Sección digital Otras reseñas marzo de 2009

Vincenzo Ruggiero, La violenza politica. Un’analisi criminologica, Roma-Bari, Laterza, 2006. Pp. 252

Piero Venturelli

 

Il libro prende in esame la forza autorizzata e la forza non autorizzata, ossia le due forme in cui si manifesta la violenza politica. La forza autorizzata proviene dalle istituzioni e può essere o fondativa, allorché instaura ordinamenti inediti e designa nuove autorità, o puramente conservativa, nel caso in cui protegge la stabilità dei sistemi e rafforza il potere costituito. La forza non autorizzata, viceversa, corrisponde ad una violenza di tipo anti-istituzionale, in quanto trae origine dal basso ed è espressione della sfida rivolta contro l’autorità. In esplicita polemica con tutti quegli innumerevoli studiosi che trascurano la variabile violenza politica nell’approfondimento delle dinamiche delle società moderne e contemporanee, Vincenzo Ruggiero discute le idee di violenza dal basso e dall’alto che è possibile rinvenire nella storia del pensiero criminologico, mettendo in luce come non poche di esse si rivelino ancor oggi strumenti dotati di notevole capacità analitica.

Nel primo dei dieci capitoli di cui si compone il libro, l’Autore affronta le concezioni di Cesare Beccaria e di Jeremy Bentham, esponenti di rilievo della criminologia classica. In entrambi si riscontra, per certi aspetti, l’ambivalenza intellettuale dell’Illuminismo: Beccaria, infatti, argomenta contro l’opportunità della pena capitale, pur non esitando ad invocare la condanna a morte per chi si macchia dei “più grandi crimini”, cioè degli atti di violenza politica dal basso; dal canto suo, Bentham richiede punizioni razionali, ma rinuncia alla razionalità quando discute di “fanatismo” e “crimini contro lo Stato”. Nel corso della sua trattazione, Ruggiero non manca di soffermarsi sulla tesi di Beccaria secondo cui un eccesso di violenza istituzionale provoca risposte speculari, anche se non autorizzate, una posizione – questa – che si rivela preveggente nei riguardi dello scoppio della Rivoluzione francese.

Il secondo capitolo dell’opera è dedicato alla Scuola positiva, sviluppatasi tra l’ultimo terzo dell’Ottocento e il principio del Novecento. Negli anni in cui, dalla Francia alla Russia, si diffondono movimenti nichilisti, socialisti, anarchici e comunisti, e si susseguono rivolte e sedizioni, studiosi come gli italiani Cesare Lombroso ed Enrico Ferri cercano non solo di dare un senso complessivo alla violenza che sta attraversando l’Europa, ma anche di indagare “scientificamente” i casi di quegli “individualisti dell’omicidio” che ammazzano perché non possono sopportare “il trionfo dei ricchi mentre tanti sono così poveri”. La Scuola positiva identifica due categorie di criminalità che differiscono profondamente in termini di motivazioni, carattere e conseguenze: “la criminalità comune, che si manifesta in forma muscolare e atavistica”, e “la criminalità socio-politica, che tende (in maniera più o meno illusoria) ad affrettare le fasi future della vita politica e sociale” (p. 27). Mentre il primo genere di criminalità viene ascritto ai delinquenti nati, la criminalità di tipo socio-politico (o “evolutivo”) è attribuita a “pseudocriminali o persone normali, individui sospinti da passione politico-sociale non ortodossa” (ibid.). Entro tale orizzonte teorico, gli esponenti della Scuola positiva indicano la violenza politica “rivoluzionaria” non già come atavistica, bensì come evolutiva, dal momento che essa tende ad “affrettare il futuro”, ad anticipare i sistemi socio-politici a venire.

Muovendo dal contributo offerto da Émile Durkheim all’analisi della violenza politica, Ruggiero studia, nel terzo capitolo, la tradizione funzionalista e approfondisce in special modo le posizioni di Marcel Mauss, di Talcott Parsons e Robert Merton rispetto all’eventualità di un mutamento sociale violento.

L’oggetto del capitolo successivo è il lavoro che i sociologi di Chicago portano avanti soprattutto nel terzo e nel quarto decennio del secolo scorso. Per i rappresentanti di questa scuola, che vanno da Louis Wirth a Nels Anderson, da Frederic M. Thrasher a John Landesco e a Herbert Asbury, i prioritari temi d’interesse sono il vicinato e le comunità locali. Dal loro punto di vista, la violenza politica coincide con la violenza istituzionale: crimine organizzato e politica ufficiale vengono descritti come alleati, dal momento che erogano servizi di mutua utilità; in altri termini, entro tale prospettiva ermeneutica, la violenza politica può solo contraddistinguere, e in fondo beneficiare, i gruppi al potere. Battendosi per promuovere la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica in risposta alla povertà urbana e agli abusi delle élites, i sociologi di Chicago sono indotti a trascurare il non occasionale ricorso alla violenza anti-istituzionale da parte delle comunità e degli elementi più miseri e svantaggiati al fine di cambiare la propria condizione; secondo Ruggiero, questi autori agiscono così perché “[d]enunciare la violenza dei potenti, e simultaneamente quella dei deboli, significherebbe attenuare la loro forza argomentativa, mentre l’etichetta violenta imposta ai gruppi emarginati comprometterebbe il loro mandato politico e la loro missione di ricercatori” (p. 85).

La vita sociale viene interpretata dai teorici del conflitto in criminologia come uno scontro permanente tra gruppi costituiti di individui associatisi in base ad interessi comuni. Nel capitolo quinto, Ruggiero osserva che, a giudizio di questi studiosi, chi controlla il potere dello Stato si serve sia del processo legislativo, per dar vita alle distinzioni tra comportamenti accettabili e inaccettabili, sia degli organi di polizia, allo scopo di sanzionare le trasgressioni dell’ordine così plasmato. Di conseguenza, in questa prospettiva, la condotta criminale è considerata tipica dei gruppi sociali minoritari che, non possedendo sufficiente potere per salvaguardare i propri interessi battendo vie politiche e parlamentari, sfidano l’autorità con le armi del dissenso, della disobbedienza o della violenza.

Nel sesto capitolo, vengono ripercorse le origini e la maturazione della corrente interazionista attraverso l’esame dei contributi di George H. Mead, Herbert Blumer, Edwin M. Lemert e Howard S. Becker. Questa scuola criminologica vede la violenza politica come azione che necessariamente influenza, e viene influenzata, dalle risposte che riceve. Nell’ultima parte del capitolo, Ruggiero utilizza alcune categorie analitiche desunte dalla tradizione interazionista per studiare l’esperienza del Black Panther Party, l’organizzazione rivoluzionaria afro-americana fondata nel 1966 in California.

Il settimo capitolo ricostruisce la nascita, lo sviluppo, la sconfitta e le motivazioni ideali del maggiore movimento armato tedesco degli anni Settanta del secolo scorso, la Rote Armee Fraktion (RAF), tramite strumenti d’indagine offerti da diverse scuole di pensiero criminologico, una serie di interviste ad ex militanti e l’approfondimento sia della “teoria critica” proposta dalla Scuola di Francoforte sia della nozione di “tolleranza repressiva” elaborata da Herbert Marcuse. Alla luce di quest’indagine, Ruggiero mostra come il progetto della RAF rappresenti una delle conseguenze dell’autoritarismo che tradizionalmente prevale in Germania e, insieme, una reazione inadeguata in un contesto di democrazia matura come quello tedesco di un trentennio fa.

L’ottavo capitolo focalizza l’attenzione sulla storia, sulle strategie e sugli obiettivi delle Brigate Rosse. Grazie all’impiego di alcune categorie derivate dalla sociologia della devianza e di nozioni desunte dalla sociologia dei movimenti sociali, Ruggiero interpreta la spirale che porta questo gruppo politico italiano extraparlamentare di estrema Sinistra a ricorrere – dal 1970 in poi – a forme di violenza non autorizzata, come uno degli esiti della violenza crescente utilizzata dalle istituzioni italiane nel combattere gli oppositori.

Nel nono capitolo, si sposta lo sguardo verso eventi internazionali del nostro tempo e si analizzano i due generi estremi di violenza politica, vale a dire la guerra e il terrorismo. Ruggiero propone di definire quest’ultimo come una manifestazione di violenza “pura”, cioè di violenza cieca praticata da “forze organizzate [che] si scagliano contro civili non combattenti” e che “adottano un concetto di responsabilità collettiva applicandolo ai gruppi che intendono annientare” (p. 188). Il terrorismo, perciò, punta a colpire non già attori precisamente identificabili la cui condotta viene ritenuta iniqua o spregevole, bensì intere popolazioni, che sono attaccate per la loro nazionalità, origine etnica, religione o fede politica. La definizione avanzata dall’Autore ha il merito di portare alla mente anche i tratti peculiari delle guerre contemporanee: anzi, non solo terrorismo e guerra condividono molti importanti caratteri, ma il primo viene ad alimentare la seconda e viceversa. In questa prospettiva, a giudizio di Ruggiero, i terroristi internazionali contemporanei non risultano altro che “cloni” di chi dichiara guerra contro di loro.

Lo scopo del decimo ed ultimo capitolo del libro è di dimostrare, da una parte, che “la nozione di ‘guerra come valore’ ha goduto di una longevità immeritata” e, dall’altra, che “un’analisi sociologica e criminologica conduce alla criminalizzazione incondizionata di ogni conflitto bellico” (p. 207). Dopo aver cercato di operare il disinnesco del potenziale distruttivo inerente alle concezioni di alcune scuole criminologiche (come quella funzionalista, che vede nella guerra una delle più intense espressioni umane di solidarietà, identità collettiva ed integrazione) e, insieme, aver valorizzato le tesi pacifiste che affiorano non solo in altre correnti interpretative, ma anche nella severa autocritica di ex membri di organizzazioni terroristiche, Ruggiero conclude l’opera descrivendo la guerra come criminalità dei potenti e invocando, attraverso l’esposizione di un breve manifesto tematico per una criminologia pacifista, un cessate il fuoco generale, da estendere a tutte le forme di violenza istituzionale ed anti-istituzionale.

 

ISSN 0327-7763  |  2010 Araucaria. Revista Iberoamericana de Filosofía, Política y Humanidades  |  Contactar