Araucaria. Revista Iberoamericana de Filosofía, Política y Humanidades | Sección digital
Sección digital Otras reseñas Abril de 2008
Valentina Pazé, Il comunitarismo
Laterza, Roma-Bari, 2004. Pp. 140
Piero Venturelli
Definibile genericamente quale “concezione del mondo o ideologia che assume la comunità come un valore” (p. 3), il comunitarismo punta a conservare o creare ex novo forme di vita comunitaria, additando di preferenza nel nucleo familiare e/o amicale il modello relazionale e aggregativo esemplare. Pur vantando il termine comunitarismo origini recenti, la storia del pensiero politico e sociale annovera parecchi tentativi di elaborazione di sistemi teorici a carattere comunitario, tutti contrassegnati da una considerevole varietà di temi e di istanze. È però soltanto col crollo dell’ancien régime, e della sua peculiare articolazione della collettività in cerchie “naturali” di appartenenza gerarchicamente disposte, che tali aspirazioni organicistiche sembrano per la prima volta emergere come consapevole ideologia politica, incarnandosi in un’eterogenea gamma di posizioni unificate dall’identico atteggiamento di rifiuto nei confronti della società e della filosofia moderne. Chiarisce a questo proposito la Pazé: “Volendo attenersi al lessico impostosi nel dibattito contemporaneo, potremmo sostenere che il comunitarismo, nelle sue molteplici versioni, nasce per combattere due distinti avversari: un liberalismo dei diritti, basato sul principio dell’autonomia individuale, e un liberalismo del mercato, che afferma il primato della razionalità economica su ogni altra forma di razionalità e valore” (pp. 101-102).
Ma per quale ragione i comunitaristi adottano prevalentemente la famiglia e/o il gruppo di amici come modelli ideali di convivenza umana? Accusate le organizzazioni sociali più complesse di reggersi in larga parte su rapporti di natura burocratica e impersonale – donde “la crescente solitudine degli individui, lo sfaldarsi delle reti tradizionali di solidarietà, il venir meno di orizzonti di senso condivisi” (pp. 81-82) –, l’ideologia comunitarista cerca di porre rimedio a questo aspetto alienante della realtà attraverso la rivalutazione della sfera informale, spontanea e affettiva dei legami interpersonali, propria dei tipi di aggregazione autoregolati e animati da un principio interiore in grado di rendere pressoché superflue leggi e sanzioni. “Al modello familiare e amicale ci si è potuti così rivolgere per teorizzare – o auspicare – società ‘al di qua del diritto’, in cui la convivenza pacifica si fonda su un tacito accordo e non su codici di comportamento statuiti” (p. 9).
È convinzione di questi teorici che solo la forma di legame “calda”, intima e solidale intrinseca alla comunità consenta la maturazione di una persona umana completa, provvista – cioè – di quella identità robusta e di quella serie di lealtà ben riconoscibili che essi ritengono costituire l’unico antidoto allo svilimento della mercificazione e della solitudine cui pare destinato l’individuo moderno in seno a uno Stato centralizzato e burocratico. In particolare, pur non mancando di sottolineare l’esistenza di teorie eclettiche e di posizioni di confine, la Pazé ravvisa nella storia del comunitarismo due tipi ideali di formazione sociale: a un polo sta la comunità immediata, affettiva, che s’incentra su relazioni dirette e personali; all’altro trovasi la comunità etica, “dotata di spessore storico, unificata da un patrimonio di simboli, codici interpretativi, valori” (p. 82), e che perciò si fonda non tanto sull’esistenza di norme scritte o di semplici sentimenti di amicizia e simpatia, quanto piuttosto su una cultura condivisa assorbita fin dalla nascita e capace di plasmare in modo decisivo l’identità di tutti i membri che la compongono. A questo secondo modello di comunità la Pazé riconduce gli autori che cercano rimedio all’instabilità dell’identità dei moderni mediante il saldo ancoraggio o ad una tradizione condivisa (i romantici, gli slavofili), o ad un ethos sostanzialistico, di frequente a sfondo religioso (Jacques Maritain [1882-1973]), o ad un territorio dai confini “naturali”, ricco di storia e di cultura (i nazionalisti, ma anche teorici della comunità locale come Lewis Mumford [1895-1990] e Adriano Olivetti [1901-1960]). Rilevanti sono, invece, i caratteri che approssimano alla forma ideale di comunità immediata sia i gruppi amicali della Jugendbewegung sia la comunità concreta di Martin Buber (1878-1965) e di Emmanuel Mounier (1905-1950), originata dall’incontro diretto tra “io” e “tu”, sia – per certi versi – alle società “senza Stato” e “senza diritto” vagheggiate da non poche utopie rivoluzionarie.
Nell’ultimo capitolo dell’opera, la Pazé concentra l’attenzione sulla presenza del comunitarismo nel dibattito degli ultimi decenni, argomento che è oggetto di un suo volume di recente pubblicazione (Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2002). La nascita del comunitarismo contemporaneo, inteso come specifica corrente filosofico-politica, avviene nell’America settentrionale poco meno di trent’anni fa ad opera di pensatori quali Alasdair MacIntyre (1929-), Charles Taylor (1931-) e Michael Sandel (1953-). A tratti abbastanza eterogenee, le elaborazioni teoriche di questi autori, battezzati communitarians, risultano però accomunate dall’opposizione all’astrattezza e all’accentuato individualismo del paradigma liberale allora egemone. L’asprezza che ha inizialmente contraddistinto lo scontro fra liberals e communitarians è venuta tuttavia scemando nel corso del tempo e ha lasciato spazio a punti di vista sovente inclini al compromesso.
Ma le filosofie della comunità contemporanee non si sviluppano solo in area anglosassone e in senso anti-liberale. A questo riguardo, la Pazé segnala il caso di André Gorz (1923-2007), pensatore francese che, nell’ambito di una profonda revisione critica del modello marxista e socialdemocratico, abbandona la “via statale” al Socialismo e recupera la nozione di comunità a una prospettiva libertaria ed egualitaria. Lungi dall’aspirare a un modello globale di “società comunitaria”, Gorz si rifà alle tradizioni dell’associazionismo operaio, di tipo mutualistico e cooperativistico, per promuovere la costituzione di un “terzo luogo” possibile fra Stato e mercato, cioè di uno spazio caratterizzato da una rete di comunità “associative” di natura eminentemente elettiva.
L’analisi delle posizioni degli autori che si richiamano all’idea di comunità dimostra come tale nozione, non venendo mai compiutamente definita, risulti ambigua al punto che rimangono molto spesso indeterminate la natura e le dimensioni delle realtà aggregative cui si fa riferimento; appare altresì tutt’altro che univoco l’atteggiamento delle varie comunità teorizzate di fronte al diritto sancito dallo Stato. Secondo la Pazé, a questi gravi limiti se ne aggiunge un altro, emerso soprattutto di recente: le soluzioni comunitaristiche sembrano destinate a fornire risposte sempre più inadeguate ai problemi dell’uomo nell’era dei grandi apparati e della tecnica, risposte “che non tengono conto della pluralità di piani in cui si articola l’esistenza moderna. L’evocazione della comunità e del suo ‘spirito’, sempre meno reale e sempre più ‘immaginato’ man mano che si dilatano le dimensioni del gruppo, si rivela in ogni caso una potente risorsa simbolica, in grado di rafforzare l’identità collettiva e di fungere da efficace fattore di mobilitazione” (p. 102).