Sección digital Otras reseñas Agosto de 2009

Walter Benjamin e La bella addormentata [*]

Gianmaria Merenda

 

Il saggio "Walter Benjamin e La bella addormentata" nasce dall'elaborazione del lavoro di tesi di laurea in filosofia dal titolo "Gadda, il cibo e l'allegoria barocca", relatore Stefano Verdino, discussa all'Università di Verona. L'intero lavoro di tesi è consultabile sul sito dell'Università di Bari, all'indirizzo www.swif.it/tfo/ nella sezione delle tesi di estetica. Una brevissima parte di questo saggio apparirà nel numero 54 della rivista Nuova Corrente, editore Tilgher in Genova, all'interno di un testo dal titolo "O turpe mistero 'e sto munno, un'indagine barocca".

Il testo ha la pretesa di analizzare la forza dell'allegoria che Benjamin utilizzò, nel 1925, con la sua particolare versione della fiaba "La bella addormentata", dei fratelli Grimm. In particolare sono evidenziati i concetti di allegoria e di simbolo con le rispettive dinamiche. L'analisi arriverà alla conclusione che una rivalutazione della fluida allegoria possa permettere una lettura del senso del mondo, meglio di quanto si possa fare con il solo statico simbolo.

 

Luglio 1925. Walter Benjamin presenta alla facoltà di filosofia dell'Università di Francoforte il saggio Il dramma barocco tedesco. L'obiettivo è quello di conseguire la libera docenza. Il testo, per l’arditezza speculativa, risulta incomprensibile a chi era stato incaricato di esaminarlo tanto che a Benjamin fu preclusa la carriera universitaria. L'ironica e sferzante reazione di Benjamin a quel clamoroso rifiuto fu di scrivere un'originale versione della fiaba La bella addormentata, dei fratelli Grimm. Tale fiaba è una splendida immagine barocca che traduce nel Reale un nuovo senso ed è ammaliante il suo splendore sostanzialmente per due motivi: il primo motivo risiede nel fatto che la bella è addormentata in un roveto il cui groviglio di rovi nasconde la sua bellezza al mondo. Ella è un nucleo bello ma celato alla vista dei più, la sua beltà è visibile solo a chi voglia ricercarla con metodi poco ortodossi, niente luccicante armatura della scienza per lei. Il secondo motivo sta nella modalità del risveglio dell’addormentata e qui Benjamin si scosta completamente dalla fiaba dei Grimm e introduce qualcosa di nuovo: il risveglio è causato dal rumore di un sonoro ceffone che il capocuoco del castello molla ad un suo sguattero, il quale presumibilmente non ha rispettato le indicazioni per eseguire una ricetta, compiendo così un errore di metodo. Riponendo in un canto i conati del dissenso di Benjamin appare sorprendente la scelta del voler attribuire al capocuoco, una persona molto pratica, il compito di sciogliere l’incantesimo che annichilisce la bella. Tale scelta suscita un caloroso senso di benvenuto poiché nel presente saggio si sosterrà l'idea che il gusto e i personaggi a questo collegati siano di estrema importanza per comprendere la ruminazione allegorica di Benjamin. La ruminazione è qui intesa come metodo che allarga sempre più lo iato che esiste tra il sapere, la fissa scienza con la sua lucente armatura, e la filosofia, il pensiero nomade che non ha la solidità della scienza e quindi deve continuamente ritornare, ruminare sulla ricerca della conoscenza e su i propri passi. E' un'idea di Benjamin quella secondo cui "c'è un sapere-non-ancora-cosciente (…) la cui estrazione alla superficie ha la struttura del risveglio" [1997, 112]. Quello benjaminiano è un risveglio che si scrolla di dosso il torpore delle abitudini troppo consolidate, anche se queste sono bardate di una lucente armatura epistemica. Il risveglio della bella frantuma l'armatura dell'abitudine scientifica. Quella del cuoco è un'immagine allegorica che grippa con il reale, in quanto egli è una persona umile e pratica strettamente legata alla sensualità, poiché quando cucina modifica i prodotti del mondo. Da qui la scelta di analizzare l'allegoria che si adatta perfettamente a questo attrito con la realtà: "La differenza tra raffigurazione simbolica ed allegorica: questa significa un concetto generale, o un’idea, comunque diversa da essa; quella è l’idea stessa resa sensibile, incorporata. Lì avviene una sostituzione (…) Qui il concetto stesso è sceso nel mondo dei corpi, e nell’immagine noi lo vediamo direttamente e in persona" [Benjamin 1997, 139].

Nella praticità del ceffone il concetto di verità per un attimo si svela e si rende visibile al mondo intero. L'intervento del cuoco, con il suo ceffone gastronomico, fa si che l’onda d’urto di quello schiaffo raggiunga tutti i castellani e non solo la fanciulla addormentata. Per di più non essendoci il contatto del bacio che la sveglia, il ritorno dall’oblio avviene per una causa indiretta: vedremo più sotto l'importanza di questa dinamica.

Benjamin non ritiene più sufficiente il singolo segno del bacio ed allora mette in gioco nuovi e differenti segni significanti, il cuoco, lo sguattero e il ceffone, che nel loro reciproco relazionarsi rigenerano il significato della fiaba. Il roveto può lasciare districare il groviglio dei rovi e liberare la bellezza solo quando un'organicità di significazione affronta il suo mistero.

Cerchiamo allora di comprendere che significato hanno avuto per Benjamin l’ordine del simbolo e quello dell’allegoria. Nel capitolo Allegoria e dramma barocco (I) riportando una citazione di Görres, Benjamin trova eccellente questa osservazione: "Della concezione del simbolo come essere e dell’allegoria come significato, non so che farmene (…) Possiamo benissimo accontentarci della spiegazione che vede nel primo un segno delle idee in sé concluso, compatto, arroccato in se stesso, e nella seconda invece un’immagine delle medesime progrediente e successiva, che scorre nel tempo, drammaticamente mobile e fluente. I due stanno, l’uno rispetto all’altro, come la muta, grande, poderosa natura dei monti e delle piante e la storia umana vivente e progressiva" [1997, 140].

Il simbolo è un segno delle idee, muto, stabile e solenne, mentre l’allegoria è l’immagine sensuale di queste idee stabili, è drammaticamente mobile e fluente. Certamente l’appartenenza al popolo ebraico e il momento storico in cui Benjamin viveva, un tetro periodo che sfocerà nel drammatico epilogo della sua vita, influenzarono in maniera determinante il suo senso critico ed estetico [Benjamin 2000, 181n]. L’allegorico benjaminiano è l’immagine del muoversi umano verso la morte, mentre il simbolo è il mondo dato, nel suo fatto compiuto che non può mutare. Benjamin considera l’allegoria un frammento, una rovina, dell'edificio più solido ed arroccato del simbolo. Il simbolo persiste nella sua apparente imponenza, in sé concluso e compatto, mentre l’allegoria insiste nell'evocare con la propria fragilità l’altro che non le appartiene. L’enigma che un'allegoria esprime, è quella morosità che solo un intreccio di cosa naturale, forse divina, e cosa storica, sicuramente umana, può indicare. Un resto che avanza ad ogni tentativo di interpretazione, il busillis che non può essere risolto e che non permette di sistemare definitivamente il senso di un’interpretazione dell'allegorico. Un pasticcio questa allegoria perché così simile ad un roveto capace di ferire chiunque voglia inoltrarsi più in profondità della sua superficie intricata, ancor più pericolosa per chi sia bardato della lucente armatura della scienza: "Dunque il pasticcio. Cioè la negazione, l’impossibilità dell’ordine. Non un dato metafisico o uno schema intellettuale, un esercizio-simbolo dell’intelligenza che cerca e dispera di scoprire un senso, un esito all’indagare e all’apprendere; ma semplicemente la constatata, ineliminabile refrattarietà del reale a ogni tentativo di organica, integrale sistemazione" [Roscioni 1995, 76].

L’allegorica immagine barocca è fluente come il fiume eracliteo ed è refrattaria ai tentativi di integrale sistemazione: ogni cosa in ogni momento può significare qualunque altra cosa, spiazzando così le buone intenzioni di ogni ermeneuta. Utilizzando le stesse parole di Benjamin l'allegoria si può ritenere il più perfetto archivio di somiglianze che non si lascia ordinare definitivamente perché dall’apparenza, o parvenza, facilmente visibile ci rimanda ad un significato che il più delle volte rimane celato e non esperibile, appare come un mantello che con le sue calde pieghe nasconde la forma del corpo che l’indossa. Benjamin nella sua analisi nota che l’allegoria nella sua smisurata interpretabilità è incommensurabile alle cose profane, quindi l’espressione allegorica trasla il proprio senso su un registro più alto: il sacro. Un'interpretazione che sembra ricalcare la legge generale della mistica descritta da Pavel Florenskij nel proprio saggio sull’icona: "L’anima si inebria del visibile e, perdendolo di vista, si estasia sul piano dell’invisibile" [1977, 35].

L’allegoria è dunque quell’imago che ha la proprietà di evocare il sacro proprio perché ha a che fare con il visibile, mentre il simbolo fa vedere che esiste la dimensione della sacralità, la mette in mostra ma non in comunicazione: questa mette in dialogo mondo visibile e mondo invisibile, quello ostenta un idolo muto che non può comunicare. Sono queste peculiari caratteristiche dell’allegorico, il registro sacro e l’illimitata possibilità di interpretazione, che fanno dire a Benjamin dell’allegoria: "Equivale a un giudizio distruttivo, benché giusto, sul mondo profano: esso viene caratterizzato come un mondo in cui i dettagli a rigore non contano nulla" [1997, 149].

Sembra di avvertire nelle sue parole un senso di vertigine. Egli riconosce che il giudizio allegorico è giusto, ma le cose profane con la loro immagine e con quest’interpretazione dell’allegoria rimandano continuamente e senza sosta alle cose sacre, probabilmente le uniche che sanno reggere all’impatto con la vita. Tutto quanto il profano ha la tendenza ad annichilirsi perché i dettagli a rigore non contano nulla. E’ un’interpretazione vincolante, poiché mette l’intero mondo in una fase di attesa: il mondo attende la promessa, il riscatto di una vita migliore che deve però essere goduta al di fuori della dimensione umana della storia, deve essere goduta nel trascendente, il trascendentale è solo l’aperitivo ad un banchetto più consistente. Verrebbe voglia di intravedere questo sacro accecante che si impone nell'operazione di svelamento del roveto e che penetra la tenebra dell'umane cose con la sua luce. Nella baroccaggine mondana si deve risolvere il mistero della povera verità, quindi si sfrutterà senza indugio il concetto benjaminiano di allegoria, che la vuole mobile e fluente, ma non ci si porterà appresso il fiato della morte: l’allegoria non può essere il segno del nichilismo. Come ha detto Florenskij il mondo è una grande interpretazione che non possiamo giudicare, il mondo è il luogo di congiungimento, tra visibile e invisibile, che si può svelare proprio nell’imago allegorica perché è un groviglio che ci impiglia nelle sue spine, ci trattiene nel mondo. Il drammaticamente mobile e fluente che era teoreticamente considerato come difetto da Benjamin, diventa invece la possibilità migliore che abbiamo per gustare il senso della vita, con tutti i problemi e le potenzialità che lo stesso concetto di gusto si porta appresso. L’allegoria non ha pretese di imitare la vita, essa si stacca dal suo significato (simbolico) e lascia leggere i segni della vita nella traslazione [1] che va dal cuoco rappresentato a quello che il cuoco in realtà rappresenta: un nuovo approccio al mondo della verità. L’allegoria non segue il registro imitativo, non ne ha bisogno. Roland Barthes a proposito della traslazione afferma che la significazione è data da leggere, nel testo, e non da vedere, nelle parole. Barthes si riferisce, in particolare, alla capacità degli attori giapponesi di interpretare parti femminili. La loro bravura sta nel diventare femminili, e non nell’imitare le donne, scimmiottando la scorza esterna. Per questo motivo non c’è trasgressione ma solo traslazione, dal maschile al femminile [Barthes 1984, 63].

L'immagine del cuoco non ripropone mimeticamente una realtà già esistente ma è il quid di questa realtà perché ci permette di rielaborarla criticamente. L'allegoria "cuoco" propone l'accesso alla verità come risultato di un'implicazione soggettiva alla ricerca della vera conoscenza, tutto sta nell'accettare la sfida imposta dal continuo ritorno a sé della domanda ermeneutica. La scelta tra l'ordine allegorico, con la destabilizzante apertura ermeneutica e l'ordine del simbolico, con l'abitudinaria staticità espressiva, porta colui che chiede ad un bivio: da una parte la scelta universalistica, il simbolico, in cui si impone un senso al mondo; dall'altra parte la scelta multiculturale, l'allegorico, in cui le varie culture, i frammenti, si affiancano uno all'altro senza imposizione alcuna. Nell’allegoria con la sua fluente interpretabilità si trova la moltitudine di modi d’espressione che esprime la verità; nel simbolo e nel suo unico rimando a se stesso sta il desiderio totalitario di una mente dialettica che vuole a tutti i costi dominare l’agone dell’interpretazione. Esso annienta da subito la possibilità critica, quindi l’opportunità di ognuno di esprimere il proprio orizzonte interpretativo. L’agone dialettico non ammette più di un significato, di un’idea, di un’interpretazione. Una mente dialettica e distruttiva l’ha ben descritta Giorgio Colli: "Nell’impianto stesso della discussione greca c’è un intento distruttivo, e un esame delle testimonianze sul fenomeno ci convince che tale intento è stato realizzato dalla dialettica" [2001, 86]. Colli prosegue, nella sua analisi, scrivendo che il dialettico ha come unico intento quello di confutare l’idea dell’altro agonista, qualsiasi giudizio può essere confutato perché il risultato della disputa dipende dall’abilità dialettica degli attori; facile notare che le conseguenze di questo meccanismo sono devastanti. La dialettica diventa puro nichilismo teoretico il cui unico interesse è vincere per dominare l’altro da sé, senza che sia posta nessuna domanda morale sul come raggiungere il dominio dell’altro. Questo meccanismo sembra poter essere eluso facendo uso dell’allegoria, il cui pregio consiste nel non avere nessun interesse a trovare un vincitore per farsi annichilire. Se esiste un vincente questo deve essere l’allegoria stessa che rilancia sempre la domanda. L’allegoria non porta ad una fine, ma infinitamente fa finire perché è il segno reale delle possibilità umane di partecipare alla verità del mondo, perdersi con il pensiero nel pensiero stesso. Torniamo dunque a chiederci perché Benjamin abbia scelto una fiaba con un cuoco che ruba il mestiere al Principe per spiegarci il destino della povera verità, ovvero della bella addormentata. Una delle possibili risposte può trovarsi nell'analisi critica di Roland Barthes, il quale, cercando il "grado zero della scrittura", afferma che la letteratura è il luogo dell'ambiguità poiché: "Da una parte, essa nasce incontestabilmente da un confronto tra lo scrittore e la società; dall’altra, da questa finalità sociale, mediante una sorta di tragico transfert, essa rinvia lo scrittore alle sorgenti strumentali della sua creazione. Nell’impossibilità di fornirgli un linguaggio liberamente consumato, la Storia gli propone l’esigenza di un linguaggio liberamente prodotto" [2003, 13].

L'ambiguità allegorica che per Benjamin era il sintomo di un corrompersi e di un morire, è invece per Barthes la qualità che fa vivere la letteratura libera dal corso storico. E’ questa caratteristica della scrittura che toglie l’allegoria dello scritto dallo scorrere della Storia. La letteratura è libertà perché è un momento che fa la Storia proprio perché è un atomo di tempo, il frammento indivisibile, essa è il tempo produttivo che differenzia l’uomo dalla storia naturale. In questo senso la letteratura è quella realtà "atomica" che permette l'accesso alle cose sacre. Esiste un momento della storia naturale dell’uomo che lo porta ad essere cosciente del mondo che lo circonda e della sua possibilità di governarlo: l'istante in cui impara a cucinare gli alimenti che trova in natura. Nel testo Il crudo e il cotto Lévi-Strauss argomentando un suo studio sui miti di alcune popolazioni sudamericane, utilizza le categorie di crudo e di cotto per indicare due momenti dell’evoluzione antropologica di questi popoli. Lo sviluppo sociale, antropologico e morale di una determinata popolazione si muove dal periodo crudo, naturale e passivo, verso il periodo cotto, tecnico e attivo, ove l’uomo, con la scoperta della possibilità del cucinare gli alimenti naturali, diventa il Prometeo che può sfidare il mito: Prometeo ha l'impudenza di sbeffeggiare Zeus, il quale per vendicarsi sottrae il fuoco agli umani, "Che mangino la loro carne cruda". Sarà lo stesso Prometeo a riportare il fuoco dall'Olimpo nascondendo un tizzone in un gambo di finocchio [Graves 1983, 129]. Il fisiologo del gusto Brillat-Savarin è dello stesso avviso, ovvero che gli animali si sfamano e solo l’uomo d’ingegno sa mangiare: "La cucina è la più antica delle arti: Adamo infatti nacque a digiuno, e il neonato, appena arrivato in questo mondo, lancia dei vagiti che si placano solo sul seno della nutrice. Inoltre, di tutte le arti, è quella che ci ha reso il servigio più importante per la vita civile. Infatti i bisogni della cucina ci hanno insegnato ad utilizzare il fuoco, e attraverso il fuoco l’uomo ha domato la natura" [1998, 159]. L’arte del cucinare, un ulteriore passaggio culturale dall’essenziale fare da mangiare, si può sovrapporre all’idea di letteratura di Barthes, perché cucinare può rappresentare allegoricamente la totalità della realtà umana. Con il dominio del fuoco l’atto del cucinare diventa funzione culturale di enorme importanza, come indica Levi-Strauss nella sua opera: "Prima ricordavamo che in francese, e certo anche in altre lingue, l’equivalenza implicita di due opposizioni, quella della natura e della cultura, e quella del crudo e del cotto, si manifestava in tutta evidenza nell’uso figurato della parola "cru" (crudo) per segnalare l’assenza, fra il corpo e le cose, del normale intermediario culturale: sella, calze, abiti, ecc" [1998]. Letteratura e cucina continuamente consumano e gustano la loro stessa interpretazione del mondo. Sono fatti culturali che fanno parte dell’agire umano e producono modificazioni del reale. Non indicano semplicemente le cose, interagiscono con esse, testimoniando nella finitezza umana un registro più alto. Quanto detto può essere uno dei motivi della scelta fatta da Benjamin ma questo implica un nuovo problema, la problematicità del dire del cuoco benjaminiano: cosa significa il suo sonoro ceffone?

Wittgenstein in un suo breve testo intitolato Della certezza [1978, 3] dice: "Se sai che qui c’è una mano allora ti concediamo tutto il resto". Torneremo più sotto con questa citazione.

Si è affermato che il cuoco di Benjamin con la sua praticità permette la comunicazione tra visibile e invisibile. Il ceffone è l'epifenomeno di un qualcosa che è sempre implicato nel mondo: il Gusto. Il gusto è uno dei concetti ineffabili della filosofia, probabilmente a causa del suo attrito con il reale, caratteristica che si adatta all'allegoria benjaminiana, fluente e mai catalogabile. Il gusto è un senso ed è anche una facoltà di giudizio che si pone tra l’intelletto e la ragione. Giorgio Agamben Illustrando il lemma "Gusto" per un’enciclopedia [1979, 1025] ha evidenziato che tale concetto gode di uno statuto suo: il gusto non si può dare in una teoria ma si dice nel non so che del mondo. Un concetto che non ha altra spiegazione fuori di sé, si svela nel momento in cui si esprime un giudizio estetico: il gusto si dice. Come si può elaborare un giudizio di gusto? Con quali parole si può dire? Agamben risponde a queste interrogazioni sostenendo che il gusto è un senso mancante o soprannumerario che si può descrivere per metafora, il che equivale a dire che per esprimere un giudizio di gusto si deve parlare di altro, è un giudizio che viene formulato indirettamente, come indiretta è la causa che sveglia la bella nel roveto. L’ambiguità del termine potrebbe spiazzare ogni velleità di comprensione, ma David Hume nel suo saggio di estetica La regola del gusto [1994], citando dal Don Chisciotte ci mette di fronte alla delicata emozione del gusto e alla sua ironia: "E’ con piena ragione – dice Sancho allo scudiero dal grande naso – che io pretendo di intendermene di vino; è una qualità ereditaria nella mia famiglia. Due miei parenti furono una volta richiesti di dare il loro parere su una botte che si credeva eccellente perché vecchia e di buona annata. Uno di essi assaggia il vino, lo degusta, e dopo matura riflessione dichiara che il vino sarebbe stato buono se non fosse per un leggero sapore di cuoio che egli vi sentiva. L’altro, dopo aver preso le medesime precauzioni, esprime anche lui il suo giudizio in favore del vino ma con la riserva di un sapore di ferro che egli era in grado di distinguere chiaramente. Non potete immaginare quanto entrambi furono derisi per il loro giudizio. Ma chi rise per ultimo? Nel vuotare la botte si trovò nel fondo una vecchia chiave cui era attaccato un laccio di cuoio".

Una verità quella del gusto che si può apprendere solo dopo aver vissuto la praticità del mondo. Possediamo dunque delle qualità di questo concetto su cui approfondire l’indagine: l’ineffabilità e la difficoltà di dirsi in modo chiaro e distinto. Cercheremo allora di analizzare il gusto indirettamente e per metafore; il linguaggio e il dire saranno gli strumenti che ci permetteranno di farlo. E' necessario quindi ricorrere all'aiuto di un filosofo del dire come Ludwig Wittgenstein. Può sembrare fuorviante parlare di un concetto che si dice per metafora, utilizzando un filosofo che fa della chiarezza il proprio metodo, ma presto parranno chiari i motivi della scelta. Wittgenstein nella prefazione del Tractatus logico-philosophicus riassume il senso del proprio lavoro in questa frase: "Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere" [1998, 23].

Lo snello incipit che può nella sua disarmante semplicità aprire la strada all’analisi del mondo del linguaggio è la prima proposizione del Tractatus: "Il mondo è tutto ciò che accade" [1998, 25]. Immediatamente si capisce che l’azione è la parola d’ordine per Wittgenstein: sono i fatti, non le cose, ad essere il mondo. Il reale è tutto ciò che accade e questo accadere deve esser detto chiaramente altrimenti non si può dire. E' un secco aut-aut quello dell’austriaco: il tacere e il non dire sono l’equivalente del non agire, non sono fatti e quindi, non sono il mondo. Il dire sarà dunque considerato l’azione che nello specifico muove il pensiero della filosofia e della letteratura. Tuttavia questa sicurezza viene meno, poco prima dell’ultima proposizione, che cita "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere" [1998, 109], compare un'apertura a tutto ciò che non può essere ricondotto all’accadere e al dire: "Ma v’è dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il Mistico" [1998, 109].

Nella prefazione italiana del testo Amedeo G. Conte porta all’attenzione dei lettori il brano di una lettera di Wittgenstein datata 1919 che può essere di aiuto alla comprensione di questo ineffabile che si mostra nei fatti del mondo: "La mia opera consta di due parti: di ciò che qui è scritto, e di tutto ciò che io non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante". Esiste pertanto per Wittgenstein qualcosa nel mondo che non può essere tradotto direttamente ai fatti del reale, una specie di antimateria che non appartiene al mondo dei fatti. Una realtà che si pone nel mezzo di tutto ciò che accade e, allo stesso tempo, nel mostrarsi rimane ineffabile e non cede di fronte al nulla del tacere. Come cogliere allora questa presenza? In che modo sapere come si mostra il mistico? In un testo come quello di Wittgenstein l’ineffabile può dirsi ateo, mistico e meccanico: è ateo in quanto non si parla di un Dio o di un Essere trascendente, ma di un qualcosa che è presente nel suo mostrarsi nell’agire umano e si propone come qualcosa che testimonia la presenza d’altro dal reale; è mistico perché è una zona transizionale di confine tra il visibile e l’invisibile, fa avvertire la sua esistenza ma non si fa cogliere, è un mistero che evoca l’altro; ed infine è meccanico perché appartiene alla realtà e alla necessità del mondo, ma è ignoto come interagisca con essa. In questo senso l’ineffabile di Wittgenstein si traduce nel concetto di gusto che si dice per metafora, così come inteso da Agamben. Il gusto è il dire nel mondo, è un essere ingaggiati con il mondo, è presenza partecipe. Questo dire partecipato è un'attività dell’uomo estranea alla passività della comunicazione di massa che tende a livellare ogni differenza ontologica e a perdere la possibilità di cogliere il mistico che si mostra. Il dire del gusto è contro quella comunicazione di massa che vuole sembrare democraticamente differente e diretta personalmente ad ognuno di noi. In un suo recente libro Mario Perniola afferma che questo tipo di comunicazione: "E’ nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti. L’alternativa è un modo di fare basato su memoria e immaginazione, su un disinteresse interessato che non fugge il mondo ma lo muove" [2004]. L’alternativa alla comunicazione totalitaria diviene una dimensione estetica, di gusto, che si sottrae nelle piccole e nelle grandi cose al pensiero unico. La lucentezza dell'armatura del Bel principe è solo il riflesso dello splendore che infiamma il roveto; solo una praticità del mondo lo può cogliere. E’ questo un inno alla differenza, non più intesa come l’identico da opporre all’altro ovvero l’alter ego negativo, ma la differenza concepita come l’essere incommensurabile ad ogni identità, la vera differenza ontologica. La faccenda del gusto, nel momento in cui dice, è una questione privata che manifesta la soggettività: il giudizio di gusto è da intendersi pertanto espressione di una vera alterità. Questo giudizio estetico implica una partecipazione attiva dell’ermeneuta che lo coinvolge nel suo atto di giudicare. Il soggetto ad ogni interpretazione, ad ogni critica si trova messo in gioco da quello che dice: un giudizio che esce dal suo rapporto con la cosa, quindi è un giudizio estetico, non è logico. Il gusto è l’agire dell’uomo che lo implica nel mondo, è l’ineffabile che fa accadere il mondo. Per spiegarci meglio serviamoci di Kant e del suo concetto di giudizio di gusto contenuto nella terza Critica: "Il giudizio di gusto non è un giudizio di conoscenza, e dunque logico, ma è estetico, intendendosi con ciò che il suo principio di determinazione non può essere altrimenti che soggettivo" ... "Gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un modo rappresentativo mediante un compiacimento, o un dispiacimento, senza alcun interesse" [1999, 39-46]. Per Kant l’eventuale interesse del soggetto nel giudizio comporta un’utilità e/o una morale della cosa giudicata, perché viene ad instaurarsi un commercio tra soggetto e cosa. Alla soggettività – il nostro essere presenti - e al disinteresse - l’essere oltre la cosalità- si aggiunge la constatazione di Kant che la ricerca del principio del gusto è uno sforzo infruttuoso. La facoltà di giudizio del gusto va ad inserirsi nello spazio teoretico tra la facoltà conoscitiva per eccellenza, l’intelletto, e la facoltà di desiderare, la ragione. Al gusto è lasciato un territorio che non può essere conosciuto con l’intelletto e la ragione, quasi fosse una facoltà impura. Chi esprime un giudizio di gusto ha perciò come strumento l’immaginazione: l’immagine è somiglianza, è parvenza, è limes cioè il dire tra visibile e invisibile, è l'imago che evoca il sacro. Il ceffone del cuoco riesce a percorrere le trame intricate del roveto ed è la sua immagine sonora che sveglia la beltà in tutta la sua scabrosità. Il linguaggio del cuoco è un ponte tra profano e sacro perché carico di molteplici riferimenti e rimandi alla sacralità delle cose. La lingua secondo l'opinione di Benjamin esprime lo spirituale delle cose [1978, 24], è il passaggio tra sacro e profano: ogni cosa ha nella propria essenza l’esigenza di comunicare il proprio contenuto spirituale e quest’essenza spirituale si comunica nella lingua e non con la lingua. E' in quest'ottica che il linguaggio deve essere considerato come un’icona, ovvero come un’immagine che va oltre il suo apparire e che evoca l’invisibile che si cela sotto la parvenza della pittura [Florenskij, 1977, 67]. La lingua non può essere considerata semplicemente come il mezzo per raggiungere un fine, il dire, perché il linguaggio come mezzo non ha alcuna influenza sul mondo degli uomini in quanto la lingua avrebbe solo una valenza economica che movimenta prodotti: gli idoli. Il contenuto spirituale delle cose è immediatamente dato dalle cose stesse. E’ però difficile riuscire a percepire questa spiritualità dopo la confusione generata del linguaggio della comunicazione, un brusio di sottofondo non permette di udire le cose che si manifestano. Solo l’umiltà dell’accostarsi al lato magico della lingua e al suo indicibile contenuto, permette di ascoltare il senso del detto e non svilire il legame che esso ha con il mondo. Preziosa la definizione del poeta Andrea Zanzotto secondo cui la lingua è un veicolo talmente perfetto da sparire, da dissolversi nella comunicazione stessa, impercepibile. Il dire del poeta è quello che più si avvicina ad un’idea di puro linguaggio. Il poeta desidera, dall’etimo de-sidus, sente la mancanza delle stelle che per noi umani sono veramente l’eccedente irraggiungibile. E’ un linguaggio quello poetico che anela all'altro, ma un'alterità che è troppo lontana da cogliere rimanendo con i piedi per terra. La poesia quindi chiede a queste stelle di umiliarsi, da humus, e di tornare sulla terra per sporcarsi con le cose terrene: i segni.

All'inizio di questo saggio si è sottolineata la predilezione dell’allegoria al simbolo poiché questa è la possibilità ambigua, mobile e fluente di fare la storia, la possibilità dell’uomo di produrre qualcosa che sia oltre la sua dimensione finita; pure si è accennato al fatto che l’allegoria è cosa disinteressata, che non partecipa all’agone dialettico. Ci si potrebbe spingere oltre e risulterebbe ora meno azzardato affermare che è solo nell’interpretazione dell’allegoria che si esprime un vero giudizio di gusto. Una non tanto barocca interpretazione dei concetti evidenziati fino a questo punto nell’analisi del gusto, ovvero la soggettività, il disinteresse, l’essere fra e l’ermetica disponibilità ad un’interpretazione fluente, fa emergere l’idea che il gusto, come l’allegoria non permette la riduzione del mondo all’uno. Il gusto non consente una traslazione del significato del non so che, al di fuori del molteplice e fenomenico mondo reale, quindi i giudizi del gusto si devono consumare a questo mondo interpretando i suoi segni plurali: tutto ciò che accade. Ora si possono meglio spiegare i motivi dell'allegorico ceffone di Benjamin che sveglia indirettamente la povera verità. L’altro e le metafore che quel cuoco esprime sono i segni del dire nel reale del mondo. A tal proposito Maurice Merleau-Ponty ci ricorda nella seguente lezione l’utilizzo possibile dei segni: "Saussure ci ha insegnato che, presi isolatamente, i segni non significano niente: più che esprimere un senso, ognuno di essi indica uno scarto di senso fra sé e gli altri" [1967, 63].

Ogni qualvolta si è implicati nel comunicare qualcosa scegliamo un solo segno tra la totalità degli altri, isolandolo, discriminando ed escludendolo. Nello scarto che si produce tra un segno e l’altro insiste il senso, anche fra quelli esclusi, come accade ad esempio con l’ellissi. Il senso è indiretto ed è quel differenziale che dà qualità agli indifferenti segni, guidandoli verso il significato che scaturisce nella loro reciproca connessione. "Questo senso che nasce dal margine dei segni, questa imminenza del tutto nelle parti" [Merleau-Ponty, 1967, 68] è dato dal rapporto laterale tra segno e segno, in quanto "il senso è il movimento totale della parola, ecco perché il nostro pensiero è sparso nel linguaggio" [Merleau-Ponty, 1967, 67]. Il segno è un nomade che acquista senso solo quando si accosta nello spazio ad una costellazione di altri segni, come il significante fluttuante di Lévi-Strauss: "Un segno vuoto che solo di contesto in contesto può essere orientato dal movimento dei segni linguistici (…) un significante di grado zero, che risulta essere la possibilità stessa dell’invenzione, del sacro e del bello" [Zamboni, 2001, 139]. Il senso di un segno non è mai dato da sé, non si ostenta, ma è dato dagli altri; la sua differenza qualitativa è in sé e il differenziarsi quantitativamente dagli altri segni gli procura la propria unicità. Il senso indiretto è celato nei segni, fra di loro, fra le pieghe che si formano nel linguaggio, pieghe di un mantello diceva Benjamin, che si arrotolano e si srotolano al cambiare del punto d’osservazione del mondo; il senso appare indirettamente nelle pieghe della percezione, una percezione che è una prospettiva sul mondo. E’ la medesima considerazione espressa riguardo al gusto quando lo si tratta come un’attività che si contrappone ad una passività, un dire attivo che si contrappone al mero uso delle parole. Nell’istante in cui il pensiero connette i segni che sono disponibili, ovvero non li subisce passivamente, il senso si mostra all’uomo, il mistico appare. Qui si comprende il perché della proposizione di Wittgenstein citata all’inizio del capitolo: "Se sai che qui c’è una mano allora ti concediamo tutto il resto". Ora assume significato quell’affermazione perché nasconde in realtà l’oggetto della ricerca: il gusto di un ceffone ben assestato. Ciò che Wittgenstein affronta nel testo Della certezza è il senso comune inteso come il modo infondato che appartiene alla nostra vita. Egli considera il linguaggio come una funzione attiva che fa da accesso al mondo e pensa ai vari modi di utilizzarlo come a dei giuochi linguistici: "Chiamerò "giuoco linguistico" anche tutto l’insieme costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto" [1999, 13]. Questa prospettiva dei giochi linguistici gli permette di accostare una visione sul mondo a tutte le altre, senza dover così ricorrere ad una super-prospettiva che spieghi e che funga da fondamento alle altre prospettive: ogni giuoco è un modo di vedere il mondo e di raccontarlo accostato ad altri infiniti modi di farlo. E' la presenza di tutti i giochi linguistici che tesse il senso indiretto del linguaggio dei segni. L’intero linguaggio è considerato come forma di organicità che nel rapportarsi dei segni porta con sé il senso stesso del mondo e lo incarna. Un'organicità di segni come quelli utilizzati da Benjamin: il ceffone, il cuoco e lo sguattero. L’accostamento di più termini, di più segni, di più modi di vedere e percepire è quindi la necessità indispensabile per superare quella visione discreta e dogmatica che nasce dall’utilizzo di un solo gioco linguistico, una scienza dogmatica che tende ad escludere ciò che non è in grado di capire e di catalogare. Il cuoco di Benjamin sta raccontando che la ferraglia luccicante del Bel Principe non permette all'uomo di vedere la bellezza del mondo, perché tutto quel ferro, a differenza di quello siderale, impedisce il movimento del senso. Una verità quella di Benjamin che necessità della scabrosità con il reale per essere esperita. Un concetto di conoscenza che si lega indissolubilmente con la partecipazione attiva al processo stesso di apprendimento, un fare e un dire ruminanti che si fanno icona dell'altro che ci sta di fronte.


[*] © Copyright Critica minore - Tutti i diritti sono riservati [11.07.2007]

[1] Roland Barthes, L'impero dei segni, Einaudi, Torino 1984, p.63

 

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