Sección digital Otras reseñas junio de 2009

AA.VV., Diritti di libertà, diritti sociali e sacralità della giurisdizione in Piero Calamandrei

Atti della giornata di studio (Università di Modena e Reggio Emilia, Facoltà di Giurisprudenza, 2 dicembre 2006), Firenze, Il Ponte Editore, 2007. Pp. 125.

Piero Venturelli [*]

 

In occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Piero Calamandrei (1889-1956), la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Modena e Reggio Emilia ha dedicato a questo celebre giurista, intellettuale e uomo politico fiorentino una giornata di studio, i cui Atti sono stati raccolti in volume nelle edizioni della rivista «Il Ponte», da lui fondata nel 1945 [1] .

I numerosi relatori intervenuti – giuristi, magistrati, avvocati, pubblicisti, docenti e ricercatori universitari – hanno preso in considerazione i molteplici aspetti dell’ampia riflessione di Calamandrei, spaziando dalla sua idea della democrazia alla sua peculiare visione della laicità, dalla proposta di federalismo territoriale alla prefigurazione di una sorta di Stati Uniti d’Europa, dalla sua concezione della “sacralità” della legge alle tesi che egli avanza intorno alla deontologia forense.

Il volume si apre con una relazione di Massimo Jasonni, dedicata al breve periodo di docenza (1918-1920) che il futuro padre costituente trascorre presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Modena. Calamandrei, chiamato a ricoprire la cattedra di Diritto processuale civile all’età di ventinove anni, ha già pubblicato a quel tempo contributi scientifici di grande importanza [2] e, severo custode delle tradizioni liberali, si sta affacciando nel panorama intellettuale italiano come un interprete originale del paradigma idealistico allora dominante.

Molte delle comunicazioni lette a Modena concernono la prospettiva liberalsocialista di Calamandrei. Nato alla prestigiosa Scuola Normale di Pisa nel 1937 intorno alle figure di Aldo Capitini (1899-1968) e Guido Calogero (1904-1986), il movimento liberalsocialista non solo si oppone al fascismo, ma – come rileva Gian Marco Minardi – intende anche «criticare e superare il liberalismo classico, sia sul piano dell’azione e del programma politico, sia sul terreno ideologico» [3] , non accontentandosi del semplice ritorno alla limitata democrazia liberale che ha preceduto l’avvento al potere del “duce” Benito Mussolini (1883-1945). Nelle idee liberalsocialiste, osserva Minardi, si riconoscono tanto «quei liberali che non intendono la libertà come delimitazione semplicemente giuridica, ma come grande occasione individuale di sviluppo dei valori spirituali», quanto «quei socialisti che sono consapevoli che lo statalismo [...] può tradire il socialismo stesso quando si consideri come fine, quando assolutizzi l’ordinamento economico e quando si dimentichi, così, di essere la più straordinaria occasione storica dell’accrescimento della libertà e dell’emancipazione dell’uomo da ogni forma di ingiustizia» [4] . Alla «socializzazione nel mondo economico», quindi, deve accompagnarsi «il contrappeso nel decentramento e nella libertà, che viene lasciata all’iniziativa nel campo morale» [5] : ciò, con l’obiettivo di scongiurare, insieme, l’instaurazione di «totalitarismi amministrativi» e la messa a punto di politiche riformistiche blande ed arrendevoli.

In questo senso, scrive Minardi, si può dire che

[l]a teoria liberalsocialista [...] è l’avvicinamento dei liberali (sganciati dal liberalismo economico) con i socialisti (riluttanti al totalitarismo). Non si tratta di una nuova forma di moderatismo, che derivi dalla neutralizzazione reciproca dei due termini, liberalismo e socialismo, ma di due rivoluzioni invece di una, tali da imprimere «il massimo di socialismo e il massimo di liberalismo» [6] .

Lungi dall’essere «una specie di mescolanza indistinta tra liberalismo e socialismo e una soluzione moderata dove un termine tempera l’altro», il liberalsocialismo prevede che

un termine stimol[i] l’altro, perché, se il liberalismo non può nel suo sviluppo non suscitare il socialismo per una maggiore libertà concreta contro il capitalismo (che toglie mezzi di sviluppo e quindi libertà), il socialismo, purificato dalle sue degenerazioni totalitarie e stataliste, assume una nuova dimensione etico-religiosa, di una realtà sempre produttiva di nuovi valori collettivi e individuali [7] .

Entro questo quadro, pertanto, il primato dell’etica sulla politica è considerato un punto fermo tra gli esponenti del movimento liberalsocialista: il benessere e il potere vengono piegati all’affermazione di una presenza di valori spirituali e di libertà, superiori alla sfera politico-economica e a ogni istituzione [8] .

Le argomentazioni svolte da Thomas Casadei si pongono in continuità con le tesi discusse da Minardi: a differenza di quest’ultimo, però, egli concentra l’attenzione prevalentemente sul pensiero di Calamandrei, mostrando come la «grammatica della democrazia» nel giurista fiorentino richiami spesso la lezione di autori come Carlo Rosselli (1899-1937), Guido Calogero e Piero Gobetti (1901-1926). Assertore di una «rivoluzione democratica» da intraprendersi al più presto in Italia, Calamandrei mette in luce i limiti dello statalismo burocratico e teorizza una versione partecipativa e conflittualista della democrazia, incentrata sulle idee della libertà come autonomia e della gestione diretta della cosa pubblica da parte dei cittadini. Il suo scopo è quello di creare nella società centri autonomi di democrazia partecipativa: dai consigli di fabbrica e di quartiere alle leghe contadine, dai partiti politici agli organismi amministrativi decentrati [9] .

Il giurista toscano si spinge oltre, fino ad avanzare un vero e proprio progetto di federalismo territoriale e a sostenere la necessità di creare una sorta di Stati Uniti d’Europa per garantire l’autodeterminazione dei popoli, idea che egli condivide con gli autori del Manifesto di Ventotene (1944). Tali concezioni di Calamandrei risultano di particolare interesse: egli, infatti, individua il federalismo come teoria istituzionale della libertà, ossia come modello politico-costituzionale in grado di contemperare la struttura dello Stato unitario con le forme dell’autogoverno popolare, l’area tradizionale dello Stato-istituzione con il nuovo spazio esperibile dalla società civile, sia sul piano interno sia su quello internazionale [10] .

Dopo la Liberazione, tuttavia, l’organismo che avrebbe potuto tradurre operativamente questo progetto di democrazia partecipativa, cioè il Partito d’Azione, dimostra una sostanziale incapacità di affermarsi come partito-movimento: subisce una clamorosa sconfitta alle elezioni amministrative del 1946 e l’anno seguente si scioglie. Nel delicatissimo quadro internazionale bipolare allora nascente, la Sinistra italiana viene egemonizzata da partiti che preferiscono la politica dell’unità dall’alto alla costruzione della democrazia dal basso.

Nel 1945 Calamandrei è nominato membro dell’Assemblea Costituente in rappresentanza del Partito d’Azione. Partecipa attivamente ai lavori parlamentari e ha un ruolo di grande rilievo giuridico, di alto profilo culturale e di appassionata testimonianza, rappresentando con forza lo spirito “resistente” di coloro che vogliono una democrazia più attenta ai bisogni dei cittadini e meglio garantita rispetto alla lontananza del potere. All’interno dell’Assemblea, memorabili e di notevole risonanza sono i discorsi che egli dedica al piano generale della Costituzione, al potere giudiziario, ai Patti Lateranensi e all’indissolubilità del matrimonio. Durante la giornata di studio modenese, è stato soprattutto Michelangelo Bovero a mettere in risalto l’essenziale contributo del liberalsocialismo nella costruzione della Carta fondamentale, un contributo che consiste nel richiamare l’attenzione degli altri padri costituenti sulla «necessità non meramente pragmatica, bensì logica e assiologica, dell’integrazione tra i diritti di tradizione liberale e quelli di ispirazione socialista», e sull’esigenza di «chiarirne le ragioni nell’ambito di una concezione evoluta della democrazia» [11] . E come esempi emblematici dell’apporto dei liberalsocialisti – e segnatamente di Calamandrei – alle discussioni dell’Assemblea, Bovero cita gli articoli della Carta inerenti ai diritti sociali e alla Corte costituzionale. Da questo connubio fra tradizione liberale e tradizione socialista, spiega Gianfrancesco Zanetti, l’autore toscano si attende la nascita di una «democrazia sociale intesa come forma di governo in cui il riconoscimento dei diritti sociali [viene] posto a garanzia dell’esercizio effettivo dei diritti di libertà e dei diritti politici» [12] .

Nelle ultime settimane della Seconda guerra mondiale sul territorio italiano (e su scala europea, più in generale), Calamandrei fonda a Firenze «Il Ponte», rivista che dirige fino alla morte. Attraverso «Il Ponte», egli mira a far conoscere gli ideali liberalsocialisti, difendere la Costituzione e lottare contro i fascismi vecchi e nuovi. Tale rivista non soltanto costituisce uno dei principali strumenti a disposizione dell’intellettuale toscano per portare avanti – come scrive Vincenzo Pacillo – la sua opera di «proselitismo laico» [13] , ma in breve tempo diventa anche una palestra di democrazia e di impegno civile per alcuni dei più importanti uomini di cultura italiani.

In due relazioni, presentate da Marcello Rossi (l’attuale direttore del «Ponte») e da Roberto Passini, viene focalizzata l’attenzione sulle principali proposte e analisi che Calamandrei consegna agli scritti che escono per undici anni nelle pagine della rivista. In essi, vengono accusati ripetutamente la classe dirigente italiana e buona parte dell’opinione pubblica di star tradendo gli ideali della Resistenza; per combattere questa restaurazione strisciante, secondo Calamandrei, occorre richiamarsi ai valori espressi nella Costituzione repubblicana: solo in questo modo, egli ritiene, ad una congerie di gretti benpensanti si potrà presto sostituire una società composta di cittadini consapevoli, attivi promotori del bene comune e nemici di quel paternalismo confessionale cui diabolicamente puntava, a suo dire, la Democrazia Cristiana.

Negli articoli che pubblica nel «Ponte», inoltre, il giurista fiorentino si schiera apertamente contro la nascita del Patto Atlantico, facendosi nel medesimo tempo promotore – come si è detto – della costruzione degli Stati Uniti d’Europa, un’entità politica e istituzionale che egli considera indispensabile per salvaguardare la pace tra i popoli e per non avallare la divisione del mondo in blocchi contrapposti e sempre più militarizzati.

Lo scopo primario dell’intervento del già citato Pacillo è porre in rilievo la battaglia all’insegna della laicità combattuta a tutto campo da Calamandrei. L’avversione di questo «adepto e apostolo della religione della legalità costituzionale» [14] – come lo definisce Pacillo – nei confronti del confessionalismo non è di carattere politico o ideologico, ma di natura giuridica. Secondo Calamandrei, infatti, la proclamazione di una religione come «religione ufficiale dello Stato» comporta per essa un regime giuridico privilegiato. Va da sé che, in questo modo, viene necessariamente meno l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge: da un lato, certi diritti sono riconosciuti soltanto ai cittadini che professano la religione dello Stato; dall’altro, vi è la pretesa che un certo numero di precetti della religione ufficiale, trasformandosi in leggi dello Stato, diventino obbligatori anche per coloro che professano una religione diversa o non ne professano alcuna. Di conseguenza, dal punto di vista di Calamandrei, dichiarare in Costituzione che esiste una «religione ufficiale dello Stato» significa ferire gravemente la coscienza dei credenti in un’altra o in nessuna fede, eclissando di fatto la libertà religiosa di coloro che non professano la religione ufficiale.

Come sottolinea Pacillo, sono i Patti Lateranensi a costituire l’obiettivo polemico primario di Calamandrei, dal momento che

la sciagurata alleanza Trono-Altare che [vede] la luce durante il regime mussoliniano [...] comport[a] l’adesione (non solo verbale e programmatica ma soprattutto istituzionale e giuridicamente produttiva di obblighi) da parte dello Stato ai principi della religione cattolica e che si sostanzi[a] in una sorta di «professione di fede» delle istituzioni pubbliche, le quali, per usare le parole di Schiappoli, [credono] di fare anch’esse, come persona collettiva, professione d’un determinato culto, quasi [abbiano] un’anima da salvare al pari d’una professione fisica [15] .

A parere di Calamandrei, dai Patti Lateranensi scaturisce un confessionalismo aberrante, un pericoloso monstrum giuridico: inserirli in Costituzione, pertanto, determinerebbe la nascita di una vera e propria «Repubblica pontificia» [16] . Secondo Pacillo, comunque, egli non è «né paladino di un anticlericalismo ostile né sostenitore di una laicità cieca di fronte alle esigenze religiose della popolazione»: anzi, «[i]n molte pagine Calamandrei sembra muoversi nel solco di una “laicizzazione della laicità”: laicità che perde la sua originaria dimensione di “religione antireligiosa” per aprirsi al pluralismo culturale in cui anche le tradizioni confessionali giocano un ruolo determinante» [17] . In altri termini, è sua intenzione «sganciare la laicità dalle ideologie (clericali o anticlericali che fossero) prevalenti tra le forze politiche, per collegarla invece a una visione dello Stato che promuove la religione non già per adesione a un determinato messaggio religioso – come avviene nello Stato sacrale – bensì la promuove in quanto fatto culturale» [18] .

I temi centrali di un altro cospicuo gruppo di relazioni modenesi sono la deontologia forense e la “sacralità” della legge e, più in generale, del diritto. Non poteva essere diversamente, perché questi ambiti sono oggetto di approfondite ed appassionate riflessioni di Calamandrei, che sostiene fino in fondo il principio dell’autonomia e dell’indipendenza, dell’eguaglianza dei giudici, dell’indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo e di un equilibrato autogoverno dell’ordine giudiziario.

Nel suo saggio, Antonino Cavarra mostra come nelle concezioni dell’autore toscano intorno alla figura del giudice si rinvenga una sorta di spartiacque tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta del secolo scorso. Prima di allora, Calamandrei dice e scrive più volte che, per assicurare ai cittadini la certezza dell’eguale applicazione della legge verso tutti, il sistema della legalità richiede, in primo luogo, un complesso prestabilito di norme generali e, in secondo luogo, una loro applicazione in conformità a regole precise e insuperabili. Il giudice non può modificare le leggi: è tenuto esclusivamente ad applicarle, anche quando il loro contenuto gli fa orrore. Socrate che nel carcere esalta la santità delle leggi da cui gli viene incontro la morte, nella visione di Calamandrei, è l’icona di questo principio della legalità a tutti i costi.

Il giurista fiorentino, tuttavia, è indotto a ripensare ab imis la propria posizione in seguito all’entrata in vigore nel 1938 delle leggi razziali: i giudici, applicandole, autorizzano la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio nazisti. Travagliate riflessioni su questo nodo teorico convincono Calamandrei che si può intendere a pieno il principio di legalità soltanto qualora la si consideri realmente attuata nei regimi animati dal soffio vivificante della libertà, mentre le leggi della tirannia sono da vedere come mere forme prive di anima. Dunque, i giudici non hanno il dovere di applicare la legge quando il suo contenuto è mostruoso: prima di tutto, essi sono tenuti ad osservare le leggi dell’umanità, come insegna Antigone, l’eroina di Sofocle che non rispetta il decreto di Creonte e dà sepoltura al fratello. Ad avviso di Calamandrei, però, mentre Antigone si rifà a leggi non scritte di portata universale, i giudici del secondo dopoguerra che ritengano l’applicazione di una determinata legge in contrasto con valori perenni, possono trovare nella Carta fondamentale una norma capace di tutelare tali principi, norma che consente loro di sollevare davanti alla Corte costituzionale la questione di legittimità della legge. Ed è, questa suprema corte, uno dei pilastri dello Stato di diritto: in Italia, come in qualunque democrazia costituzionale, il diritto non è più soltanto la legge, ma la legge e – insieme – i diritti fondamentali.

Alcune relazioni – in particolar modo, quelle di Cavarra, Giancarlo Scarpari e Donatella Donati – si soffermano sulle virtù del giudice. Calamandrei è convinto che il magistrato debba annoverare tra le sue qualità lo spirito di indipendenza, l’umiltà e una coscienza viva, sensibile, vigilante, umana, e mai irresponsabile, burocratica, indifferente. Egli mette in guardia i giudici contro il pericolo del «lento esaurimento interno delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate» [19] : conformismo, inerzia mentale e terrore della propria autonomia portano il magistrato a preferire «alla soluzione giusta quella accomodante, perché non turba il quieto vivere e perché la intransigenza costa troppa fatica» [20] . Posto che, nella visione di Calamandrei, l’ordine giudiziario non è un ramo della burocrazia, bensì un «ordine religioso» [21] , al magistrato si richiede l’immunità dalle debolezze umane: «Non parliamo della corruzione o del favoritismo, che sono delitti; ma anche le più lievi sfumature di pigrizia, di negligenza, di insensibilità sembrano, quando si trovano in un giudice, gravi colpe» [22] . Il magistrato, in altri termini, dev’essere un «esemplare di virtù, se non vuole che i credenti [nella giustizia] perdano la fede» [23] .

Le conclusioni del giudice, secondo l’autore toscano, discendono dalla misteriosa e chiaroveggente virtù di intuizione che questi possiede e che prende il nome di «senso giuridico» [24] . Tale «senso giuridico», a parere di Calamandrei, corrisponde ad una capacità peculiare del giudice che gli consente, una volta appresi i fatti, di sentire subito da che parte è la ragione; si tratta, dunque, di una virtù innata o di un «intuito professionale» [25] che non ha niente a che vedere con la tecnica del diritto. Accanto a ciò, il magistrato deve possedere «larghezza delle idee», vale a dire «la spregiudicata esperienza del mondo, la cultura che permette di intendere i lieviti sociali che bollono sotto le leggi, la letteratura e le arti che aiutano a discendere nei misteri più profondi dello spirito umano» [26] . Secondo Calamandrei, in definitiva, «[g]iustizia è comprensione: cioè prendere insieme, e contemperarli, gli opposti interessi: la società di oggi e le speranze del domani; le ragioni di chi la difende, e quelle di chi la accusa» [27] .

Nel suo intervento, Scarpari si sofferma sull’idea del processo in Calamandrei. Per quest’ultimo, il processo è uno scambio di proposte, di risposte e di repliche che avviene fra tre parti, in quanto l’attività dell’attore e del convenuto risulta condizionata, oltre che dal loro contrasto, anche dagli stimoli che le derivano dal giudice. Dunque, il processo è un dialogo, innanzitutto tra le parti in contraddittorio tra loro, quindi tra le parti e il giudice, in vista della sentenza. Per avere un processo giusto, tuttavia,

è necessario che il contraddittorio sia qualificato, che non presenti uno squilibrio tra i contendenti: così, partendo da una regola processuale, Calamandrei passa dalla forma alla sostanza, valuta la prima in termini di effettività, finisce per riflettere sulle aporie del diritto eguale, di questa conquista moderna che ha sì distrutto il privilegio medioevale, ma che si è arrestata di fronte ai problemi posti dalla domanda di una giustizia sostanziale [28] .

Alessandro Sivelli, nell’ultimo saggio del volume, prende in esame le argomentazioni che Calamandrei svolge intorno alle regole deontologiche previste per l’avvocato e il giudice, regole intese come il baluardo per il mantenimento dell’etica necessaria e inderogabile per svolgere quelle delicate professioni. Sivelli, inoltre, dà risalto al fatto che Calamandrei ritiene indispensabile che i legali non siano numerosi: intellettualmente e moralmente scelti, essi devono anche essere economicamente posti in grado di trarre sufficiente guadagno dal difendere poche cause oneste, in modo che la fame non li costringa a creare dal nulla liti temerarie; in caso contrario, ne andrebbe dell’onore professionale degli avvocati e si accrescerebbe a dismisura il lavoro dei tribunali.

Questa raccolta di saggi mostra molto bene la vastità di interessi e di campi d’azione di Calamandrei: egli è non solo un giurista insigne e un grande avvocato, ma anche un politico di notevole caratura e un pubblicista fecondo. Grazie alla sua rara capacità di analisi e sintesi dei problemi, Calamandrei si rivela uno dei più lucidi uomini di cultura impegnati che siano vissuti nell’Italia del secolo scorso, un «laico senz’ombre» [29] che, sulla base dei diritti fondamentali contenuti nella Costituzione repubblicana, addita il cammino verso una «rivoluzione democratica», verso – cioè – la realizzazione della piena autonomia dei soggetti in una società pluralistica.



[*] Una nostra recensione al volume era già uscita all’incirca un anno fa in questa stessa sede (versione elettronica di «Araucaria», sezione “Otras reseñas”, rubrica “Julio de 2008”): cfr. < https://www-en.us.es/araucaria/otras_res/2008_7/resegna_708_1.htm > (on line dal 2 luglio 2008). La versione del testo che presentiamo qui, è notevolmente accresciuta e corredata di un inedito apparato di note.

[1] AA.VV., Diritti di libertà, diritti sociali e sacralità della giurisdizione in Piero Calamandrei, Atti della giornata di studio (Università di Modena e Reggio Emilia, Facoltà di Giurisprudenza, 2 dicembre 2006), Firenze, Il Ponte Editore, 2007 (d’ora in poi: Diritti).

[2] Oltre ad aver pubblicato un gran numero di importanti articoli e saggi in diverse riviste di carattere giuridico, Calamandrei ha già dato alle stampe la seguente monografia: La chiamata in garantia. Studio teorico-pratico di diritto processuale civile, Milano, Società Editrice Libraria, 1913.

[3] Diritti, p. 74.

[4] Ivi, p. 79.

[5] Ibid.

[6] Ibid.

[7] Ivi, pp. 79-80.

[8] Su queste tematiche, cfr. «Il Ponte», a. XLII (1986), fasc. 1 (n. monogr. intitolato Liberalsocialismo, dalla lotta antifascista alla Resistenza); F. Sbarberi, L’utopia della libertà eguale. Il liberalismo sociale da Rosselli a Bobbio, Torino, Bollati Boringhieri, 1999; E. Collotti, “Introduzione” all’antologia Il Ponte di Piero Calamandrei. 1945-1956, 2 voll., a cura di M. Rossi, Firenze, Il Ponte Editore, 2005-2007, vol. I (present. di G. Mussari, introdd. di E. Collotti, J. Mrazkova, M. Rossi), pp. VII-XVI; M. Rossi, “Introduzione”, ivi, pp. XVII, XXXVIII.

[9] Tali aspetti vengono approfonditi in P. Bagnoli, “La concezione della democrazia in Piero Calamandrei”, in Id., Rosselli, Gobetti e la rivoluzione democratica. Uomini e idee tra liberalismo e socialismo, Scandicci, La Nuova Italia, 1996, pp. 177-197.

[10] Per una ricostruzione del pensiero di Calamandrei in relazione al federalismo, sia dal punto di vista nazionale sia da quello sovranazionale, cfr. E. Savino, “Alle origini del federalismo di Piero Calamandrei”, «Il Politico», a. LVIII (1993), fasc. 4, pp. 611-630; P. Graglia, “La terza forza federalista di Piero Calamandrei”, in AA.VV., Piero Calamandrei e la Costituzione, Padova, M & B, 1995 [ma: 1998], pp. 55-67; C. Rognoni Vercelli, “L’obiettivo europeo nell’impegno costituente di Calamandrei”, ivi, pp. 68-80. 

[11] Diritti, p. 17.

[12] Ivi, p. 48. Un’analisi dettagliata di queste concezioni si trova in A. Pace, “Diritti di libertà e diritti sociali nel pensiero di Piero Calamandrei”, in P. Barile (a cura di), Piero Calamandrei. Ventidue saggi per un grande maestro, Milano, Giuffrè, 1990, pp. 303-332.

[13] Diritti, p. 83.

[14] Ivi, p. 82.

[15] Ivi, p. 86. Pacillo cita qui D. Schiappoli, Diritto ecclesiastico, Napoli, Pierro, 1913, p. 81.

[16] È, questo, il titolo di un articolo apparso nel «Ponte», VI (1950), fasc. 6, pp. 695-712.

[17] Diritti, p. 87.

[18] Ibid. Si focalizza l’attenzione su questi argomenti anche in S. Lariccia, “Il contributo di Piero Calamandrei per la laicità dello Stato e la libertà religiosa in Italia”, in P. Barile (a cura di), Piero Calamandrei. Ventidue saggi per un grande maestro, cit., pp. 455-488.

[19] P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, introd. di P. Barile, Milano, Ponte alle Grazie, 19992 (si riproduce qui il testo della 4a ed. approntata dall’autore, uscita postuma nel 1959), p. 269.

[20] Ivi, pp. 269-270.

[21] Ivi, p. 256.

[22] Ivi, pp. 255-256.

[23] Ivi, p. 256.

[24] Ivi, p. 17.

[25] Ivi, pp. 16-17.

[26] Ivi, p. 272.

[27] Ibid.

[28] Diritti, p. 25.

[29] Ivi, p. 82 (Pacillo).

 

 

 

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