Sección digital Otras reseñas Abril de 2008

Domenico Felice, Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali. Dispotismo, autonomia della giustizia e carattere delle nazioni nell’Esprit des lois di Montesquieu

Olschki, Firenze, 2005, pp. 216.

Marco Pizzica

 

Quale fu l’ambizione di Montesquieu nell’elaborare l’opera in cui profuse il massimo delle sue energie e dei suoi studi, e che importanza riveste l’Esprit des lois nelle indagini politico-sociali e nella determinazione dei moderni ordinamenti democratici? Questi, espressi in poche parole, i moventi dell’ulteriore approfondimento delle tematiche care al Barone di La Brède, approntato da Domenico Felice, il quale non solo riunisce per la prima volta in un unico volume tre ampi saggi dedicati agli altrettanti più incisivi filoni sviluppati nell’Esprit des lois, ma aggiunge alla raccolta la prima traduzione integrale dell’Essai sur les causes qui peuvent affecter les esprits et les caractères e uno studio inedito, teso a dar conto delle differenze sostanziali tra le concezioni filosofico-politiche di Montesquieu e quelle di Hobbes.

In primo luogo, il dispotismo è considerato dal Bordolese come una forma autonoma di governo, alla stregua del genere repubblica e del genere monarchia, laddove altri scrittori politici moderni, come Bodin e Machiavelli, ma anche pensatori antichi come Aristotele e i suoi seguaci, lo degradavano al rango di sottospecie della specie monarchia. Montesquieu ne delinea la natura – quel che fa essere tale una forma di governo – e il principio, ossia ciò che lo fa agire. La natura del dispotismo consta di una struttura costituzionale semplice, non moderata e non libera, contraddistinta da poteri concentrati: tutto il potere è nelle mani di uno solo, che lo esercita assecondando i suoi capricci, senza il vincolo di leggi fisse. Quanto al principio, si tratta della crainte, il timore, la paura, il terrore, che il popolo prova verso il despota e che non può allentarsi, poiché è l’unica risorsa dello Stato dispotico. Insomma, il quantum di libertà politica – vale a dire la sicurezza di ogni cittadino o l’opinione che ciascuno ha della propria sicurezza – che il dispotismo riesce a produrre, è prossimo allo zero. Del resto, non può essere moderato uno Stato in cui l’unico limite posto al despota consiste nella religione, o meglio nel “monumento della religione”, cioè in quella serie di testi sacri sui quali neanche il despota può imporsi. Tuttavia, il despota non è solo la suprema autorità civile, ma anche la suprema autorità religiosa, e ciò è possibile per l’assoluta mancanza di ulteriori istituzioni quali la casta nobiliare o la casta sacerdotale. Infatti, sebbene il despota spesso deleghi l’amministrazione del governo a un plenipotenziario, questi agirà sempre pressato dalla crainte di perdere le sue prerogative, onde non oserà mai frenare il potere del despota.

In un regno dove il despota è proprietario di tutto (e, dunque, è assente la proprietà privata), dove il despota esercita la giustizia a suo piacimento, dove manca un raccordo tra regnante e sudditi, dove manca un credibile contropotere, che prospettive si offrono al popolo? Nessuna, è la risposta di Montesquieu: i sudditi nascondono il proprio denaro, e ciò impedisce la circolazione monetaria; nessun suddito è stimolato al lavoro dei campi e al commercio, e ciò indebolisce l’apparato economico; nessuno, infine, vorrebbe procreare. E, a giudizio di Felice, il più grave atto d’accusa che Montesquieu rivolge al dispotismo, si concreta proprio nell’idea che le madri preferiscano abortire pur di non mettere al mondo figli costretti a subire il giogo del despota.

Il dispotismo, dunque, è intrinsecamente autodistruttivo: si conserva solo quando cause fisiche o morali ne forzano la natura senza cambiarlo, ossia ammansiscono la sua ferocia per qualche tempo; esclusivamente mitigando la sua crudeltà, e non esacerbandola, il dispotismo può sussistere. Cause fisiche e morali che, peraltro, non soltanto garantiscono sopravvivenza al regime dispotico, ma ne costituiscono spesso il motore primo. Montesquieu crede che siano due le ragioni capaci di dar conto del perché i regimi dispotici si configurino “come una forma di governo naturale [1] presso i popoli asiatici: ciò avviene per cause fisiche – il clima caldo, ad esempio, opprime anche gli spiriti più combattivi – e per cause morali – la religione islamica, a differenza di quella cristiana, è strutturalmente organica al dispotismo orientale, poiché “è una religione crudele e distruttrice [2] . Allo stesso tempo, però, l’Islam rende più sopportabile l’arbitrio del despota, e spiega – inoltre – il sorprendente rispetto che i sudditi hanno per il loro sovrano e l’attaccamento che mostrano verso il loro Stato.

Per quanto Montesquieu cerchi di allontanare il dispotismo dall’Europa e di relegarlo in Asia, egli è consapevole – tuttavia – che lo spettro dispotico si aggira anche all’interno del Vecchio Continente, data l’irresistibile sete di potere degli uomini. E, sebbene sia altresì convinto che il dispotismo avrebbe vita breve in Europa – per le condizioni fisico-climatiche e storico-culturali –, il Bordolese assume talvolta un carattere polemico verso alcune monarchie europee del suo tempo, paurosamente inclini al dispotismo [3] ; un carattere tutto sommato secondario, però, rispetto a quello analitico e scientifico con cui egli delinea una scienza universale dei sistemi politico-sociali.

Nella trattazione organica e sistematica dello Stato dispotico si innesta il convincimento che l’autonomia della giustizia – e veniamo alla seconda disamina proposta da Felice – è la conditio sine qua non di qualsiasi Stato che ambisca a definirsi moderato o libero. Ecco, allora, il tema dell’innalzamento del potere giudiziario alla dignità di potere primario – preso in considerazione soprattutto nella seconda parte dell’Esprit des lois – e la conseguente asserzione della sua indipendenza e autonomia rispetto agli altri poteri statuali. Montesquieu – diversamente da Locke, che si disinteressa di tale potere – è il primo pensatore, in epoca moderna, a proporre una divisione tripartita del potere statuale (esecutivo, legislativo, giudiziario), e a porre il principio dell’autonomia e indipendenza della justice come conditio sine qua non di uno Stato moderato che voglia garantire un buon livello di libertà ai suoi cittadini [4] . Infatti, se il potere giudiziario fosse unito a quello esecutivo o legislativo, la libertà verrebbe gravemente compromessa; qualora, poi, tutti e tre i poteri fossero concentrati nella persona di un singolo individuo, si precipiterebbe nel dispotismo. È quel che accade, secondo il Barone di La Brède, nell’Impero turco-ottomano, condannato ad un continuo dispotismo; quanto all’Europa – destinata a governi moderati, ma talvolta anch’essa incline al dispotismo, sebbene in via temporanea – è in particolar modo la Francia assolutista che tende a concentrare il potere giudiziario nelle stesse mani di chi già esercita il potere esecutivo e quello legislativo.

Alla luce di tutto ciò, Montesquieu esamina l’organizzazione del potere giudiziario tanto in Francia quanto in Inghilterra, la quale ultima viene assunta a modello ottimo di governo moderato. Da un lato, la monarchia francese è in grado di assicurare un livello minimo di libertà, dal momento che la magistratura risulta vincolata a una specifica forza sociale e la sua autonomia è mantenuta attraverso la venalità delle cariche, oltre al fatto che i giudici possono interpretare la legge e ricercarne lo spirito a seconda delle situazioni; dall’altro, la monarchia inglese è capace di produrre un livello massimo di libertà, grazie alla totale apoliticità della sua magistratura, la quale non si identifica con una precisa classe sociale, ma è costituita di uomini scelti tra il popolo che restano in carica esclusivamente per la durata di un processo e possono essere ricusati dall’imputato, il quale vede così garantiti tutti i suoi diritti.

Felice affronta, poi, il pensiero di Montesquieu circa i delitti e la severità delle pene. L’autore bordolese, dopo aver chiarito come la semplicità della procedura penale sia tipica di un governo dispotico, mentre la complessità – vale a dire la possibilità di ricorsi da parte del condannato – sia sinonimo di libertà, sottolinea l’importanza di graduare le pene alla gravità dei reati, affinché si eviti un grande delitto piuttosto che uno piccolo. Per di più, secondo Montesquieu – che pure ammette la condanna a morte per i crimini che violano la sicurezza personale – le pene non debbono ledere la dignità umana, bensì – principalmente – aiutare a prevenire i delitti. Su questa linea, risultano tiranniche le pene che non derivano dalla necessità, e la condanna a morte dev’essere l’extrema ratio cui ricorre il legislatore. Pertanto, come sottolinea Felice, il messaggio montesquieuiano, anche in questo ambito, è da considerarsi “rivoluzionario” [5] .

Il terzo capitolo del volume prende in considerazione l’Essai sur les causes qui peuvent affecter les esprit et les caractères, uno scritto che Felice ci presenta in traduzione italiana integrale nella seconda delle due appendici al volume. Il testo, senza dubbio il più importante tra quelli lasciati inediti e incompiuti dal Bordolese, si nutre della convinzione che, al pari delle istituzioni giuridico-politiche, anche lo spirito e il carattere di una nazione non siano frutto del caso, ma – anzi – si producano per ragioni ben precise: ragioni di ordine fisico e di ordine morale, come indica una lunga tradizione di pensiero che risale a Ippocrate. A giudizio di Montesquieu, le cause fisiche, non meno di quelle morali, ci condizionano allo stesso modo e allo stesso tempo, senza che le une prendano il sopravvento sulle altre. Le prime – tra le quali si annoverano il clima, i venti, la composizione fisico-chimica dei territori – influenzano il nostro corpo e la sua capacità di reagire agli stimoli esterni. Conducendo un esperimento su una lingua di montone, il pensatore francese constatò che su di essa, qualora fosse posta in un luogo caldo, comparivano papille gustative molto pronunciate; sulla lingua congelata, invece, le papille si ritraevano sensibilmente. Di qui, l’idea che le genti nordiche – gli Europei, ma con più di una riserva a proposito dei popoli del Mediterraneo settentrionale – siano più robuste e meno sensibili, e che necessitino di nutrimenti sostanziosi e di bevande alcoliche; al contrario, gli abitanti del sud – gli Asiatici – sono visti come delicati e sensibili: gli uni, dunque, si dimostrerebbero “bellicosi, amanti della libertà e delle forme politiche moderate, gli altri vili, imbelli e inclini alla schiavitù e al dispotismo” [6] .

Quanto alle cause morali, esse operano sull’uomo sia in ambito particolare, perché sono in parte riconducibili all’educazione ricevuta in famiglia, sia in ambito generale, dal momento che la società in cui ognuno di noi vive non può che influenzarci. In questo quadro, ovviamente, si inseriscono le compagnie che frequentiamo, le conoscenze culturali di cui disponiamo e come le utilizziamo; ancora, ci condizionano il lavoro che svolgiamo e persino la reputazione che ci siamo guadagnati nel contesto sociale in cui ci muoviamo.

In definitiva, sebbene talvolta il filosofo francese teorizzi in termini troppo rigidi, forse anche semplicistici e privi di fondamento scientifico o non sempre aderenti alla realtà, il messaggio più duraturo di questo testo montesquieuiano – poi rielaborato e in parte annesso all’Esprit des lois – è che tutto, in qualche modo, ci riguarda e ci influenza, dal clima ai libri che leggiamo, e sovente è in base a questi condizionamenti che ci diamo una tale o una talaltra forma di governo, moderata o dispotica.

Nella prima appendice, Felice propone quello che è forse il contributo più rilevante del suo libro, se non altro perché si tratta di un saggio integralmente inedito [7] . E non deve stupire il fatto che egli abbia deciso di collocarlo in appendice: in un serrato confronto fra due dei massimi filosofi politici moderni, Hobbes e Montesquieu, lo studioso afferma non troppo velatamente che il primo non è affatto – come, invece, gran parte della critica ritiene – il padre del pensiero politico moderno. Se è vero, come sottolinea Felice, che l’autore inglese invoca la presenza di un potere forte che reprima e annulli le passioni umane – le passioni che ci conducono al bellum omnium contra omnes –, viene da arguire, pertanto, che Hobbes non abbia fatto altro che gettare le fondamenta di “un pensiero politico autoritario o dispotico” [8] . Se è vero, inoltre, che per il filosofo di Malmesbury la guerra è la condizione abituale nello stato di natura, e che solo un potere coercitivo e la diseguaglianza tra gli uomini garantiscono la pace – ma, si badi, una pace contingente, perché la vera essenza umana è la guerra –, allora risulta impraticabile ogni scorciatoia o variazione liberale della filosofia politica hobbesiana.

Viceversa, Montesquieu restaura la priorità ontologica della pace sulla guerra, “trasferendo” quest’ultima dalla natura umana alla società degli uomini. Secondo il Barone, nello stato di natura l’uomo si occupa esclusivamente della sua conservazione, ma ciò non lo dispone all’eliminazione dei propri simili; dopo un periodo di diffidenza, al contrario, egli si avvicina ad essi, e forma con loro la società di natura. Ed è in questa società che l’uomo, acquisendo la consapevolezza della propria forza e il desiderio di prevalere sugli altri, precipita nello stato di guerra. Di conseguenza, Montesquieu rifiuta, da un lato, il punto di vista hobbesiano della guerra insita nella natura umana – e, in tal senso, ripristina la tradizione aristotelica-groziana; dall’altro, pur accettando l’idea del filosofo britannico secondo cui le leggi positive presuppongono uno stato di guerra, “sposta” quest’ultimo dall’uomo in quanto tale all’uomo in società. Ciò gli consente di teorizzare un governo moderato o libero, poiché è sufficiente attenuare o limitare le passioni umane, e non distruggerle, per rimediare allo stato di guerra.

In altri termini, se Hobbes concentra la propria attenzione sull’insicurezza derivante dal difetto di potere, Montesquieu si preoccupa, invece, dell’oppressione che deriva dall’abuso di potere; se l’uno si sofferma sulla contrapposizione anarchia/unità, l’altro sull’antitesi oppressione/libertà, dando prova di uno sforzo instancabile nell’elaborare sistemi giuridico-politici ed economico-sociali, oltre che ideologico-culturali, in grado di assicurare l’essenza costitutiva dell’uomo, vale a dire la libertà.

               


 

[1] D. Felice, Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali. Dispotismo, autonomia della giustizia e carattere delle nazioni nell’Esprit des lois di Montesquieu, Olschki, Firenze, 2005, p. 60 (d’ora in poi: Per una scienza universale).

[2] Per una scienza universale, p. 53.

[3] Secondo alcuni interpreti, il dispotismo dell’Esprit des lois non è che una costruzione immaginaria volta a demonizzare e ridicolizzare la monarchia francese della seconda metà del XVII secolo. Tra questi autori, spicca certamente Voltaire: in merito, cfr. D. Felice, Voltaire lettore e critico dell’Esprit des lois, in Id. (a cura di), Montesquieu e i suoi interpreti, 2 tt., ETS, Pisa, 2005, t. I, pp. 159-190.

[4] È vero che, prima dell’apparizione dell’Esprit des lois (1748), altri autori avevano richiamato l’importanza del principio, come è testimoniato – già nel XVI secolo – dalle concezioni avanzate dal costituzionalista savoiardo Claude de Seyssel; ma è altrettanto vero che nessuno l’aveva fatto nel quadro di una teoria unitaria e coerente dei poteri statuali, né l’aveva assunto come aspetto discriminante di uno Stato libero o moderato.

[5] Per una scienza universale, p. 114.

[6] Per una scienza universale, p. 126.

[7] Delle restanti parti del volume, infatti, sono già uscite versioni parziali in altre sedi. Il nucleo del primo contributo, Dispotismo e libertà, è apparso in D. Felice (a cura di), Dispotismo. Genesi e sviluppo di un concetto filosofico-politico (2 tt., Liguori, Napoli, 2001-2002, t. I, pp. 189-255); una prima versione del secondo saggio, Autonomia della giustizia e filosofia della pena, è uscita in Id. (a cura di), Libertà, necessità e storia. Percorsi dell’«Esprit des lois» di Montesquieu (Bibliopolis, Napoli, 2003, pp. 75-136); il terzo studio fungeva da Introduzione – collocata alle pp. 9-33 – alla traduzione italiana (a cura dello stesso Felice) del Saggio sulle cause, edita nel 2004 dalla casa editrice ETS di Pisa (la versione italiana dell’Essai sur les causes qui peuvent affecter les esprits et les caractères è riproposta nella seconda appendice al volume che qui si recensisce).

[8] Per una scienza universale, p. 157.

ISSN 0327-7763  |  2010 Araucaria. Revista Iberoamericana de Filosofía, Política y Humanidades  |  Contactar