Sección digital Otras reseñas Abril de 2008

Domenico Felice (a cura di), Montesquieu e i suoi interpreti

2 voll., ETS, Pisa, 2005. Pp. 940.

Lucia Pozzi

 

Quest’opera collettanea testimonia in maniera esemplare la grande vitalità nel settore degli studi montesquieuiani in Italia. L’occasione per la pubblicazione è stata offerta dal 250° anniversario della morte del celebre filosofo bordolese, avvenuta nel 1755. Divisa in due tomi, l’opera è stata ideata e curata da Domenico Felice, che ha coinvolto nel progetto trentadue studiosi.

Lungo un percorso cronologico che va dal Settecento al Novecento, questa raccolta di saggi mira a delineare un affresco di temi e problemi che, a cominciare da Montesquieu, hanno caratterizzato il pensiero politico moderno. Gli autori dei contributi si muovono così lungo un arco temporale che inizia dalla contemporaneità del Président e arriva alla seconda metà del XX secolo. Naturalmente, il riverbero del Bordolese nelle letture e nelle interpretazioni si propaga soprattutto a partire dal fondamentale Esprit des lois (1748).

Il territorio indagato nei due volumi è così vasto che rappresenta un esauriente quadro critico e, allo stesso tempo, un’affascinante storia del pensiero politico. Di conseguenza, i confronti tra gli autori permettono non solo di comprendere meglio le singole personalità e i loro testi, ma anche di cogliere una prospettiva d’insieme della storia delle idee in epoca moderna e contemporanea.

Il primo saggio, che porta la firma di Giovanni Cristani, concentra l’attenzione sul rapporto fra d’Alembert e l’autore dell’Esprit des lois. Il condirettore dell’Encyclopédie, constatato che l’ambizioso progetto è esposto alle censure politiche e – soprattutto – ecclesiastiche, cerca l’appoggio e possibilmente la collaborazione dell’intero ceto intellettuale, non mancando di attirare l’ormai anziano e affermato signore di La Brède nell’orbita del partito dei philosophes. E non sembra casuale che il figlio di Montesquieu acconsenta nel 1757, due anni dopo la morte del padre, ad anteporre all’edizione dell’Esprit des lois i due scritti sul grande Bordolese di d’Alembert che erano stati collocati nel 1755 in testa al quinto tomo dell’Encyclopédie.

Alle interpretazioni di Montesquieu in area scozzese è dedicato uno studio di Luigi Turco che pone in risalto i tratti salienti della lettura del filosofo di La Brède compiuta da David Hume. Quest’ultimo, come viene argomentato nel contributo, non pare esserne influenzato in maniera considerevole, poiché l’impianto del suo pensiero è stato elaborato in gran parte prima dell’uscita dell’Esprit des lois. Hume, tuttavia, considera l’opera del filosofo francese come il miglior tentativo di dare vita ad una scienza della politica.

Silvia Sebastiani scrive un secondo saggio concernente le interpretazioni di Montesquieu in ambiente scozzese. Oggetto dell’indagine della studiosa è l’influenza di Montesquieu sui principali illuministi scozzesi (o Moderate Literati) – da Adam Ferguson a William Robertson, da Adam Smith a Dugald Stewart. I raffronti della Sebastiani hanno come esito una piena conferma della presenza montesquieuiana negli scritti degli illuministi scozzesi. In particolare, l’impronta del Bordolese sarebbe rinvenibile nell’approccio “sociologico” alla storia della società e dell’economia.

Viola Recchia, dal canto suo, si occupa dell’analisi della presenza montesquieuiana nell’opera di Rousseau. Nelle pagine del Ginevrino non vi sono quasi mai espliciti richiami al Bordolese. E tuttavia, la presenza nelle opere rousseauiane di temi quali la critica dell’antropologia di Hobbes, il rifiuto delle teorie legittimanti la schiavitù e l’autorità paterna, l’idea stessa del dispotismo, indica sempre la necessità per il filosofo ginevrino di confrontarsi con Montesquieu, anche se poi questo dialogo lo conduce a rielaborazioni spesso innovative.

L’impronta montesquieuiana negli scritti di Louis de Jaucourt, molti dei quali pubblicati nell’Encyclopédie, è l’argomento-chiave attorno a cui ruota il saggio di Gianmaria Zamagni. Ben lungi dall’essere di straordinaria originalità, le pagine politiche di Jaucourt costituiscono un interessante esempio di opera di divulgazione dei contenuti di un testo complesso come l’Esprit des lois.

Un’altra traccia di Montesquieu, seguita questa volta da Mario A. Cattaneo, è quella rinvenibile nell’opera di Beccaria. Com’è noto, al fondamentale contributo teorico di ambedue i pensatori settecenteschi si deve la riforma in senso umanitario del diritto penale, portata avanti dal movimento illuminista. Uno dei più significativi tratti che differenziano i due autori, come sottolinea Cattaneo, è rappresentato dalla mancanza in Montesquieu di una teoria in merito alla fondazione del diritto di punire, laddove Beccaria fa propria la dottrina del contratto sociale. Entrambi, comunque, concordano sullo scopo preventivo della pena e non su una funzione di retribuzione della pena, in tutto e per tutto analoga alla vendetta.

Nel suo saggio, Domenico Felice indaga il rapporto tra Voltaire e il teorico dei “corpi intermedi”. La distanza che intercorre tra i due filosofi è notevole, anche se non mancano punti di convergenza teorica e politica sulle grandi battaglie ideologiche sostenute dal movimento delle Lumières, quali la moderazione delle pene, la proporzionalità tra pena e delitto, la separazione tra giustizia divina e giustizia umana, l’opposizione alla schiavitù, l’umanitarismo. L’Esprit des lois si colloca al centro della relazione di Voltaire con Montesquieu. La consuetudine del patriarca di Ferney con i testi del Bordolese culmina nel 1777 con un ricco Commentaire, in cui sono sintetizzate le riflessioni che Voltaire ha condotto per quasi un trentennio sulle pagine dell’opus maius montesquieuiano: egli, tuttavia, non sembra dare il giusto peso allo sviluppo del pensiero del barone di La Brède. Voltaire ne isola in maniera capziosa singole frasi e affermazioni, dando poi luogo ad interpretazioni talvolta forzate e tendenziose. La critica voltairiana di Montesquieu, peraltro, mantiene tutto il suo significato proprio in relazione alle divergenze metodologiche e ideologiche ineliminabili.

La seconda parte del primo tomo dell’opera contiene studi dedicati ad Antonio Genovesi ed Ermenegildo Personè, Denis Diderot, Edward Gibbon, Johann Gottfried Herder, Gaetano Filangieri, Jean-Antoine-Nicolas Caritat de Condorcet, Louis de Saint-Just e Edmund Burke, nonché ai “padri fondatori” degli Stati Uniti d’America.

Girolamo Imbruglia ha scritto un saggio dedicato a due opposte letture napoletane dell’Esprit des lois. Subito dopo la metà del XVIII secolo, infatti, mentre il filosofo ed economista Antonio Genovesi si mostra debitore di Montesquieu soprattutto nella formulazione del suo riformismo, lo studioso di diritto Ermenegildo Personè non nasconde la sua ostilità nei confronti del pensiero illuminista e considera l’Esprit des lois un veicolo di pericolose tendenze sovversive.

Di un altro contributo sull’influenza di Montesquieu nell’ambiente napoletano tardo-settecentesco è autore Luca Verri, che analizza la celebre Scienza della legislazione di Gaetano Filangieri. Le idee di rinnovamento di quest’ultimo, riguardanti un progetto complessivo di riforma delle istituzioni, si strutturano gradualmente in un confronto serrato con l’Esprit des lois. Malgrado tutte le affinità e le citazioni, Verri mette bene in luce che Filangieri giudica l’opera di Montesquieu “troppo moderata”.

Nel saggio di Davide Arecco si pone in risalto la capitale importanza rivestita da Montesquieu nella riflessione di Diderot. L’intento teorico di ricavare le leggi che regolano la vita della società e che guidano l’azione dei governi, spinge il condirettore dell’Encyclopédie, in un momento di crisi che investe la Francia di Luigi XV, ad osservare con attenzione la Russia di Caterina II e il nuovo mondo delle colonie americane, dove l’Esprit des lois viene letto, interpretato e discusso nell’emergente contesto politico federalista. Grazie alla lettura di Montesquieu, Diderot sviluppa un nuovo modello politico alternativo alla realtà dal volto dispotico caratteristica delle monarchie europee.

Lo studio di John Thornton ha l’intento di mettere in luce l’influenza esercitata da Montesquieu sull’elaborazione del metodo storiografico e sulle riflessioni condotte da Edward Gibbon intorno alla storia romana. Nonostante tracce montesquieuiane notevoli siano già riscontrabili nelle opere precedenti, è nel 1761, data di pubblicazione del saggio sulla letteratura, che può dirsi evidente la presenza del Bordolese quale vera e propria auctoritas. In questo scritto, infatti, emerge l’ammirazione per quella che l’autore britannico considera la profondità non comune dello sguardo filosofico di Montesquieu, uno sguardo che gli sembra riuscire ad “abbracciare la storia” attraverso i secoli in maniera unitaria. Ed è avendo ben presente l’opera del Bordolese, osserva Thornton, che Gibbon riflette sul tema della decadenza dell’Urbe: l’idea della sua famosissima History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776-1788) risale, oltre tutto, allo stesso periodo in cui l’autore inglese scrive quel Sur les triomphes des Romains che tanto risente dell’approccio e dei punti di vista montesquieuiani.

Nel suo saggio, Paolo Bernardini concentra l’attenzione sull’ambiente culturale tedesco della seconda metà del Settecento. In particolare, egli prende in esame quegli scritti di Johann Gottfried Herder nei quali si riscontrano giudizi intorno all’Esprit des lois. In un frammento del Journal meiner Reise im Jahr 1769, Herder esprime una serie di critiche a Montesquieu. Egli contesta il carattere eccessivamente astratto del concetto generale di legge, la scarsa attenzione montesquieuiana nei confronti di realtà statuali specifiche, come nei confronti delle società primitive e la mancanza complessiva di storicità. In conclusione, Bernardini arriva a sostenere che lo scritto herderiano Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1784-1791), coerente con tali premesse, costituisce un ribaltamento della prospettiva dell’opus maius del Bordolese.

L’Esprit des lois, trascorsi alcuni anni dalla data della prima pubblicazione (1748), ha un considerevole impatto negli Stati Uniti, dove grande è – specie nell’ultimo terzo del Settecento e all’inizio dell’Ottocento – la discussione sui princìpi e sulle forme di governo. Nell’ambito del pensiero americano, Brunella Casalini illustra l’originale sintesi che viene operata tra Montesquieu, Locke e Machiavelli, soprattutto nell’elaborazione di John Adams. Nel contesto statunitense, l’Esprit des lois rappresenta un punto di riferimento teorico e politico ineludibile non solo per Adams e per diversi autori raccoltisi attorno alla rivista «Federalist», fra cui James Madison ed Alexander Hamilton, ma anche per Thomas Jefferson che, dapprima persuaso dalla lettura di Montesquieu, finisce poi – però – con l’allontanarsene in maniera definitiva.

Gabriele Magrin dedica il suo saggio all’influenza esercitata da Montesquieu su Jean-Antoine-Nicolas Caritat de Condorcet. Ambedue i filosofi si rivelano debitori della rivoluzione scientifica e di quella antimetafisica delle Lumières. Sia Montesquieu sia Condorcet sottopongono la società e la politica ad analisi lucida e spregiudicata, entrambi nella convinzione che il paradigma politico debba avere fondamenti razionali.

Cristina Passetti dedica uno studio a Louis de Saint-Just e dimostra quanto le idee montesquieuiane sulle repubbliche antiche e moderne abbiano influenzato la sua riflessione prima non meno che durante il periodo rivoluzionario.

Mauro Lenci, per parte sua, ricostruisce la relazione tra il celebre filosofo e uomo politico irlandese Edmund Burke e Montesquieu. Benché vi siano senza dubbio punti di contatto tra le due visioni, a partire dal riconoscimento delle conquiste principali del movimento delle Lumières, la riflessione dell’autore britannico rimane ancorata a posizioni molto conservatrici: a suo avviso, infatti, l’aristocrazia naturale deve accogliere istanze di rinnovamento, ma – ispirata da ideali tradizionali – è tenuta contemporaneamente a farsi custode dei costumi sociali; egli, inoltre, si oppone ad alcuni dei più importanti esiti della Rivoluzione francese, quali la Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo, la concezione della sovranità popolare, la meritocrazia.

Agli interpreti montesquieuiani attivi nella prima metà del XIX secolo è destinata la parte iniziale del secondo tomo dell’opera. I saggi in questione affrontano gli scritti dei seguenti autori: Louis-Claude Destutt Tracy, Benjamin Constant, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Auguste Comte, Alexis de Tocqueville, Hippolyte Taine.

Il contributo d’apertura del secondo tomo è incentrato sulle pagine di Louis-Claude Destutt de Tracy. L’autore del saggio, Pietro Capitani, prende in esame in particolare il Commentaire sur l’“Esprit des lois”. Il libro ha dapprima singolare diffusione negli Stati Uniti (nel 1811 è tradotto in inglese per interessamento di Thomas Jefferson) e viene poi stampato in Belgio nel 1817 e in Francia nel 1819. Nonostante le affinità teoriche del Bordolese e dell’idéologue, specialmente intorno allo Stato e alle confessioni religiose, Tracy mantiene una netta posizione ispirata ad una visione laica dei rapporti di potere.

Nell’ampia disamina di Giovanni Paoletti viene accuratamente presa in considerazione la pluralità di dimensioni che caratterizza Montesquieu nell’interpretazione di Benjamin Constant. Nelle linee di fondo del pensiero politico di Constant, a giudizio dello studioso, è possibile riscontrare sia un’importante cesura circa la concezione della libertà sia una continuità che consiste in una visione repubblicana della vita politica.

Il saggio di Cristina Cassina s’interroga, invece, sulle ragioni per cui nell’intera produzione di Alexis de Tocqueville i richiami diretti a Montesquieu risultino così poco numerosi e spesso anche scarsamente significativi. A dispetto dei limitati riferimenti espliciti, però, la presenza di Montesquieu in tutta l’opera tocquevilliana si rivela diffusa e talvolta ingombrante.

Passando all’ambiente culturale tedesco a cavallo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, Antonino Rotolo studia nel suo contributo la presenza e la metamorfosi delle teorie politiche di Montesquieu nel pensiero di Hegel: l’influenza dell’opera del barone di La Brède è rintracciabile a partire dal periodo di berlinese (1793-1796). La differenza basilare che separa Hegel da Montesquieu consiste nel fatto che, nella teoria del filosofo tedesco, la dimensione della libertà non è posta in relazione diretta con una particolare forma di governo, bensì si inserisce produttivamente nella dinamica tra Stato e società civile.

Nel suo contributo, Giorgio Lanaro si sofferma sull’opera e sulle concezioni di Auguste Comte, mostrando come egli prenda più volte in considerazione esplicitamente l’autore dell’Esprit des lois. Il pensatore positivista giudica di notevole rilievo la lezione di Montesquieu, poiché quest’ultimo – a suo avviso – si rende conto che una vera conoscenza empirico-razionale delle società umane è attingibile solo mediante l’applicazione di un metodo rigoroso: Comte, in questo senso, reputa fondamentale la definizione di legge contenuta nell’esordio dell’Esprit des lois. Con tutta la familiarità che può essere presente rispetto alla temperie positivista, Comte flette le tesi di Montesquieu alle sue esigenze teoriche. Egli riconosce al Bordolese la capacità di ricondurre sistematicamente i fatti politico-sociali ad un ristretto numero di princìpi generali, e di stabilire poi le leggi del loro concatenamento. Tuttavia, Montesquieu non rimane esente da critiche: in particolare, Comte trova eccessiva la sua attenzione per la forma dei governi e per il clima a scapito dell’individuazione prioritaria di “idee generali”.

Accanto a Comte e Durkheim, uno dei più significativi interpreti di Montesquieu in chiave “sociologica” è sicuramente Hippolyte Taine. Nel contributo di Regina Pozzi è messo bene in rilievo come il celebre critico e storico dell’età del positivismo si appelli sovente al Bordolese, ma rimanga parco di citazioni esplicite. Per dimostrare le connessioni, la studiosa individua i principali giudizi formulati dal pensatore ottocentesco nei confronti di Montesquieu. Da quest’analisi si rende evidente che nel Bordolese va riconosciuto, a parere di Taine, il primo autore ad aver mostrato che il mondo storico, come quello fisico, è retto da leggi che gli conferiscono intelligibilità. Di conseguenza, egli viene ad attribuirgli il merito di aver gettato le basi della scienza politica. A Taine, tuttavia, l’opera di Montesquieu non sembra esente da lacune ascrivibili in gran parte all’ancora insufficiente sviluppo degli studi. Pur con alcuni limiti, comunque, il contributo del Président si eleva al di sopra di quello dei suoi contemporanei, secondo l’autore ottocentesco, perché non cade mai negli usuali eccessi teorici e pratici dell’Illuminismo.

Il saggio di Carlo Borghero studia l’influenza esercitata dal barone di La Brède su Émile Durkheim. Quest’ultimo definisce Montesquieu come colui che, al pari di Condorcet, riprende l’idea aristotelica secondo cui la società è un fatto di natura (e non una costruzione intellettuale, come erroneamente credevano – fra gli altri – Platone, Hobbes e Rousseau). Nel 1892 Durkheim discute alla Sorbona due tesi di dottorato, di cui una in latino sul ruolo rivestito da Montesquieu nella costituzione della scienza sociale (Quid Secundatus politicae scientiae instituendae contulerit). Per indagare i rapporti fra Durkheim e Montesquieu – sottolinea Borghero – questo testo, ancorché isolato e di diffusione irrilevante, risulta di capitale importanza: il Bordolese viene qui considerato non solo un antenato della sociologia, ma un imprescindibile precursore diretto.

Due sono i saggi che completano la rassegna degli interpreti montesquieuiani del XIX secolo: un contributo dedicato ad un insigne giurista e uomo politico piemontese, Federigo Sclopis di Salerano, e uno studio su Édouard-René Lefebvre de Laboulaye, poliedrico intellettuale francese.

Secondo Stefano B. Galli, le opere di uno dei più autorevoli e influenti riformatori e storici del diritto civile italiano, Federico Sclopis, mostrano come la vicenda politica e intellettuale del loro autore sia complessivamente segnata fin dalle origini – negli anni Venti dell’Ottocento – da un moderatismo di evidente ispirazione montesquieuiana.

Nel saggio di Marco Armandi si analizza il conflitto intellettuale e politico tra democratici e liberali avvenuto in Francia nel periodo della Terza Repubblica, rappresentato – in particolare – dalla figura del teorico liberale Édouard-René Lefebvre de Laboulaye, curatore di una prestigiosa edizione, in sette tomi, delle Œuvres complètes de Montesquieu (1875-1879). Ritenendo Montesquieu un autore indispensabile per capire il presente, egli ne sostiene una lettura in chiave antigiusnaturalistica e antirazionalista.

Come Durkheim è da considerarsi una sorta di “cerniera” fra gli interpreti ottocenteschi e quelli novecenteschi di Montesquieu, così si può legittimamente dire anche della riflessione di Friedrich Meinecke. Quest’ultimo, come mostra Umberto Roberto nel suo saggio, considera il Bordolese un importante precursore dello storicismo, poiché nel comprendere la storia egli cerca di trovare un compromesso tra cause generali e individualità.

Da Charles-Augustin Sainte-Beuve ad Antoine Adam, Davide Monda offre una rassegna dedicata alla ricezione delle Lettres persanes negli scritti di uomini di cultura e critici francesi tra il 1852 e il 1954. Nel saggio, egli si occupa in special modo delle parti più “filosofiche” dei giudizi espressi su Montesquieu dai seguenti autori: Sainte-Beuve, Émile Faguet, Paul Valéry, Élie Carcassonne, Marcel Raymond, Joseph Dedieu, Roger Caillois, Jean Starobinski e Antoine Adam.

Il contributo di Marco Goldoni si sofferma su Charles Eisenmann, teorico del diritto e costituzionalista francese. Eisenmann legge l’Esprit des lois sottoponendo la teoria della separazione dei poteri all’analisi del positivismo giuridico kelseniano. Egli ritiene che essa sia giuridicamente fragile, perché non si riuscirebbe a trovarvi l’elaborazione compiuta di una dottrina che definisca la modalità di esercizio dei tre poteri statali da parte di tre organi perfettamente isolati gli uni dagli altri.

I saggi conclusivi del secondo tomo concernono le letture offerte dai filosofi Louis Althusser e Hannah Arendt, dal sociologo Raymond Aron e dal primo grande “biografo critico” di Montesquieu, Robert Shackleton.

Nel contributo di Alessandro Ceccarelli viene preso in esame il testo Montesquieu. La politique et l’histoire, che Louis Althusser pubblica nel 1959. Posta l’attenzione sulla definizione di legge, contenuta nel libro primo dell’Esprit des lois, l’autore novecentesco afferma che il Président intende inglobare in una medesima accezione il fisico e il morale, l’elemento descrittivo e quello normativo, chiamandosi fuori da ogni ipoteca ontologica e da ogni pregiudiziale essenzialistica.

Nel saggio sulla riflessione di Hannah Arendt, Thomas Casadei individua la presenza di Montesquieu nelle pagine arendtiane dedicate alle tendenze involutive della modernità, orientate verso la riduzione o – addirittura – l’annullamento della pluralità, rispetto alle quali il Bordolese offre un modello alternativo.

Nella seconda metà nel XX secolo, uno dei maggiori interpreti di Montesquieu risponde senza dubbio al nome di Raymond Aron. Manlio Iofrida analizza i suoi scritti, dedicando ovviamente particolare attenzione al celebre Les étapes de la pensée sociologique (1967). Egli mette in luce come sia tutt’altro che inconsueto riscontrare, nelle pagine aroniane, una vera e propria identificazione con un Montesquieu riletto e aggiornato.

Nell’ultimo contributo dell’opera, Marco Platania sottopone a vaglio critico le indagini condotte da Robert Shackleton su Montesquieu. Fin dai suoi primi saggi, l’autore inglese dimostra di considerare il barone di La Brède come uno dei fondatori e araldi del movimento illuminista in Francia e un autentico punto di snodo nella cultura europea del primo Settecento.

L’opera si conclude col testo di un’importante conversazione tra Domenico Felice e quello che è stato il maggiore studioso italiano del Président dell’ultimo mezzo secolo, Sergio Cotta, insigne filosofo del diritto scomparso due anni dopo l’uscita di Montesquieu e i suoi interpreti. Cotta, nel corso del colloquio, dà conto delle proprie indagini montesquieuiane e discute sull’attualità degli insegnamenti del Bordolese.

 

ISSN 0327-7763  |  2010 Araucaria. Revista Iberoamericana de Filosofía, Política y Humanidades  |  Contactar