove nessuno ha diritto di dire alla sovranità che è ingiusta o in errore, si trovano leggi che gli stessi re si sono riconosciuti nella “felice impossibilità di violare”. Di conseguenza, occorre impedire al sovrano non tanto di “volere invincibilmente”, perché ciò implica contraddizione, quanto piuttosto di “volere ingiustamente”. 

Che cosa accade se gli equilibri del potere sono scossi dall’alto? Come reagire a una sovranità che si muta in arbitrio, soffocando le libertà storiche e – dunque – corrompendo la natura stessa e la forma della sovranità? L’avversione del Savoiardo nei confronti di tutti i fenomeni di natura rivoluzionaria, reputati sempre e comunque illegittimi, non implica uguale contrarietà al diritto di resistenza, se quest’ultimo viene correttamente inteso nell’accezione tipica del giusnaturalismo medievale: nell’orizzonte teorico maistriano, infatti, mentre la rivoluzione tende ad abbattere l’ordine esistente e i valori correlati in nome di una condizione umana solo astrattamente immaginata, il diritto di resistenza trae la sua legittimità storica e morale dall’essere finalizzato al recupero di una libertà storicamente data e goduta. In altri termini, a un’insurrezione che brama introdurre “novità” Maistre contrappone una “resistenza” volta a neutralizzare quel potere che, travalicando i propri limiti, mette in discussione l’armonia fra le cose e l’originaria libertà umana.

In piena continuità con la dottrina medievale, il filosofo di Chambéry esclude che la titolarità del diritto di resistenza possa essere attribuita ai sudditi: nel caso in cui il potere politico diventi tirannico, valicando – nella propria attività – i confini fissatigli dalla legge divina, spetta al Papato doverlo dichiarare decaduto e consacrare una nuova autorità temporale. Egli afferma che questa supremazia dell’elemento spirituale trae origine dalla coincidenza fra leggi della natura e leggi della Chiesa. Gli uomini del Medioevo, consapevoli di questa fondamentale identità, riconoscevano un’unità di credenza per la quale si vedeva nel papa un essere dinanzi a cui tutto si piegava perché dotato di potere puramente spirituale. Deriva da questa “opinione universale” l’esercizio dei diritti pontifici di impedire e di freno nei confronti dei sovrani temporali le cui azioni contravvengono ai precetti della Legge: risulta proficuo l’appello ai valori in nome dei quali il potere spirituale svolge la sua missione “garantista”, solo qualora essi siano unitariamente condivisi tanto dai sovrani temporali quanto dai sudditi. D’altra parte, rileva Maistre, i sovrani sono in grado di comandare efficacemente e in maniera durevole soltanto nel quadro delle cose riconosciute dall’opinione del popolo e dei “grandi”.

Sennonché, la frattura dell’unità religiosa medievale – alla quale ultima si accompagnava l’unità politica della monarchia europea – ha provocato nel mondo occidentale le immani calamità delle guerre di religione e della Rivoluzione francese. Il Protestantesimo, col suo innato “spirito di divisione”, negando l’unità e l’universalità del potere spirituale, ne ha minato l’autorità morale e sociale. Le Chiese nazionali, “separate”, si sono fatalmente ridotte “a meri strumenti della sovranità temporale, divenendo così incapaci di ricordare ad essa i limiti della sua competenza” [20] . Una volta distrutta l’autorità spirituale, il Protestantesimo ha voluto distribuire una particella del potere su tutte le teste e ha così incrinato gravemente la sovranità politica. In nemmeno tre secoli di vita, quindi, le “eresie” protestanti hanno concorso in maniera determinante a precipitare il mondo occidentale nel disordine.

Fisichella richiama l’attenzione sull’estrema problematicità di queste concezioni maistriane. Innanzitutto, l’autore di Savoia non si sofferma sufficientemente sui criteri e sulle misure atte a quantificare la rilevanza delle violazioni compiute dal potere temporale; inoltre, egli pare non tenere in adeguata considerazione il fatto che, in un quadro storico e culturale ormai alieno dalla visione di una Respublica universale, il pontefice romano è da lungo tempo anche un monarca secolare di un’entità statale a pieno titolo; infine, la tesi – frequentemente ribadita – secondo cui l’autorità temporale e l’autorità spirituale appartengono a due ordini differenti di competenza, sembra sottintendere che “l’eventuale intervento del potere spirituale per biasimare e correggere distorsioni nel comportamento del potere temporale non darebbe luogo a violazione della sovranità politica”, mentre, “quando Maistre riconosce al pontefice i diritti di impedire, di giudicare se è giunto il momento di resistenza, di sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà al monarca, appare piuttosto arduo ritenere che tale impegno dell’autorità papale configuri un giudizio esclusivamente morale (legittimo da parte di chi opera nell’ordine religioso) e non entri invece in una sfera più squisitamente politico-statuale, ove peraltro l’istanza generalista non può che essere la politica nella sua autonoma sovranità” [21] .

A giudizio di Maistre, pur rappresentando una dimensione importante dell’esperienza individuale e collettiva, la politica non può affatto dirsi l’unica dimensione dell’esistenza umana: a suo avviso, deve esistere una tendenziale, reciproca autonomia fra ambito politico e sfere non-politiche della vita individuale e collettiva. Ma quali sono, allora, i principali limiti della (alla) politica individuati dal Savoiardo? Certamente, gli interessi economici perseguiti dai privati nella dimensione della società civile: il sovrano si trova, infatti, nella “felice impossibilità” di ledere l’esercizio di una serie di diritti, a partire da quelli di proprietà. L’autore di Chambéry, poi, come si è osservato, insiste molto sulla funzione di “arbitro” esercitata dall’autorità spirituale. Quest’ultima, incarnata dalla Chiesa, costituisce una potestà di ordine altro e superiore rispetto all’ordine politico, perché si occupa – in forma pressoché esclusiva – della religione e dell’etica con lo scopo, fra l’altro, di salvaguardare la condizione del cristiano come uomo universale di fronte agli eventuali abusi delle sovranità temporali. In altri termini, “il perfezionamento morale dell’uomo è qualcosa di più elevato del suo perfezionamento politico, e quest’ultimo è una ‘semplice derivazione’ del primo. Tale autonomia dell’etica rispetto alla politica comporta un limite della (alla) politica. In particolare, comporta che nessun cristiano può essere bollato come totalmente e definitivamente nemico da alcuna sovranità temporale: e dunque, se la politica lo esclude dal novero degli ‘amici’, la morale ve lo include. Ciò tempera nell’universo cattolico il bellicismo orgoglioso delle sovranità nazionali, destinato ad esplodere con la disintegrazione dell’edificio ecumenico medievale” [22] .

Nella visione del filosofo controrivoluzionario, pertanto, la politicità viene a costituire una dimensione ineliminabile, ma non illimitata, dell’esistenza umana: confina con l’autonomia, sub specie etica e sub specie economica, della società civile ed è costantemente sorvegliata dall’autorità spirituale. Donde, non sembra sussistere alcun punto in comune fra queste tesi del Savoiardo e la propensione schmittiana al panpoliticismo. D’altro canto, secondo la lettura di Fisichella, la fisionomia del diritto di resistenza maistriano diverge nettamente anche dall’idea del potere nello “stato di eccezione” avanzata dal giurista tedesco: mentre il sovrano schmittiano sospende il diritto positivo pensando che sia l’intero diritto, il sovrano delineato dall’autore di Chambéry si muove in una prospettiva giusnaturalista; in altri termini, sottraendosi alla Legge divina-naturale, nell’orizzonte teorico maistriano, il sovrano negherebbe se stesso [23] .

Il gentiluomo savoiardo ritiene che, dinanzi alle innumerevoli spinte verso il male, una società priva di ordine non possa che precipitare nell’anarchia, una condizione in cui è soprattutto il più debole a patire. In questo quadro, la sanzione e la coazione rappresentano indispensabili misure di giustizia: ed egli parla, beninteso, dal punto di vista del principio dell’ordine, e non delle degenerazioni fenomeniche della sovranità e dell’ordine, che – viceversa – attengono ad un potere che ha cessato di essere autorità. In via preliminare, lo scrittore controrivoluzionario rileva che sempre e dappertutto è presente un’“aristocrazia” costituita di elementi di alti natali e di grande ricchezza, e incaricata di comandare l’insieme dei sudditi (in tale contesto, come indica Fisichella, “l’uso che Maistre fa della parola “aristocrazia” anticipa e richiama la “classe politica” di Gaetano Mosca” [24] , perciò il Savoiardo non vuole qui alludere a “una delle modalità specifiche in cui sono organizzati la classe politica e i suoi rapporti con la classe governata” [25] ). Ciò posto, le forme istituzionali in cui può atteggiarsi la sovranità sono molteplici, per quanto – a giudizio di Maistre – sia necessario non tacere l’esistenza di un “governo più naturale per l’uomo”: e questo è, a suo avviso, la monarchia di diritto divino sorta e plasmatasi nel Vecchio Continente nel corso dei secoli. La “superiorità naturale” della monarchia è dovuta almeno a due fattori: da una parte, in essa l’“unità personale” del sovrano e l’“unità essenziale” della sovranità vengono a coincidere, laddove nell’aristocrazia e nella democrazia l’unità della sovranità, pur mantenuta, risulta frazionata secondo il numero delle persone che costituiscono il “sovrano”; dall’altra parte, la storia insegna che la monarchia è l’unico sistema di governo capace di dare un fondamento religioso alla politica, facendosi – in tal modo – garante della conservazione del difficile equilibrio fra libertà e leggi universali.

Nell’orizzonte teorico del Savoiardo, la forma monocratica retta di governo può contare sull’intervento super partes del re e sulla presenza della legge, due fattori che concorrono a inibire le eventuali prevaricazioni della “classe di governo”: il monarca saggio e devoto viene così a rappresentare quella vivente garanzia dei diritti del popolo che difetta alla forma aristocratica. Come osserva Fisichella, “le funzioni di ‘unità sovrana’ e di ‘policrazia’ aristocratica assicurano (secondo la grande tradizione europea di ‘governo misto’, cui perciò anche la riflessione maistriana, peraltro solo entro tali limiti, si allaccia) un livello di uguaglianza e di libertà non inferiore, ma spesso superiore, a quello garantito da ogni altro reggimento a un più grande numero di uomini” [26] .

Passando ad analizzare i caratteri della democrazia, Maistre pone in rilievo come essa persegua l’ideale della sovranità popolare. Allo stato puro, tale forma di governo non può esistere, a suo giudizio, in quanto l’idea stessa di un popolo intero che sia – insieme – sovrano e legislatore risulta priva di senso: sovranità di tutti significa assenza de facto di sovranità. Sennonché, una volta riconosciuta la fisionomia “idealtipica” – e, dunque, irrealizzabile – della democrazia “perfetta”, Maistre focalizza l’attenzione sui governi democratici documentati storicamente e conclude che ognuno di questi esempi non fa altro che dimostrare come la “dispersione” della sovranità su innumerevoli teste determini necessariamente un pluralismo fuori misura, privo di controllo. Anche per questo, a suo avviso, tutte le versioni realizzate della forma democratica di governo recano in sé i germi della caducità, onde non sono in grado di reggere alla prova del tempo e – anzi – facilmente si rovesciano nel loro esatto opposto, il “dispotismo”. È superfluo sottolineare come, entro tale quadro, la visione di libertà proposta da Maistre differisca profondamente da quella democratica: nella sua prospettiva, infatti, “il re che risponde a Dio è più responsabile del popolo che non ha un alter cui rispondere” [27] .

Questo densissimo libro di Fisichella, senza dubbio uno dei migliori studi analitici del pensiero maistriano pubblicati di recente in area italiana, ha il merito grande di offrire una ricostruzione oltremodo lucida e rigorosa di uno dei più interessanti approcci sette-ottocenteschi al fenomeno della secolarizzazione e al mito del progresso. Di fronte all’avanzata di un individuo che, saldo solo della sua ragione, pensa di poter dare vita ad un ordine interamente umano, ove la giustizia e l’intera esistenza vengono regolate sempre di più da norme positive, Maistre s’interroga a lungo e in profondità tanto sulle premesse ideali e sugli esiti della Rivoluzione francese quanto sullo stesso concetto di rivoluzione. Esponente di rilievo del cosiddetto “tradizionalismo cattolico”, egli vede nel fenomeno rivoluzionario l’empia insurrezione perpetrata dall’uomo contro Dio, onde reputa necessario reagire all’individualismo e all’ateismo intraprendendo la strada di una “riforma della mente e del sentimento” [28] , in conformità sia con l’insegnamento biblico sia con la plurisecolare e gloriosa saggezza europea. Ciò lo porta ad ingaggiare un’aspra battaglia contro la visione del mondo che ha plasmato gli individui moderni, facendone – a suo avviso – esseri abbruttiti e in perenne agitazione. Come mostra con argomentazioni persuasive Fisichella, l’autore di Chambéry accusa le concezioni illuministe di rappresentare la sintesi di tutti gli errori del pensiero, di provocare il radicamento di caratteri antitradizionali nell’animo degli uomini e di aver ispirato il movimento rivoluzionario in Francia, un’esperienza che Maistre considera fondata su astrazioni deleterie che non trovano conferma nella storia concreta dell’umanità.

Dinanzi al rifiuto esplicito o implicito del peccato di Adamo, alla desacralizzazione del cosmo e al distacco tra fede e scienza, il pensatore savoiardo punta a ricomporre quell’Unità originaria incarnatasi nei dogmi comuni e nelle grandi istituzioni. Riflettendo sul tema metafisico dell’Unità e facendo propria un’antropologia negativa e non materialistica, egli censura la ragione umana che spezza il limite allontanandosi dall’Origine. In questo modo, come emerge a chiare lettere dal libro di Fisichella, Maistre si fa campione dell’Assoluto per odio di una modernità che aspira a rimettere tutto in discussione e che, mirando a cancellare la visione sacrale della realtà tramandatasi nella storia, diviene fonte primaria di quel disordine che vive e prospera sulla duplicità e sul distacco dalla pienezza e dalla perfezione originarie.

Malgrado la dignità di questa potente Weltanschauung, con lo scrittore di Chambéry il mondo intellettuale italiano – ma non solo italiano – ha evitato quasi sempre di confrontarsi seriamente: un più profondo senso critico e una maggiore apertura mentale da parte degli interpreti, invece, avrebbero giovato alla comprensione di alcuni importanti snodi storici e concettuali della plurimillenaria civiltà europea. Questo recente volume di Fisichella permette, almeno parzialmente, di porre rimedio alla lunga “sfortuna” critica di Maistre, il quale è ancora oggi spesso ridotto ad esaltato cultore di quelle iniquità e di quei pregiudizi che furono travolti dalle “laiche” e “razionalissime” idee illuministe, e dal fatto storico che portò a compimento la straordinaria stagione della modernità, la Rivoluzione francese del 1789.



 

[1] Il doppio riferimento è a D. Fisichella, Giusnaturalismo e teoria della sovranità in Joseph de Maistre, D’Anna, Messina-Firenze, 1963 (ora in Id., Politica e mutamento sociale, Marco Editore, Lungro di Cosenza, 2002, pp. 191-243); Id., Il pensiero politico di de Maistre, Laterza, Roma-Bari, 1993 (il volume offre anche un’antologia di scritti maistriani).

[2] D. Fisichella, Joseph de Maistre pensatore europeo, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 52 (d’ora in poi: Joseph de Maistre).

[3] Cfr., tra gli ultimi, A. Cattabiani, Introduzione a J. de Maistre, Breviario della tradizione, a cura di A. Cattabiani, Il cerchio, Rimini, 2000, pp. 5-12: 5-6 (il volumetto racchiude un’antologia di “pensieri” dell’autore savoiardo, cioè di brevi – ma significativi – passi tratti dalle sue opere).

[4] Joseph de Maistre, p. 17.

[5] Joseph de Maistre, p. 23.

[6] Joseph de Maistre, p. 14.

[7] Cfr., per esempio, I. Berlin, Joseph de Maistre e le origini del fascismo, in Id., Il legno storto dell’umanità. Capitoli della storia delle idee (1990), a cura di H. Hardy, trad. it. di G. Ferrara degli Uberti e G. Forti, Adelphi, Milano, 19962 (19941), pp. 139-243 (questo saggio su Maistre, pubblicato per la prima volta nella presente raccolta, e tradotto dall’inglese da G. Ferrara degli Uberti per l’edizione italiana, fu scritto dall’Autore nel 1960 e parzialmente modificato in seguito).

[8] Joseph de Maistre, p. 15.

[9] M. Ravera, Joseph de Maistre pensatore dell’origine, Mursia, Milano 1986, p. 92.

[10] Joseph de Maistre, p. 21.

[11] Joseph de Maistre, p. 147.

[12] Joseph de Maistre, p. 82.

[13] Joseph de Maistre, p. 73.

[14] Joseph de Maistre, p. 73.

[15] Joseph de Maistre, pp. 32-33.

[16] Joseph de Maistre, p. 55.

[17] Joseph de Maistre, p. 57.

[18] Joseph de Maistre, p. 68.

[19] Joseph de Maistre, p. 89.

[20] Joseph de Maistre, p. 104.

[21] Joseph de Maistre, p. 142.

[22] Joseph de Maistre, p. 109.

[23] Fisichella contesta – in particolare – le tesi avanzate in C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità (19342, 19221), in Id., Le categorie del “politico”. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, trad. it. di P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 29-86 (il volume contiene saggi pubblicati, in lingua tedesca, fra il 1922 e il 1959); Id., Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica (19842, 19701), trad. it. di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano, 1992, in part. pp. 86-103. Sui differenti punti di vista dei due autori, cfr. anche A. Cattabiani, Introduzione a J. de Maistre, Breviario della tradizione, cit., pp. 6 e 10.

[24] Joseph de Maistre, p. 119.

[25] Joseph de Maistre, p. 120.

[26] Joseph de Maistre, p. 120.

[27] Joseph de Maistre, p. 128.

[28] B. Brunello, Joseph de Maistre politico e filosofo, Pàtron, Bologna, 1967, p. 77.

 

ISSN 0327-7763  |  2010 Araucaria. Revista Iberoamericana de Filosofía, Política y Humanidades  |  Contactar