Araucaria. Revista Iberoamericana de Filosofía, Política y Humanidades | Sección digital
Sección digital Otras reseñas Mayo de 2008
Francescomaria Tedesco, Introduzione a Hayek.
Laterza, Roma-Bari, 2004. Pp. 178.
Thomas Casadei
Il numero di contributi sul pensiero di Friedrich August von Hayek (1899-1992) è venuto progressivamente generando una enorme mole di letteratura critica ad esso dedicata, anche in Italia. Merito di Tedesco è quello di aver condensato, attraverso lo strumento dell’introduzione critica, entro un quadro d’analisi organico e puntuale, i passaggi-chiave, l’articolazione e l’evoluzione dei concetti che caratterizzano la prospettiva filosofico-politica dell’economista e scienziato sociale austriaco. Propendendo, sulla base dell’ormai consolidato mainstream internazionale, per la continuità teorica dei vari momenti della riflessione hayekiana, Tedesco ne ricostruisce accuratamente la traiettoria mettendo a fuoco ed esaminando le “coppie opposizionali”, le dicotomie, che la attraversano e ne restituiscono il profilo.
Già subito dopo la “svolta” – quella del passaggio, tra la fine degli anni Trenta e la prima metà dei Quaranta, dalle “questioni squisitamente economiche alla teoria sociale tout court, cioè dall’equilibrio all’ordine”, in realtà sviluppo interno del pensiero economico più che abiura (pp. 28-35) – in The Road to Serfdom (1944) emergono, spesso sovrapponendosi, alcune fondamentali dicotomie che costituiranno l’ossatura dell’opera hayekiana anche nelle fasi successive: quella centrale, attorno alla quale Hayek svolge le sue tesi, quella tra individualismo e collettivismo, a cui si aggiunge quella tra governo della legge e governo degli uomini, nonché quella tra liberalismo e socialismo (p. 41). Dirigendo i suoi strali polemici contro Sombart, Lassalle, Rathenau, Plendge, Lensch, egli ricostruisce i tratti della “scuola totalitaria del socialismo”, “background teorico dei ‘padri’ del nazionalsocialismo” (tra cui vengono annoverati Spengler, Spann, Schmitt, Jünger), ma anche contro la moderna forma – più subdola e insinuante – di socialismo, ovvero il Welfare State. Esso costituisce una perniciosa minaccia per le consolidate virtù anglosassoni, imperniate sull’individuo e la sua autonoma iniziativa, sul rispetto degli usi e delle tradizioni, sulla diffidenza verso il potere e l’autorità (p. 48). Sono in tal modo già gettate le basi per la genesi dell’impianto hayekiano strutturato attorno alla coppia dicotomica scientismo (costruttivismo) - metodo “compositivo” (spontaneo). L’approccio spontaneista alle istituzioni sociali – incarnato dal tipo antropologico del “mercante” – si contrappone all’approccio – incarnato dal tipo antropologico dell’“ingegnere” –, facendo emergere il cuore della riflessione hayekiana, sul piano della teoria generale della conoscenza: l’individualismo metodologico. Ad esso si lega inscindibilmente una concezione evoluzionistica della società (i cui interpreti sono, innanzitutto, Burke, Mandeville, Smith, Hume, Ferguson, Savigny e la Scuola Storica del diritto, Humboldt fino ad arrivare a Menger), contrapposta ad una concezione artificialistica, costruttivistica (cui appartengono autori come Rousseau, Voltaire, Comte e Saint-Simon, Marx). Tale visione, sotto il profilo istituzionale, assume i connotati di un’altra celebre dicotomia (“reciprocamente esclusiva ed esaustiva”) tra ordine costruito, esogeno, artificiale (taxis) ed ordine spontaneo, endogeno, autogenerantesi (kosmos) (p. 73), e, sotto quello propriamente giuridico, quelli della contrapposizione – facendo ancora una volta ricorso a termini greci – tra thesis (i comandi, secondo cui il diritto si identifica con il diritto pubblico) e nomos (le norme di giusto comportamento, quelle proprie del diritto privato e penale) (p. 84). Entro il campo di tale opposizione, in cui il law finding – il diritto come risultato dell’attività di scoperta delle corti – si contrappone al law making – frutto del potere legislativo –, bersaglio polemico di Hayek divengono Hans Kelsen e il positivismo giuridico (compiuta “espressione della fallacia costruttivistica”: p. 94).
All’interno di un ordine spontaneo, del kosmos, quale quello sostenuto da Hayek, viene ad essere privo di alcun senso il concetto stesso di giustizia sociale (p. 96): di qui il manifestarsi di un’altra contrapposizione netta, quella tra giustizia e gioco del mercato, definito da Hayek catallaxy (“il meccanismo impersonale e amorale del mercato, risultato dell’interazione di individui che non si conoscono e non si amano, ma che collaborano inconsapevolmente”: p. 97), che a sua volta rimanda, in filigrana, ad una strutturale alternativa tra solidarietà (ed etica della solidarietà) e mercato (ove l’unica forma di etica possibile è quella calvinista: p. 102). Dall’individualismo metodologico e dalla concezione antropologica ed epistemologica di Hayek promana così una radicale critica agli assetti di Welfare State, che si pongono come obiettivo il benessere dei soggetti sulla base di una comune solidarietà tra cittadini.
Un’altra rilevante dicotomia messa in luce da Tedesco è quella tra democrazia (considerata da Hayek nella sua forma degenerata di potere illimitato del Parlamento e del popolo, e dunque tendenzialmente dispotica e totalitaria: p. 104) e “demarchia”, termine cui Hayek, anche in questo caso appoggiandosi alla cultura greca, ricorre per indicare la connessione tra princìpi democratici e governo della legge; la demarchia, a differenza della democrazia nelle sue forme degenerate, riconosce la cogenza dei princìpi meta-normativi (il nomos o rule of law). La proposta costituzionale che ne scaturisce può essere descritta attraverso un modello articolato su cinque livelli disposti a piramide: “prima di tutto, la clausola fondamentale che definisce gli attributi del nomos; in secondo luogo l’assemblea legislativa, che deve emanare norme di condotta conformi alla clausola fondamentale; poi (terzo e quarto livello), l’Assemblea governativa e il governo, organi esecutivi; infine l’apparato burocratico e amministrativo” (p. 111).
È sulla base di questi elementi che si può procedere ad una disamina del peculiare liberalismo di Hayek: un liberalismo che affonda le sue radici nella cultura anglosassone, britannica e americana, e si contrappone al liberalismo continentale. Una dicotomia, l’ennesima, che “si esprime per mezzo di tre dicotomie parallele: libertà-sovranità, evoluzione-costruzione, separabilità-inseparabilità di liberalismo e liberismo” (p. 118), ove per il filosofo austriaco si deve propendere sempre per il primo corno del dilemma. In tal senso, suggerisce Tedesco, sarebbe opportuno liberarsi dei toni trionfalistici di chi definisce Hayek “il maggior teorico liberale del XX secolo” e, attraversando le definizioni che, di volta in volta, lo vedono come “conservatore” (etichetta cui lo stesso Hayek cercò di sfuggire con il suo saggio Why I Am Not a Conservative) o “libertario” (termine che, a suo avviso, potrebbe essere utilizzato per indicare la sua idea del liberalismo, ma “stranamente poco attraente” e “artificioso”), riconoscerne più precisamente, mutuando le sue stesse parole, il profilo di “impenitente old whig – con l’accento su old” (p. 126).
Chiude il volume un’assai utile storia della critica ove vengono riassunti i topoi del dibattito su Hayek: dal “continuity/discontinuity debate” relativo all’esistenza o meno di un quadro teorico coerente (ovvero di un sistema di idee in cui si intrecciano indissolubilmente i temi economici, filosofico-politici, epistemologici, secondo una “concezione olistica del sapere” p. 36, p. 59); la questione dell’uso analitico o assiologico del concetto di ordine spontaneo (qui Tedesco, sulla scia di altri interpreti come Mauro Barberis, propende nettamente per la seconda ipotesi); la possibile collocazione o eccentricità rispetto all’alveo della tradizione filosofico-politica liberale, sulla base delle interpretazioni della sua concezione del diritto, dello Stato, ma anche dell’identità del soggetto e del suo rapporto con la comunità, con la cultura e il contesto storico-politico di appartenenza (particolare attenzione è, a questo riguardo, prestata alle critiche, di taglio teorico-giuridico, di Bobbio, a proposito dell’“uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto”, di Zolo, che ha comunque sottolineato recentemente come “la critica hayekiana del normativismo e del logicismo giuridico mantiene intera la sua attualità”, e ancora di Portinaro e di Posner). Specifica cura è poi dedicata ai contributi più interessanti della letteratura secondaria su Hayek filosofo della politica: da chi ha cercato di mostrare l’impatto della teoria schmittiana nel quadro del liberalismo hayekiano, ipotizzando un’alleanza – che in realtà non ha riscontro – tra i due (Scheuerman), a chi, lungo una direttrice interpretativa opposta, ha messo in luce come nella costruzione hayekiana il mercato sostituisca il Leviatano, e dunque privi – contra Schmitt – lo Stato del suo oggetto, ovvero la politica, depredata della sua autonomia funzionale (Benoist), fino a chi ha esaminato analiticamente i rapporti che Hayek intrattiene, rispettivamente, con il conservatorismo, il libertarismo (Rothbard, Nozick), il neo-conservatorismo (Kristol) statunitensi e il conservatorismo britannico (esercizi interpretativi, questi, sviluppati da Gamble).
Ciò che la minuziosa ricostruzione di Tedesco non manca di evidenziare è come diverse letture interpretative non analogamente orientate – da quella di Schumpeter a quelle, più vicine nel tempo, di Pecora e di Benoist, così come quelle di matrice marxista – abbiano, allo stesso modo, messo in risalto la pressoché totale assenza, in Hayek, di una riflessione sul potere e sulla sua natura polemogena e conflittuale: in questa chiave, dal momento che non c’è politica senza potere, il filosofo ed economista austriaco esorta, in definitiva, a eliminare completamente il politico, il “potere pubblico in pubblico” lasciando spazio alla privatizzazione di ogni forma di diritto.