Araucaria. Revista Iberoamericana de Filosofía, Política y Humanidades | Sección digital
Sección digital Otras reseñas Junio de 2008
Joan C. Tronto, Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura,
Edizione italiana a cura di Alessandra Facchi, traduzione italiana di Nicola Riva. Diabasis, Reggio Emilia, 2006. Pp. 207. (Edizione originale: Moral Boundaries. A Political Argument for an Ethic of Care. Routledge, New York, 1993. Pp. 226.)
Cristina Boeris
Joan C. Tronto, docente di Political Science e Women’s Studies presso l’Hunter College della City University di New York, analizza con rigore logico, nei suoi scritti, l’esistenza di “confini morali” che operano una riduzione epistemologica nelle riflessioni di filosofia morale e politica. Tronto appartiene alla tradizione del “secondo femminismo” americano che, dopo le rivendicazioni volte al raggiungimento dell’uguaglianza, abbraccia le tematiche della differenza di genere come paradigma per un ripensamento dell’alterità nei diversi modi in cui essa si presenta. Il suo pensiero trova radici nel dibattito del pensiero femminile e le sue argomentazioni dimostrano una profonda conoscenza della filosofia moderna e contemporanea, sottoponendo il pensiero femminile stesso a una revisione che renda possibile una sua reale applicazione nel dibattito politico.
I confini morali di cui parla Joan Tronto, in specifico nella sua opera principale recentemente tradotta in italiano, sono tre. Per iniziare, l’Autrice prende in esame la separazione tra morale e politica. Vista oggigiorno come una necessità, questa separazione è una costruzione intellettuale che nasce nel XVIII secolo, e che perciò va vista in riferimento a quel particolare contesto storico. “Considerare la politica e la morale come ambiti separati della vita rende estremamente difficile che gli argomenti morali possano acquisire molto potere politico” [1] . Secondo l’Autrice, nel Settecento avvenne una profonda trasformazione della società che dovette adeguarsi a un mondo geograficamente vasto e orientato al mercato, che richiedeva l’adeguamento a norme morali tali da poter essere rispettate da tutti e quindi avere un fondamento universale e razionale. La morale universalistica si adatta perfettamente a una società nella quale è difficile gestire le differenze e le distanze; nel tempo, molti filosofi e pensatori hanno recepito le categorie morali kantiane, derivate dalla ragione umana e prive di connessioni con la società e la politica [2] . Tronto non intende, con questo, affermare che la prospettiva universalistica sia inadeguata o errata, ma che essa è una costruzione intellettuale e va considerata in quanto tale, non come una verità incontrovertibile. Gli approcci contestuali – a partire dalla teoria morale e politica di Aristotele – ricordano, invece, che la morale dipende fortemente dal contesto e che solo una condivisione di vita comunitaria può definire effettivamente il bene comune. Tronto tocca qui uno dei punti critici delle teorie della giustizia, quello della definizione del bene comune. Le teorie della giustizia, anche quelle fondate sull’etica del discorso, faticano nel compito di rifondare il bene comune in modo che sia davvero efficace al fine di riattivare processi politici e di impegno sociale, poiché esse partono dal presupposto che il bene comune derivi dagli sforzi dei singoli nel perseguire il loro bene privato.
Le problematiche che attraversano la società occidentale richiedono, al contrario, di ripensare la validità di questa separazione. La distinzione tra giustizia e vita buona è connessa con la restrizione del campo morale a questioni di giustizia, così come l’ideale di autonomia morale in queste teorie porta con sé la privatizzazione dell’esperienza delle donne e implica una cecità epistemologica nei confronti dell’altro concreto. La conseguenza di questa cecità è una carenza strutturale delle teorie morali universalistiche, in quanto esse definiscono l’accoglimento del punto di vista dell’altro come essenziale al punto di vista morale.
Il secondo “confine” analizzato è quello del “punto di vista morale”, cioè la convinzione che i giudizi morali debbano essere formulati da un punto di vista distante e disinteressato. Ritorna nuovamente la lezione kantiana: per essere morali bisogna essere non coinvolti e disinteressati, concentrarsi sulla natura del ragionamento morale e non su come le persone possano concretamente agire in modo morale. Di contro, tutte le etiche che si preoccupano di salvaguardare le relazioni e i sentimenti appaiono come inferiori. Il rischio di questa posizione, secondo l’Autrice, è quello di relegare l’altro in un mondo solo immaginato, dove ogni individuo è pensato in modo distante e disinteressato, perdendo ogni caratteristica concreta, il suo essere in carne ed ossa.
È necessario non giustapporre l’altro generalizzato all’altro concreto o vedere la validità normativa solo nell’uno o nell’altro. La “posizione originaria” di Rawls illustra una concezione della giustizia come lontananza, ma in questa posizione gli altri ci sono resi inaccessibili [3] . Innanzitutto, la metafora della posizione originaria non tiene conto che ci portiamo sempre appresso i pregiudizi e le assunzioni che abbiamo riguardo gli altri. E poi, anche ammettendo che questi pregiudizi possano essere disattivati sotto il «velo di ignoranza» in modo da creare una perfetta simmetria di relazioni, l’alterità rimane una sorta di fantasma creato a nostra immagine e somiglianza. Questo è il reale pericolo: non confrontarsi realmente con l’alterità dell’altro.
Solo un dialogo morale realmente aperto e riflessivo e che non funzioni con inutili restrizioni epistemiche può indurre a una comprensione reciproca dell’alterità. Né la concretezza né l’alterità dell’altro concreto possono essere conosciute nell’assenza della voce dell’altro. La prospettiva dell’altro concreto emerge, così, come una prospettiva distinta e innovativa, in quanto la voce dell’altro è ascoltata come risultato di una autodefinizione, e non immaginata come risultato di una astrazione che crea una falsa uguaglianza.
L’ultimo “confine” analizzato da Tronto è quello tra vita pubblica e vita privata: esso viene criticato – in modo particolare – dal pensiero femminile, che mette in evidenza come le donne siano sempre state relegate nell’ambito del privato e del domestico. Il compito politico della donna è – primariamente – quello di ricordare e riconoscere l’eticità della relazione, del debito e del dono che ci lega reciprocamente, riconoscere la giustizia della vita buona. Allora la donna non sarà più, hegelianamente, “l’eterna ironia della comunità” [4] , ma sarà l’utopia della comunità, della società, con il compito di ricordare che la felicità è una promessa da mantenere.
Condividendo questa tradizione di pensiero femminile, in Confini morali, Tronto riprende la storica querelle Kohlberg-Gilligan, esemplare nel mettere a confronto due prospettive diverse, o meglio, due voci diverse [5] .
La concezione di Kohlberg del dominio morale è basata su una forte differenziazione fra giustizia e vita buona. Questa è anche una delle pietre miliari della sua critica a Gilligan [6] . Secondo Kohlberg, le dimensioni di fratellanza, amore, amicizia e tutto ciò che riguarda la cura appartengono all’ambito della decisione personale, intendendo “personale” come “privato”, “soggettivo” opposto a “morale”, e – quindi – pubblico e universalizzabile. Osserva Tronto a questo proposito:
la teoria di Kohlberg postula lo sviluppo di un io fungibile che può assumere il ruolo di chiunque in un dato dilemma morale. Benhabib ha chiamato questa capacità l’abilità dell’io di divenire l’altro generalizzato […]. Benhabib ha notato che tale abilità generalizzata di rispondere alle situazioni degli altri ignora dimensioni importanti della vita umana e perciò non è tanto utile quanto Kohlberg e i suoi seguaci hanno sostenuto [7] .
Le teorie che fanno riferimento a un altro generalizzato non riescono a risolvere il problema dell’alterità e della reciprocità dell’impegno, che presuppone l’assunzione di ruoli sociali diversi e quindi la partecipazione a un gruppo, l’instaurarsi di relazioni significative e anche il conflitto con un’alterità che rimane impermeabile a ogni tentativo di assimilazione.
Kohlberg, dunque, fa riferimento a una definizione della moralità che – secondo questa prospettiva d’analisi – inizia con Hobbes e che porta ad una separazione radicale tra pubblico e privato, definendo il diritto come ciò che è razionalmente desiderato per ottenere pace civile e prosperità (la lezione di Locke) o come una forma razionale della morale autonomamente considerata (la lezione di Kant).
L’obiettivo di Tronto, perciò, è quello di un ripensamento critico di questi confini in modo da evidenziare chi viene escluso dal potere e chi viene incluso nell’idea di alterità egemone nelle società occidentali. Trattare moralmente gli altri come distanti e simili a noi è un paradosso dell’atomismo individualistico che ci fa applicare le conclusioni dei nostri ragionamenti a un altro indistinto che ha perso ogni sua specifica identità. L’avvertimento dell’Autrice è che bisogna affrontare le questioni della distanza e dell’alterità in un contesto di insieme, facendo emergere la vera alterità dell’altro e non un suo fantasma generato dall’astrazione di ogni differenza in nome dell’uguaglianza. Quando, per risolvere i conflitti, si fa appello ai princìpi, si soffoca la tendenza ben più apprezzabile ad elaborare soluzioni capaci di superare i conflitti stessi. A giudizio di Tronto, quando una persona è impegnata a risolvere un conflitto in termini di giustizia, prende le distanze dalla situazione, si pone dal punto di vista dell’osservatore neutrale e fa appello alle regole o a un principio per pronunciarsi sulle pretese contrastanti delle persone. Allorché, invece, le persone ragionano nei termini dell’etica della cura e della salvaguardia della rete di relazioni interpersonali, per risolvere un conflitto, si calano nella situazione impegnandosi a scoprire o a creare un modo per rispondere a tutti i bisogni in gioco.
Tronto sottolinea la precarietà di una concezione puramente “politica” della società giusta, che se da un lato, come ha cercato di dimostrare Rawls, è la condizione per la coesistenza e la collaborazione in un contesto frammentato dal pluralismo morale, dall’altro non assicura un adeguato riconoscimento delle motivazioni e dei bisogni. La concezione puramente politica è certamente il luogo della tolleranza, ma non assicura l’“interdipendenza” tra le persone, cioè la necessità che il bene di ognuno possa essere riconosciuto come il bene comune. La necessaria pluralità deve ritrovare una ricomposizione “nella condivisione delle forme fondamentali del bene” [8] assicurata dai diritti umani, i soli a garantire oggi un’etica universale, e – in quest’ottica – il diritto di partecipazione ai discorsi che generano le norme ci appare come una dimensione fondamentale dell’esercizio di tutti i diritti. La partecipazione politica nasce dalla partecipazione sociale e dall’allargamento delle responsabilità, e questa partecipazione è non solo un diritto, ma anche un dovere. Tronto considera come essenziale per la partecipazione politica l’acquisizione di una mentalità allargata e di un’etica comunicativa di interpretazione di bisogni. Bisogna quindi chiarire che la distinzione tra le due prospettive, quella dell’“etica della giustizia” e quella dell’“etica della cura”, non è prescrittiva, bensì critica. L’obiettivo dell’Autrice non è, tuttavia, quello di prescrivere una teoria basata sul concetto di cura. La dignità e il valore delle teorie della giustizia vanno ribaditi in quanto sono una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per definire il punto di vista morale nelle società moderne.
In questo senso, la cura è un concetto critico che delinea i limiti ideologici del discorso universalistico. Non la si deve interpretare come particolare e la giustizia come universale, creando uno falsa dicotomia: “Una teoria della cura è incompleta a meno di non essere anche inserita in una teoria della giustizia […], tuttavia la giustizia senza un’idea della cura è incompleta” [9] . Perché assumere come punto di vista il disinteresse, come suggerirebbe il “velo d’ignoranza” di Rawls, invece della relazione e dell’interdipendenza?
Il problema sorge quando dobbiamo adottare un criterio per verificare se tutti i bisogni sono legittimi e se è possibile comporre le esigenze di tutti. E nel tentare di fare questo, dovremo certo avere come riferimento dei princìpi, ma dovremo usare il dialogo, la comprensione reciproca, l’ascolto. La cura dà spazio ad una pratica relazionale creativa perché aperta, laddove la giustizia offre dei diritti che possono essere usati solo come degli scudi per difendersi o per tracciare dei confini. La cura rappresenta un ponte verso l’altro. Ma è anche un rivelare i nostri bisogni e la nostra vulnerabilità.
L’etica della cura non è indifferente, quindi, alle esigenze dell’universalità e, in questo, sembra essere vicina al punto di vista dell’osservatore imparziale della teoria kantiana e rawlsiana. La sfida che essa lancia è se sia possibile una teoria in cui l’attore morale, pur ragionando nel contesto e pur occupandosi del bisogno dell’altro concreto, sia però tendente all’universalità.
La portata innovativa delle tesi di Tronto sta nel considerare la pratica della cura come un’idea già in sé politica e nel portare l’attenzione al fatto che oggigiorno la cura è entrata nel mondo del lavoro e del business, ma è anche connessa allo sfruttamento di chi si occupa concretamente delle attività di cura: “La nostra società non si rende conto dell’importanza della cura e della qualità morale della sua pratica, quindi svalutiamo il lavoro delle donne e dei gruppi privi di potere che se ne occupano” [10] . La riflessione di Tronto diviene dunque essenziale, su un piano più propriamente istituzionale, per ripensare le modalità di attuazione dei sistemi di Welfare, la concezione della cittadinanza e del potere: “La cura come concetto politico richiede che noi riconosciamo come la cura segni le relazioni di potere nella nostra società e le intersezioni di genere, razza e classe con il prestare cura” [11] .
Certo, la cura non è esente da rischi come il “paternalismo/maternalismo” o il “particolarismo” [12] , ma proprio per evitare di incorrere in questi pericoli è necessario integrarla con una teoria della giustizia: “per rendere la cura democratica ci si dovrebbe basare su due elementi della teoria della cura che ho già menzionato: la sua concentrazione sui bisogni e l’equilibrio tra chi presta e chi riceve cura” [13] . Tronto fa così chiaramente trasparire la sua passione per una teoria filosofica che non sia disgiunta dalla prassi e da una forte attenzione alla storicità delle realtà sociale.
Esiste una tensione dialettica, ma – a ben vedere – creativa, tra concezioni universalistiche e visioni più particolaristiche del legame con gli altri. Alla luce di una possibile connessione, l’universalismo della teoria della cura potrebbe essere allora definito come tensione ad estendere il senso di responsabilità e a mantenere e coltivare le relazioni, evitando di imporre l’imparzialità a spese dei legami in atto.
[1] J.C. Tronto, Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura, ed. it. a cura di A. Facchi, trad. it. di N. Riva, Diabasis, Reggio Emilia, 2006, p. 13 (d’ora in poi: Confini morali).
[2] Per questa lettura interpretativa, cfr. – tra gli altri – A. MacIntyre, A Short History of Ethics. A History of Moral Philosophy from the Homeric Age to the Twentieth Century, Routledge, London, 19982.
[3] Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia (1971), trad. it. di U. Santini, rev. e cura di S. Mastellone, Feltrinelli, Milano, 19935.
[4] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1807), 2 voll., trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze, 1970, vol. II, p. 34.
[5] Cfr. C. Gilligan, In a Different Voice. Psychological Theory and Women’s Development, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1982 (trad. it. di A. Bottini: Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Milano, Feltrinelli, 1987 [19912]). Per quanto riguarda le idee di Lawrence Kohlberg e la loro evoluzione nel tempo, cfr. L. Kohlberg, Essays in Moral Development, 2 voll., Harper and Row, New York, 1981-1984 (vol. I: The Philosophy of Moral Development. Moral Stages and the Idea of Justice, 1981; vol. II: The Psychology of Moral Development. The Nature and Validity of Moral Stages, 1984); A.J. Cortese, Ethnic Ethics. The Restructuring of Moral Theory, SUNY Press, Albany, 1990, pp. 19-20.
[6] Cfr. L. Kohlberg, “Synopses and Detailed Replies to Critics”, in Id., Essays on Moral Development, cit., vol. II, pp. 330-386.
[7] Confini morali, p. 82. Nella citazione si fa riferimento alla critica che Seyla Benhabib muove alla nozione dell’“altro generalizzato” di Kohlberg, pur continuando a ritenere che sia possibile comprendere le circostanze dell’altro concreto: cfr. S. Benhabib, “The Generalized and the Concrete Other: The Kohlberg-Gilligan Controversy and Moral Theory”, in Ead., D. Cornell (ed. by), Feminism as Critique, University of Minnesota Press, Minneapolis 1987, pp. 77-95.
[8] S. Zamagni, Economia, democrazia, istituzioni in una società in trasformazione, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 19.
[9] Confini morali, p. 186.
[10] Confini morali, p.186.
[11] Confini morali, p. 188.
[12] Confini morali, pp. 189-191.
[13] Confini morali, p. 190.