Sección digital Otras reseñas Septiembre de 2008

Stefano Tomassini, Storia avventurosa della Rivoluzione romana. Repubblicani, Liberali e Papalini nella Roma del '48, Il Saggiatore, Milano, 2008. Pp. 525

Sauro Mattarelli

 

Il termine "avventurosa" connota il titolo di questo libro per indicare la tumultuosa sequenza di avvenimenti che segnarono un'epoca, scalfendo l'immaginario collettivo. Ma in queste pagine c'è, anche, l'avventura del narrare tout court; il far riferimento a uomini e donne che stanno vivendo la loro vita con una consapevolezza straordinaria della capacità di incidere sulla storia nel momento stesso in cui si rivendicano libertà, indipendenza e repubblica. Da questo punto di vista, l'espressione "avventurosa storia" sembra surrogare il termine "repubblica", sostituito, non a caso, con la più instabile "rivoluzione". L'avventura, dunque, si svolge, avvincente, nell'epopea di personaggi che vengono raccontati e si raccontano quasi in prima persona. Credibili, pur se sospesi sull'anomalo filo dell'eccezionalità.

La storia, così proposta, delinea a tutto tondo le figure di queste vicende, note e meno note, senza perdere nulla della sua umana drammaticità. Il papa Pio IX, Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Aurelio Saffi, Quirico Filopanti, Cristina Trivulzio di Belgioioso, Luigi Carlo Farini, il generale Oudinot, Luciano Manara, Carlo Pisacane, Pellegrino Rossi, ma anche personaggi come Carlo Armellini, Giacomo Antonelli, Agostino Chigi, Carlo Luciano Bonaparte, Enrico Cernuschi, Angelo Brunetti (detto Ciceruacchio) vengono messi a fuoco con una luce nuova e si stagliano nel mistero della relatività del tempo storico, fin quasi a porsi al di sopra dei concetti (e dei giudizi) di bene e di male. Merito, certo, delle accelerazioni, tipiche dei momenti rivoluzionari; ma merito, soprattutto, della capacità dello storico di cogliere aspetti che spesso restano nascosti contribuendo non tanto al degrado della storia quanto, piuttosto, all'allontanamento della storiografia dal "gradimento" del grande pubblico.

Viceversa, il libro di Stefano Tomassini salvaguarda pienamente, attraverso immagini e personaggi gogoliani, l'inquietudine e il fascino vitale della vicenda. D'altra parte, Tomassini è un giornalista di razza e appartiene a una tradizione di professionisti prestati alla storia che ha dato frutti eccellenti: dallo stesso Mazzini fino a Giovanni Spadolini e a Indro Montanelli. Una scuola che pone interrogativi attraverso l'esplorazione, lo scavo, la ricostruzione dei fatti. Non per delineare una verità assoluta e definitiva, ma per cercare, di volta in volta, nuovi significati a fronte di nuovi documenti.

Un aspetto saliente e imprescindibile di questo lavoro sta, appunto, nella ricerca documentata; nella capacità di prendere e ascoltare gli uomini, i protagonisti ma non solo, a uno a uno. Un metodo che ricorda certi passi letterari di Dickens o di Andersen, mantenendo il rigore di un trattato di sociologia e i grandi interrogativi del saggio storico tradizionale.

Quanto incise sugli avvenimenti l'assassinio di Pellegrino Rossi su cui "aleggiava… un'aura di libero pensiero"? Quanto influirono nella radicalizzazione dello scontro politico le strumentalizzazioni dei potentati stranieri che il "cosmopolitismo" di Rossi avrebbe potuto frenare? Era (ed è) praticabile la democrazia pura? Si delineò davvero una "terza via" laica e riformista nella Roma del 1849? La Repubblica romana può essere considerata una grande metafora dell'eterno gioco dialettico della politica tra conservazione, innovazione, rivoluzione? Che cosa accade a una repubblica quando, prima che una forma, diventa un imperativo morale? La cesura tra ribellismo rivoluzionario e necessità di governo implica che le società abbiano bisogno di un sogno (seppur remoto) per progredire? Interrogativi di questo genere vengono implicitamente posti fra le pieghe della sequenza dei fatti raccontati con grande oggettività, senza affatto nascondere la profonda partecipazione dell'autore: l'ammirazione verso personaggi come Rossi o lo stesso Mazzini.

Non c'è dubbio - scrive Tomassini riferendosi al Genovese -, io racconto la vita di un visionario, in quella parte della sua vita che più si avvicina al modello della visione. Ma devo pur dirlo, una volta per tutte: sarà per mia ignoranza, oppure per mio gusto, per mia inclinazione, non ho mai conosciuto e non conoscerò visione migliore del mondo che questa. E quando dirò - perché dovrò pur dirlo - che in Italia tutti hanno preso qualcosa, e anche molto, da Mazzini, compresi fascisti e comunisti, dovrò ricordarmi anche di questo: che fu nazionale senza essere nazionalista, che fu sociale avendo orrore del comunismo, che fu difensore della libertà senza contentarsi del liberalismo e fu propugnatore di un internazionalismo che, invece di negare la nazione, la prendeva a proprio fondamento.

Una pagina lapidaria ed emblematica che impone una riflessione. È infatti senz'altro vero che tutti hanno preso qualcosa da Mazzini, nell'Italia di quest'ultimo secolo e mezzo. Ma è anche vero che nessuno ha saputo o potuto prendere Mazzini integralmente e c'è da chiedersi se non sia (anche) questa una delle cause dei mali della politica; oltre che il segno della santificazione, ma, contemporaneamente, della sconfitta di Mazzini.

ISSN 0327-7763  |  2010 Araucaria. Revista Iberoamericana de Filosofía, Política y Humanidades  |  Contactar