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Montesquieu, la sociologia e la medicina
Denis de Casabianca, Montesquieu. De l’étude des sciences à l’esprit des lois. Paris, Champion, 2008. Pp. 966.
Domenico Felice
Les ruines mêmes ont péri et cependant
il faut édifier.
(Montesquieu, Mes Pensées, n° 2253)
1. Il frutto più avvelenato del vetero-marxismo, o, il che è lo stesso, del marxismo volgare (la faccia vera, a dispetto delle apparenze, dell’ideologia capitalistica imperante), è che il pensiero, qualunque pensiero, deve essere utile, qui e ora, altrimenti non esiste. La celebre affermazione di Cartesio: penso, dunque sono, è falsa. L’affermazione vera è un’altra: sono utile, dunque sono. È l’utilità che fonda l’esistenza e le dà senso. Il che è come dire, tutto è profitto. Ovvero, con una formula à la Heidegger: l’essere è il profitto.
È questa trita ovvietà ‘mercantile’ che si propone di dimostrare il seguente libro: Denis de Casabianca, Montesquieu. De l’étude des sciences à l’esprit des lois, Paris, Champion, 2008.
Ciò che a prima vista colpisce (ma l’autore l’ha fatto apposta) è l’incredibile quantità di pagine di cui esso si compone: quasi mille. Il lettore, però, non ha alcuna ragione di ‘impressionarsi’, perché il ‘sugo’ o l’‘arrosto’ – ovvero, la qualità rispetto alla sterminata quantità – è davvero poca cosa e, per giunta, decisamente stantio: Montesquieu – si legge nella «Conclusion» – non è, prioritariamente, uno scienziato sociale, ma solo ed esclusivamente un medico, ovvero non abita nel silenzio delle biblioteche e delle aule universitarie, bensì in quello delle corsie degli ospedali. Il mondo, secondo Casabianca, è un immenso ospedale e Montesquieu è il suo medico. Egli (solo?) sa qual è il male che affligge gli uomini, qual è la sua causa e qual è la terapia[1]. È venuto al mondo per guarirci[2]. Se gli diamo retta, la guarigione è assicurata, ovvero il paradiso è qui e ora: potremo così finalmente abbattere dalle fondamenta l’immenso ospedale in cui – miseri – giacciamo, e instaurare il regno millenario della felicità.
Con una terminologia ‘filosofico-politica’, che è poi quella peculiare di Montesquieu: secondo Casabianca, lo Spirito delle leggi (1748) non è un’opera di scienza (ovvero non è, come il sottoscritto ha cercato di argomentare qualche anno addietro, il primo trattato europeo-occidentale di una scienza universale dei sistemi politico-sociali[3]), ma è il manuale del perfetto legislatore (nel Settecento dicevano: il breviario del legislatore; «[…] le bréviaire – scrive persino il nemico dei preti, Voltaire – de ceux qui sont appelés à gouverner les hommes»[4]). Uno dei centri (in realtà: il centro) dell’opera è, infatti, dichiara trionfante Casabianca, il libro XXIX, intitolato “De la manière de composer les lois”: «[…] la révolution que Montesquieu entend mener dans la façon d’appréhender les lois et les histoires de toutes les nations est porteuse d’une réforme de l’action législatrice. La lecture du plan [de L’Esprit des lois] que nous avons faite s’est efforcée de restituer cette dimension pratique. Dans cette perspective, le livre XXIX n’est pas qu’un appendice de conseils pragmatiques, c’est aussi un de centres de l’ouvrage» (p. 910; corsivi miei)[5]. E ancora: «Le savoir des lois n’est […] pas une science, telle que peuvent l’entendre les interprètes de Montesquieu qui font de lui un sociologue. Il faut voir dans L’Esprit des lois un essai sur l’art de la législation» (p. 907). Infine : «[…] le savoir des lois se rapproche plus de l’art de la médicine que de la science des corps inertes, et ce n’est pas tant la recherche des causes qui importe à Montesquieu, que l’interrogation du sens[6]. Il nous semble ici que le regard médical est éclairant pour mettre en évidence l’unité du dessein: étudier les lois, c’est bien les évaluer. Mais il ne s’agit pas de les évaluer à l’aune d’une norme élaborée extérieurement au champ de la pratique historique des lois. Si le médecin dispose d’un savoir universel, c’est parce qu’il est capable de déterminer pour chaque patient ce qu’est la santé, comme le législateur sait ce qui convient à la société et à chaque société, parce qu’il s’est exercé a comprendre les histoires de toutes les nations. L’un et l’autre saisissent l’ordre dynamique qui s’est constitué dans une histoire, ils savent l’orientation de ce devenir singulier et les inflexions que l’on peut donner par correction. Comme le médecin se forme en étudiant les maladies et les remèdes, le peintre [«Et moi aussi, je suis peintre»[7]] en étudiant les œuvre des génies, le législateur se forme en étudiant la jurisprudence, les essais de la raison législatrice, la façon dont la raison humaine s’est appliquée en situation […]. Le législateur est moins le destinataire exclusif de l’œuvre, que la focale qui permet à chacun d’exercer son esprit. Instruire le lecteur, c’est l’élever au regard que le législateur doit porter sur les lois. C’est en ce sens qu’il nous a semblé que Montesquieu constituait un nouveau miroir. Au centre des rapport, comme l’araignée dans sa toile, le législateur est l’âme de L’Esprit des lois» (pp. 911-913; corsivi nostri).
2. Ora, per rispetto alla pazienza del lettore, io farò qui l’opposto di Casabianca. Sarò, cioè, telegrafico e, programmaticamente, schematico.
(a) Casabianca è convinto, non si sa in base a quali ‘fonti’, che scienza e agire pratico siano incompatibili, per cui, dovendosi necessariamente scegliere, non si può che scegliere, a suo giudizio, l’agire pratico (stante che, come si diceva più sopra, l’essere è il profitto). Al che obietto: lo Spirito delle leggi non è del genere – o, se si preferisce, non appartiene alla famiglia – del Che fare? di Lenin[8], ma de Il capitale di Karl Marx, ovvero è scienza+prassi. Ha quindi ragione Raymond Aron (e non già Casabianca, che ‘s’illude’ di demolirlo: pp. 907-909), quando mette insieme e in successione, nel sottotitolo del suo fondamentale Le tappe del pensiero sociologico del 1967: Montesquieu, Comte, Marx, Tocqueville, Dukheim, Pareto, Weber[9].
(b) Casabianca è convinto che la mente di Montesquieu sia letteralmente ‘pervasa’, in sintonia con l’«ordre dynamique» (p. 912) inscritto nella storia del mondo tanto naturale quanto umano, da archetipi ‘fluidi’, ‘dinamici’, ‘liquidi’, ovvero dall’idea che ‘tutto è movimento’, dunque ‘azione’: essendosi interessato, soprattutto da giovane, di fisica, geologia, botanica, fisiologia umana, anatomia, paleontologia, ottica ecc.[10], la sua forma mentis si è indelebilmente modellata sui concetti-linguaggi-immagini di queste discipline ed è ‘traghettata’, pari pari, nello Spirito delle leggi. Al che obietto: non è attraverso questi scritti che si arriva allo Spirito delle leggi, ma attraverso le Lettere persiane (1721). Attraverso questi scritti si arriva solo a dimostrare che Montesquieu si è interessato seriamente, da competente, e ha saputo dire la sua, anche riguardo al campo della filosofia naturale[11]. Ma non sono gli interessi ‘scientifici’, né gli ‘schemi-archetipi’ delle scienze naturali che lo portano allo Spirito delle leggi, bensì, e soprattutto, i suoi interessi per il mondo umano (per la religione, la morale, la politica, il diritto ecc.), interessi che hanno una prima, eccezionale, concretizzazione nelle Lettere persiane. Insomma, a portarlo allo Spirito delle leggi, non è l’ambizione di fare il medico dell’umanità, bensì quella di diventare, al pari di Platone (con le sue opere politiche), di Aristotele (con le sue opere politiche e morali), di Cicerone (con le sue opere politiche e morali), di Agostino di Ippona (con La città di Dio), di Machiavelli (con i Discorsi e le Istorie fiorentine), uno scienziato della società e della politica[12]. Di questa sua ambizione il primo, straordinario, frutto sono appunto le Lettere persiane. A questo proposito, Casabianca non può non essersi accorto che Montesquieu, mentre presenta i Discours ‘scientifici’ all’Accademia di Bordeaux, scrive anche la Dissertation sur la politique des Romains dans la religion, il Discours sur Cicéron, l’Éloge de la sincérité, De la considération et la réputation ecc., e, soprattutto, un trattato filosofico-politico quali sono appunto le Lettere persiane. Si noti: queste ultime devono essere considerate non già un’opera letteraria, come si continua, sempre più stancamente, a ripetere, né tanto meno un’opera solo ed esclusivamente ‘militante’, ‘politica’[13], bensì un trattato filosofico-politico, ‘scientifico’, che contiene in nuce tutte le categorie gnoseologico-esplicative (rapporto, relatività, spirito generale di una nazione, grandezza/decadenza)[14] e tutti i capisaldi teorici (in primis, la contrapposizione Asia-Europa, dispotismo - governo moderato, oppressione-libertà[15]) dello Spirito delle leggi[16]. A ciò si aggiunga, poi, che nel 1725 Montesquieu legge all’Accademia di Bordeaux i primi capitoli di una sua opera intitolata Trattato dei doveri, che forse è andato definitivamente perduto, ma di cui ci sono pervenuti numerosi e ampi «morceaux» nelle Mes Pensées (cfr. nn° 220-224, 1008 e 1251-1280) e l’importante frammento De la politique[17]. Orbene, domando: in tutti questi scritti, che contengono ‘pezzi’ importanti del Trattato dei doveri, dove sono le immagini (o gli archetipi) ‘liquide’, ‘fluide’, ‘dinamiche’? Non è forse vero, invece, che proprio in essi, ovvero nel Trattato dei doveri, Montesquieu mette definitivamente a fuoco la sua idea di Dio[18] e il suo grande apprezzamento della religione cristiana (essa «nous [a] donné de l’équité pour tous les hommes»[19]), e precisa ulteriormente tre delle quattro categorie-cardine della sua successiva metodologia di ricerca, vale dire quelle di rapporto[20], di spirito generale di una nazione[21] e di grandezza/decadenza[22]? È dunque – lo ripeto ancora – soprattutto attraverso questi testi, in primo luogo le Lettere persiane e il Trattato dei doveri, che si arriva alle Considerazioni sui Romani e allo Spirito delle leggi.
(c) Casabianca contesta a ogni piè sospinto, rinviando sempre al sottoscritto (pp. 346, nota 19 e 780, nota 150)[23], che Montesquieu sia un dualista, benché egli parli continuamente di corpo e di anima, di cause fisiche e di cause morali ecc. Al che obietto: il dualismo non l’ha inventato Cartesio, ma Platone, di cui Montesquieu è un grande estimatore, anche dal punto di vista ‘artistico’ («Les quatre grands poètes: Platon, le père Malebranche, milord Shaftesbury, Montaigne»[24]) e che conosce meglio e menziona più spesso di Aristotele. In un libro di quasi mille pagine le principali ‘fonti’ classiche di Montesquieu (di cui lo Spirito delle leggi è pieno zeppo), se si eccettua Aristotele, o non sono affatto citate o lo sono con estrema avarizia: Platone (citato solo quattro volte); Polibio, «le judicieux Polybe»[25] (una sola volta); Cicerone, a cui Montesquieu voleva in tutto assomigliare[26] (cinque volte); Sallustio (mai); Tito Livio (mai); Tacito, l’autore antico più menzionato nello Spirito delle leggi (2 volte); Plutarco, da cui Montesquieu era sempre «incantato»[27] (una volta); Marco Aurelio, i cui Ricordi egli considerava il capolavoro dell’antichità[28] (mai); Agostino di Ippona (mai). Diversi di costoro sono, ognuno a modo proprio, ‘dualisti’. Sembra che per Casabianca Montesquieu, la cui erudizione è sterminata (sottolineo: sterminata), abbia studiato solo Descartes e Malebranche (gli autori più citati nel suo libro): ma non è questo fargli un ‘immenso’ torto? Per giunta: Montesquieu non ha forse detto di essere un Francese solo «per caso»?[29].
Può forse non far piacere a Casabianca, ma Montesquieu è soprattutto un “classico” (nel linguaggio dei Francesi: è soprattutto un “antico”), ovvero sta con Platone, Sallustio (si vedano, ad esempio, gli straordinari proemi alle sue monografie su Catilina e Giugurta, incentrati sul dualismo corpus-animus) e Agostino (la cui Città di Dio, che il filosofo di La Brède conosce benissimo, non è un’opera qualunque, ma è la summa, ovvero il compendio, di tutto il pensiero politico, morale e religioso greco-romano), e cioè con i dualisti. In altri termini, Montesquieu non è Spinoza (come Casabianca mostra palesemente di credere col suo parallelismo tra ordre dynamique del mondo e forma mentis ‘dinamica’ montesquieuiana). Aggiungo: se proprio non poteva non scrivere, perché non riusciva a tenere a freno la sua penna, quasi mille pagine su Montesquieu, non doveva dedicare almeno cinquanta pagine a testa ai suoi grandi ‘antenati’, e cioè a Platone, Aristotele, Cicerone, Tacito, Plutarco, gli stoici, Agostino di Ippona ecc.? In ogni caso, io credo di aver capito dove, alla fin fine, vuole andare a parare Casabianca: intende dimostrare, cioè, che Montesquieu non è cristiano (è il cristiano, infatti, il dualista per eccellenza). Ci ha già provato, discettando sulla presunta, e infondata, «tentation matérialiste» del Nostro[30]. Insomma, Casabianca aspira a far parte, o fa già parte, della coterie Larrère-Spector-Barrera[31] (con i quali mi sono già ‘cimentato’, proprio in tema di religione in Montesquieu[32]).
(d) Casabianca scrive: «Si le médecin dispose d’un savoir universel, c’est parce qu’il est capable de déterminer pour chaque patient ce qu’est la santé, comme le législateur sait ce qui convient à la société et à chaque société, parce qu’il s’est exercé a comprendre les histoires de toutes les nations» (già cit.: cfr. supra). Domanda: Montesquieu considera come «pazienti» che possono «guarire», e cioè «curabili», anche i musulmani (un miliardo di credenti), anche i Cinesi (un miliardo e trecentomilioni di individui), anche gli Indiani (un miliardo e centocinquantamilioni di individui), anche gli Africani (un miliardo di individui), cioè i tre quarti del genere umano? A me non sembra proprio: per poter ricevere la libertà (o anche solo delle leggi migliori) occorre – secondo Montesquieu – esservi «préparés»[33], il che non è il caso degli Asiatici (o degli Africani), inclini o predisposti come sono – a causa anzitutto del contesto geo-climatico in cui si trovano a vivere – alla sottomissione e alla schiavitù: «Il semble – egli asserisce in un importante passaggio della CXXV (CXXXI) lettera persiana – que la liberté soit faite pour le génie des peuples d’Europe et la servitude pour celui des peuples d’Asie. C’est en vain que les Romains offrirent aux Cappadociens ce précieux trésor: cette nation lâche le refusa et elle courut à la servitude avec le même empressement que les autres peuples coururent à la liberté»[34] [tradotto: per i popoli orientali, non può esserci alcun liberatore dall’esterno[35]]. In Asia e in Africa[36] – dichiara sprezzante il Nostro nell’opus magnum – «il n’est pas possible de trouver un seul trait qui marque une âme libre» [tradotto: per gli Asiatici e gli Africani, non ci sono né mai ci saranno liberatori neppure dall’interno]: on n’y verra jamais que l’héroïsme de la servitude» [tradotto: un Asiatico/Africano può essere sì un eroe[37], ma solo nell’istituzione che è stata e rimane «le plus violent abus» mai perpetrato contro la natura umana, ovvero la schiavitù[38]]. E in termini altrettanto duri e sprezzanti, nel capitolo 2 del libro XIX, Montesquieu osserva – sempre con riferimento in primo luogo agli Asiatici – che così come l’aria pura è «nuisible» a chi è vissuto a lungo in paesi malsani, altrettanto la libertà è «insupportable» a popoli che non sono abituati a goderne[39].
Di nuovo: può non piacere a Casabianca e ai Francesi in genere (i quali, a dispetto della Rivoluzione dell’Ottantanove, e pur dando continue prove, al pari tutti gli altri popoli, di intolleranza e di razzismo, restano sempre saldamente convinti che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo riguarda tutti gli esseri del Pianeta, e cioè anche gli Arabi, nonostante il Corano, anche i Cinesi, nonostante Confucio, anche gli Indiani, nonostante Buddha e i Veda, ecc.), ma Montesquieu è (maledettamente) eurocentrico: la storia della libertà si svolge, per lui, solo ed esclusivamente nei paesi europei, e in modo per giunta difforme (i paesi nordici ne avrebbero molto di più – di libertà, s’intende – dei paesi mediterranei[40]). Dunque: Montesquieu è sì, come ho avuto modo di sottolineare, uno scienziato universale (perché ha l’ambizione di descrivere e spiegare anche l’Est e il Sud del Mondo)[41], ma non è affatto un medico «senza frontiere»: l’Oriente e l’Africa sono eternamente immobili, stazionari, privi di storia, o meglio, la cui storia è il ripetersi del sempre uguale, l’uniformità perpetua. Per nessuno dei dispotismi che li avvelenano c’è guarigione: varia solo il loro tasso di bestialità, ossia varia solo la gravità della loro malattia (il dispotismo cinese, ad esempio, è meno bestiale, meno malato, di quello giapponese[42]), ma da essa – per ragioni legate alla geografia e alla storia, alla natura e alla cultura – i paesi asiatici e africani non guariscono né mai guariranno.
Lo dico anche a Casabianca (che per la verità lo sa già): continuare a mettere all’angolo il dispotismo asiatico, è amputare irrimediabilmente lo Spirito delle leggi e finire, di fatto, per essere partecipi, e complici, dell’ideologia dell’uomo bianco europeo (è solo a costui, e a nessun altro, che si rivolgono lo Spirito delle leggi e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo) quale modello universale, planetario.
(e) L’autore dedica pagine su pagine al regard in Montesquieu[43]. Il che va benissimo. Il guaio (le mal, direbbe Montesquieu) è che questo regard viene qualificato, lo si è già segnalato, come médical. Io ho proposto sguardo d’aquila ed ho messo in guardia contro la mania, diffusa soprattutto in Francia, di trasformarlo in sguardo di piccione[44], a cui inevitabilmente finisce per approdare anche Casabianca con la sua pretesa di ‘sfrattare’ Montesquieu dalle biblioteche e dalle aule universitarie e di ‘alloggiarlo’ nelle corsie degli ospedali.
(f) L’autore discetta diffusamente di moderazione, ma da nessuna parte segnala che essa è per Montesquieu la virtù più rara («Par un malheur attaché à la condition humaine, les grands hommes modérés sont rares»: EL, XXVIII, 40; «la modération […] comme la vertu la plus rare»: Mes Pensées, n° 1987)[45]. Ricorda che Montesquieu parla del governo moderato come di un «capolavoro di legislazione», ma non dice una parola sulla sua affermazione che tale capolavoro è attuato rarement dal «caso» e rarement dalla «prudenza»[46]. È inutile parlare in lungo e in largo di prudenza umana, se non si dice che per Montesquieu essa ha pochissime chances (per dirla coi Francesi) di incidere sul reale. Insomma, l’autore scambia la moderazione, la virtù più difficile da praticare, con il riformismo, il gradualismo riformistico, l’interventismo legislativo, ovvero riduce Montesquieu a Voltaire. Per giunta, e la cosa è ancora più grave, minimizza al massimo la connessione, di importanza capitale, tra moderazione e governo/Stato misto. Ne accenna solo, in un volume di ben 966 pagine!, nella nota 25 del capitolo 9 (p. 503). E che cosa dice? Dice che nel capitolo 12 del libro XI dell’Esprit des lois, dedicato all’analisi del governo dei mitici sette re di Roma, Montesquieu «semble reprendre la description que fait Polybe du gouvernement mixte parfaitement équilibré (référence donné en XI, 17)». E aggiunge: «Mais c’est comme si Montesquieu réservait cette idée [del governo misto] pour le gouvernement des rois. On ne retrouve nulle part ailleurs dans L’Esprit des lois une telle présentation [cioè il governo misto]» (corsivi miei). Sfrattato così – ovvero, in quattro e quattr’otto – Polibio dall’Esprit des lois (è citato solo nella nota in questione, lui, che è il teorico per eccellenza del governo misto), Casabianca riserva subito lo stesso trattamento anche a Cicerone (un altro grande teorico, com’è noto, del governo misto) e sfratta pure lui: «On peut penser – scrive, infatti, sempre nella stessa nota – que le texte de XI, 12, reprend les analyses de Cicéron lorsque celui-ci présente l’idée d’un gouvernement mixte et harmonieux (La République, II, 41): ces considérations interviennent pour présenter l’époque de Servius Tullius, dont il est aussi question à la fin de XI, 12. Mais – ecco lo sfratto – alors que Cicéron avance dans l’histoire romaine (à partir de Romulus) pour saisir l’Etat dans sa perfection (méthode présentée en II, 21, qui aboutit à la question de l’harmonie et de la justice dans la fin du Livre II), Montesquieu déplace son propos en le renvoyant au temps des rois. En avançant dans l’histoire romaine (Servius Tullius et Tarquin déjà changent cette constitution harmonique), on passe à une autre problématique politique, à une autre conception de l’harmonie et de l’histoire».
Tutto qui: due ‘fonti’ capitali dell’Esprit des lois sfrattate e, con loro, il governo misto, in una nota di quindici righe! Mi limito a osservare: anzitutto, Casabianca ripete esattamente le stesse corbellerie di Patrick Andrivet[47]: «Polybe, auquel Montesquieu se réfère dans L’Esprit des lois, XI, 17, considérait le gouvernement romain comme mixte, mais parfaitement équilibré […]. Cependant nulle part dans L’Esprit des lois le “gouvernement de Rome” n’est présenté ainsi [cioè, come un governo misto], sauf sous les rois»[48] (corsivo mio). In secondo luogo: io e tanti altri abbiamo sostenuto e sosteniamo, testi alla mano, che Montesquieu parla di governo misto, perché tale la considera, anche, anzi soprattutto, quando analizza – in ben 6 capitoli del libro XI (dal 13° al 18°), capitoli tuttora largamente trascurati dalla critica – la Repubblica romana (una Repubblica perfetta, come diceva Machiavelli e come ripete pure lui, e perfetta appunto perché Stato/governo misto[49]), e che Polibio è il suo nume tutelare o la sua musa ispiratrice[50]: «On souhaiterait peut-être que j’entrasse ici – scrive infatti – dans le détail du gouvernement politique de la République romaine; mais je renverrai à Polybe, qui a admirablement bien expliqué quelle part les consuls, le Sénat, le Peuple, prenaient dans ce gouvernement; d’autant mieux qu’il parle d’un temps où la République venait d’échapper à de si grands périls et faisait actuellement de si grandes choses»[51]. Asseriamo, inoltre, che uno Stato misto è anche il gouvernement gothique («la meilleure espèce de gouvernement que les hommes aient pu imaginer»: EL, XI, 8), governo che è il «tronco» da cui discendono sia la monarchia ‘francese’ dei poteri intermedi sia la monarchia ‘inglese’ dei poteri divisi, a loro volta anch’essi governi misti[52]. Affermiamo, infine, che discutere di governo moderato (e di moderazione) senza parlare mai o quasi, come fa Casabianca, del potere giudiziario[53], ovvero dell’architrave della dottrina costituzionale di Montesquieu, significa precludersi di fatto una comprensione non dico adeguata, ma passabile di tale tipo di governo. La monarchia greca dei «tempi eroici» cade, secondo Montesquieu, per la cattiva collocazione del giudiziario (EL, XI, 11), lo stesso accade per la monarchia dei mitici sette di Roma (EL, XI, 12[54]), lo stesso accade pure per la Repubblica romana (EL, XI, 18[55]). Casabianca vuol farci credere, invece, che, per il Nostro, la Repubblica romana perisce solo ed esclusivamente – invece che anche – per la sua eccessiva espansione territoriale: «Dans le chapitre 19 [XI, 19], qui étudie comment cette harmonie-équilibre des pouvoirs s’est perdue – scrive infatti –, on retrouve, comme dans le chapitre IX des Considérations, le problème de l’expansionnisme romain. Dans les deux textes, la perte de l’harmonie est donc rapporté à la question de la grandeur de la république» (pp. 502-503)[56].
Aggiungo: dietro la totale sottovalutazione del ruolo del potere giudiziario c’è – e la cosa non è meno grave – la totale sottovalutazione (e incomprensione) da parte di Casabianca del ruolo della nobiltà, tanto nella monarchia di tipo francese quanto in quella di tipo inglese (e, quindi, del governo moderato o misto). Tra le tante considerazioni che si possono fare, mi limito ad accennarne una sola: in Francia, la nobiltà è un «potere intermedio» che frena, stempera e media il potere del monarca (EL, II, 4; V, 10, ecc.); in Inghilterra, essa svolge lo stesso ruolo. Montesquieu lo dice esplicitamente: «Des trois puissances dont nous avons parlé [législative, exécutrice, de juger], celle de juger est en quelque façon nulle. Il n’en reste que deux; et comme elles ont besoin d’une puissance réglante pour les tempérer, la partie du corps législative qui est composée de nobles est très propre à produire cet effet» (EL, XI, 6)[57].
Conclusioni. Primo, per la coppia moderazione / governo misto vale il detto: simul stabunt simul cadent. Secundo, l’art de la législation, di cui Casabianca parla pressoché in tutte le pagine del suo libro, non è una categoria gnoseologica-esplicativa dell’Esprit des lois, né tanto meno ‘la’ categoria gnoseologica-esplicativa: ovviamente, essa non vi è assente, ma non vi ricopre affatto né il ruolo né lo spazio che egli pretende di attribuirle. Tertio, se Casabianca vuole cominciare a farsi un’idea sia delle fonti ‘antiche’ di Montesquieu sia della nozione di governo (o Stato) misto, può leggersi, profittevolmente, nel sito < www.montesquieu.it >, i seguenti saggi: Giuseppe Cambiano, Platone e il governo misto; Silvia Vida, La «politia» aristotelica e l’elogio della medietà; Umberto Roberto, Aspetti della riflessione sul governo misto nel pensiero politico romano da Cicerone all’età di Giustiniano.
(g) Casabianca accenna a più riprese – ovviamente sempre con la terminologia che gli è cara, tipo dynamique du devenir historique (pp. 216 ss.) – alla concezione montesquieuiana della storia[58], ma non sembra afferrarne davvero i tratti salienti. L’eccezionale abbozzo di macrostoria delle istituzioni politiche contenuto nella CXXV (CXXXI) lettera persiana gli è ignoto, come pure gli ignoto il miglior saggio finora scritto (ovviamente, a mio parere) sulla visione montesquieuiana della storia nelle Lettere persiane, ossia Vision du devenir historique et formes de la révolution dans les «Lettres persanes» di Jean-Marie Goulemot[59]. Prendendosela proprio con quanto quest’ultimo ha sostenuto, però in un suo volume del 1975[60], Casabianca scrive ad un certo punto: «Jean-Marie Goulemot insiste sur la vision cyclique du devenir qui resterait présente chez Montesquieu […]. Cette thèse s’appuie essentiellement sur des passages des Lettres persanes qui révéleraient “une fatalité de la politique et de l’histoire” […]»; e così conclude: «Dans les Lettres persanes, le mouvement du roman, qui doit permettre de faire prendre conscience au lecteur du risque despotique, accentue cette impression de fatalité. L’image qui y est donnée du devenir des monarchies est sombre et incomplète» (p. 221, nota 175; corsivo mio). Ora, lasciando qui perdere la sua diatriba con Goulemot, a me sembra, piuttosto, che «l’image […] du devenir des monarchies» offerta dalle Lettere persiane sia chiarissima e completa (e che sia sostanzialmente la stessa ri-proposta nelle Considérations sur les Romains e nell’Esprit des lois). Basta esaminare con un po’ d’attenzione proprio la CXXV (CXXXI) lettera persiana e poi la CXXX (CXXXVI). «La maggior parte degli Asiatici – si legge nella prima, dedicata al tema dell’origine e della storia delle repubbliche – «n’ont pas seulement d’idée de cette sorte de gouvernement» e «l’imagination ne les a pas servis jusques à leur faire comprendre qu’il puisse y en avoir sur la Terre d’autre que le despotique». Le repubbliche sono nate in Grecia. È vero che inizialmente in questo paese – assieme all’Italia, l’«Europe d’autrefois»[61] – si sono avute, importatevi dall’Asia e dall’Egitto, delle monarchie, ma la «tyrannie» di questi governi facendosi «trop pesante», il giogo fu scosso e dalle loro rovine sorsero quelle repubbliche che lo resero tanto fiorente e l’unico civilizzato («poli») in mezzo ai barbari. Dalla Grecia il sistema repubblicano si propagò negli altri paesi del Mediterraneo fin dove arrivò la sua influenza: tutte le colonie che le póleis repubblicane fondarono furono, infatti, governate allo stesso modo e animate dallo stesso «esprit de liberté», cosicché in quei tempi remoti «on ne voit guère [...] de monarchies dans l’Italie, l’Espagne et les Gaules», ma solo repubbliche. Anche i popoli del Nord d’Europa e della Germania vivevano allora sotto regimi repubblicani, e se tra loro si è creduto di trovare «des vestiges de quelque royauté», è perché sono stati scambiati per dei re «les chefs des armées ou des républiques».
Tutto ciò – sottolinea Montesquieu – avveniva in Europa: perché, quanto all’Asia e all’Africa, esse «ont toujours été accablées sous le despotisme, [...] except[é] quelques villes de l’Asie Mineure [...], et la république de Carthage en Afrique».
Ad un certo punto il Mediterraneo si trovò diviso fra due «puissantes républiques», quella cartaginese, appena menzionata, e quella romana. Quest’ultima, vittoriosa sulla prima, pervenne ad uno straordinario sviluppo che sarebbe stato un gran bene per il mondo, «s’il n’y avait pas eu cette différence injuste entre les citoyens romains et les peuples vaincus; si l’on avait donné aux gouverneurs des provinces une autorité moins grande; si les lois si saintes pour empêcher leur tyrannie avaient été observées; et s’ils ne s’étaient pas servis, pour les faire taire, des mêmes trésors que leur injustice avait amassés».
Di lì a poco, comunque, Cesare «opprima» la Repubblica romana e la sottomise ad un «pouvoir arbitraire», che durò per molto tempo, e cioè fino a quando una moltitudine di popoli «libres» scese dal nord dell’Europa e pose termine alla «cruelle oppression» dell’Impero romano, frantumandolo e fondando dappertutto dei «royaumes», i cui sovrani, tuttavia, ebbero un’autorità assai limitata (di fatto, non furono che «des chefs ou des généraux»), cosicché in essi, pur instaurati con la forza, «[on] ne senti[t] point le joug du vainqueur»[62]. Al contrario, allorché i popoli dell’Asia, come i Turchi e i Tartari, fecero delle conquiste, essendo sottomessi nei loro paesi d’origine alla volontà dispotica di uno solo, non pensarono ad altro che a procurargli nuovi sudditi e «à établir par les armes son autorité violente».
Anche i nuovi regni sorti dalla dissoluzione dell’Impero romano d’Occidente, tuttavia, perdettero ad un certo punto – sottolinea Montesquieu nella lettera CXXX (CXXXVI), completando così il rapido abbozzo di macrostoria proposto nella CXXV (CXXXI) – la loro «douce liberté», e precisamente allorché, dopo vari secoli, si trasformarono da monarchie limitate o moderate in monarchie assolute. Accadde così che i popoli che li avevano fondati divenissero effettivamente «barbari», giacché prima, essendo «liberi», non lo erano affatto[63].
Come il lettore può agevolmente vedere, la raffigurazione del divenire storico delle monarchie europee (in Asia vi è stato sempre e solo il dispotismo) è affatto limpida: si va dalla «tirannie» delle monarchie greche arcaiche[64] alla «liberté» delle repubbliche greche e di quella romana; dal «gouvernement militaire et violent» degli imperatori romani all’«autorité [...] bornée de mille manières différentes» dei sovrani dei regni barbarici (CXXV [CXXXI]); per finire alla nuova perdita della libertà in seguito all’affermarsi e consolidarsi delle moderne monarchie assolute, quali in primis – come si sottolinea nella già citata lettera CXXX (CXXXVI) e si ribadisce, con rigorose e dettagliate motivazioni, nell’Esprit des lois – quelle francese e spagnola[65].
Conclusione: se invece di arzigogolare con le «analogies physiciennes», il «vocabulaire mécanique», il «questionnement dynamique», il «mouvement des fluides», i «dérèglements mécaniques», la «dynamique des fluides», le «métaphores physiciennes», la «machine vivante», la «dynamique machinale» ecc. ecc., Casabianca avesse ragionato sull’alternarsi di oppressione e di libertà che contraddistingue la concezione montesquieuiana ‘eurocentrica’ della storia, ovvero con le categorie gnoseologiche-esplicative adoperate effettivamente dal Nostro, come quella di grandeur/décadence, avrebbe davvero reso un servizio importante (e magari scrivendo solo duecento pagine!) a Montesquieu e a tutti i suoi studiosi.
(h) E veniamo di nuovo al dispotismo. Al pari di molti tra i suoi compatrioti, da Louis Althusser in poi, Casabianca cerca di ri-avvalorare la tesi interpretativa esattamente opposta alla mia. Io ho sostenuto che Montesquieu è prioritariamente uno scienziato e secondariamente un polemista, ovvero che la categoria del dispotismo è prioritariamente una categoria analitica e secondariamente una categoria polemica. Casabianca sostiene, invece, che l’intento pratico è nettamente prevalente su quello scientifico: «La typologie [governo moderato / dispotismo] apparaît moins comme un souci scientifique de classification, que comme effort pour orienter la pratique législatrice» (p. 549; corsivo mio). Ovvero, la bipartizione governo moderato / dispotismo è una tipologia ‘dinamica’: «[…] c’est la dynamique typologique que doit permettre de saisir l’unité du dessein [de L’Esprit des lois]». Per cui, se è vero, come io sostengo, che il dispotismo non è in «une allégorie du pouvoir», cionondimeno «les jeux d’écritures (notamment l’usage de la fiction persane doublée des métaphores physiciennes)» e le tensioni che essi implicano «disent bien quelque chose d’essentiel à l’Européen qui veut réfléchir le despotisme qu’il a sous les yeux et qu’il ne voit pas» (pp. 549-550, nota 187; corsivi nel testo). In altri termini: se il dispotismo non è un’allegoria, è però uno strumento essenziale (dit bien quelque chose d’essentiel) per spalancare gli occhi agli Europei e consentire loro di vedere quello che non vedono, ossia il dispotismo.
Ora, al di là delle apparenti concessioni (il dispotismo non è un’allegoria), Casabianca contesta alla radice la mia tesi interpretativa e rilancia in piena regola, come si diceva, la vulgata althusseriana: l’unica differenza (apparente) è che, invece di «avvertimento», come fa Althusser[66], lui parla di strumento essenziale per consentire agli Europei di ‘vedere’ il dispotismo che hanno sotto gli occhi. Come a dire: «se non è zuppa, è pan bagnato»...
Cerco di spiegarmi. In primo luogo, Casabianca pare assimilare, in tema di dispotismo, Lettere persiane e Spirito delle leggi. Invece, a mio giudizio, mentre nelle Lettere persiane Montesquieu dichiara che, di fatto, in Francia c’è il dispotismo, nello Spirito delle leggi egli parla chiaramente di monarchia francese tendente al dispotismo (di «monarchie qui va au despotisme»: II, 4). Inoltre: nelle Lettere persiane Montesquieu non vede vie d’uscita, nello Spirito delle leggi, invece, sì, cioè ritiene sia possibile invertire la degenerazione verso il dispotismo e tornare al «governo gotico» («il tipo migliore di reggimento politico che gli uomini abbiamo mai potuto immaginare»: XI, 8). Infine: che in Montesquieu il dispotismo costituisca anche un avvertimento, io non lo nego affatto, ma dico solo che questo suo intento è secondario, ovvero che lo scopo pratico (l’interventismo legislativo) è secondario, in lui, rispetto all’intento scientifico[67].
Dunque: non è cambiato nulla. I ‘discendenti’ del vetero-marxista Althusser non riescono proprio a fare a meno dell’ideologia e della militanza: l’agire pratico è tutto, il resto è nulla. Sono testardamente ‘allergici’ al dispotismo come categoria analitica. Eppure Voltaire, che capiva infinitamente di più dei suoi ‘variopinti’ epigoni, va su tutte le furie proprio perché Montesquieu concepisce il dispotismo sia come categoria analitica (nell’Esprit des lois, scrive nelle Pensées sur le gouvernement [1752-56], «on a compté le despotisme parmi les formes naturelles de gouvernement»[68]) sia come categoria polemica e respinge con durezza entrambe le ‘accezioni’[69]. Gli studiosi francesi ‘allievi’ di Althusser continuano a contestare me, ma in realtà contestano Voltaire e tutti coloro che, come lui, hanno capito – alla perfezione – gli usi che Montesquieu fa della categoria del dispotismo. Insomma, io ho capito di Montesquieu quello che ha capito il grande Voltaire (perciò, sono in buona compagnia), i miei critici, invece, hanno capito di Montesquieu quello che avrebbe capito il vetero-marxista, per giunta staliniano di ferro (ha persino rivalutato il Diamat!), Louis Althusser (dunque, si trovano in cattiva compagnia).
(i) Casabianca menziona, con sovrana indifferenza, opere edite da Montesquieu e opere da lui lasciate incompiute e inedite, scritti a stampa e appunti privati, Lettere persiane e relazioni accademiche, dando a tutti, secondo un malcostume tipicamente ‘decadente’ (è questo il ‘disastro’ regalatoci dalla psico-analisi), lo stesso valore. Domando: questo modo di trattare testi strutturalmente (e intenzionalmente: basti por mente alle Pensées qualificate espressamente come appunti “non digeriti”[70]) eterogenei, non è segno di un totale disprezzo verso l’autore dell’Esprit des lois, le sue ambizioni, il suo onore? Aggiungo: avendo Montesquieu scritto anche, in un appunto privato, che «tutta la filosofia si riduce a tre parole: io me-ne frego/fotto» («Je disais: “C’est une chose extraordinaire que toute la philosophie consiste dans ces trois mots: Je m’en fiche/fous”»)[71], se ne deve per caso dedurre – se tutti i suoi scritti sono uguali, ovvero se hanno tutti lo stesso valore ‘probatorio’ – che egli sia, anziché un accanito riformista e un guaritore universale, un gran menefreghista?
(l) Casabianca scrive: «Le législateur-médecin doit guérir les “plaies” du genre humaine (p. 729; corsivo mio), e rinvia in nota a EL, IV, 6. Si guarda bene, però, dall’informare il lettore che il legislatore-medico di cui sta parlando qui Montesquieu sono i gesuiti, i quali in Paraguay, all’opposto degli Spagnoli, che avevano unito «l’idea di religione» con la «devastazione» (è questa la «piaga»), avevano invece unito, a suo giudizio, «l’idée de religion […] à celle de l’humanité» e intrapreso e realizzato «grandes choses», come nutrire, vestire, rendere «industriosi» gli indigeni che lo abitavano. E poi il Nostro aggiunge: «Ceux [cioè i legislatori] qui voudrons faire des institutions pareils [a quelle dei gesuiti o di Licurgo] établiront la communauté des biens de la République de Platon», il «respect» che quest’ultimo «demandait pour les dieux», la «séparation d’avec les étrangers pour la conservation des mœurs» e, infine, «proscriront l’argent, dont l’effet est […] de nous corrompre les uns les autres» (ibidem).
Domande: per caso, sotto sotto, il legislatore-medico che ci propina Casabianca vuole abolire la società borghese e instaurare il comunismo? Lo Spirito delle leggi è davvero il Che fare? per assaltare il Palazzo d’Inverno? O, peggio ancora: il legislatore-medico è un legislatore-gesuita? O ancora: il legislatore-medico è un Licurgo, il quale mescolava «le larcin avec l’esprit de justice, le plus dur esclavage avec l’extrême liberté» (IV, 6), e le cui «institutions» erano «dures», perché avevano come unico scopo di formare un «esprit belliqueux» (XIX, 16), ovvero di produrre guerrieri, e cioè di ridurre il mondo ad una caserma?
(m) In sintonia con la sua ferrea convinzione che tutto si muove e nulla sta fermo, l’espressione che Casabianca adopera più spesso, in pratica ad ogni pagina del suo libro, è «en situation». Il legislatore-medico «vit et œuvre en situation» (p. 729); l’Esprit des lois reca in se stesso null’altro che il «devenir législateur qui permet à chacun d’interroger la situation dans laquelle il vit ensemble avec d’autres hommes. Chacun est alors en position de réfléchir ses devoirs en situation» (p. 730); la ragione umana si istruisce solo ed esclusivamente «dans l’application de la raison législatrice en situation» (ibidem); ecc. ecc. Conclusione: Casabianca pare avere una natura ciclomotoria, e questo è affar suo. Ma perché mai vuole inculcare questo suo desiderio irrefrenabile di mobilità anche a tutti i suoi simili, i quali, in nettissima maggioranza, hanno invece una natura tranquilla, amano stare quieti, riposarsi, riflettere senza agitarsi, dormire ecc., insomma essere degli individui calmi? Mi permetto allora di ricordargli che l’idea secondo cui il movimento è tutto e il resto (ovvero, la quiete) è nulla è, al pari di quella per cui o sei utile o non esisti, l’essenza dell’ideologia capitalistica, l’essenza del profitto. Dobbiamo per forza vivere ogni momento della nostra vita roteando come fa il profitto, e cioè essere sempre e comunque en situation?
(n) Carmen Iglesias, «catedrática de Historia de las Ideas en la Universidad Rey Juan Carlos (Madrid) y académica de número de la Real Academia Española», ha scritto, non molto tempo addietro, un grande libro che tratta esattamente, ma pervenendo a conclusioni del tutto opposte, le cose di cui si occupa il libro che stiamo discutendo: El pensamiento de Montesquieu. Ciencia y filosofia en el siglo XVIII (Madrid, Alianza Editorial, 1984; nuova ed.: Madrid, Galaxia Gutenberg / Círculo de lectores, 2005). Casabianca ne ignora completamente l’esistenza. Gli domando: per caso ha ereditato il profondo, e totalmente infondato, disprezzo di Montesquieu per gli Spagnoli?
(o) Pochi anni or sono ho progettato e coordinato la più ampia raccolta di studi sulle letture sette-otto-novecentesche di Montesquieu: il Montesquieu scienziato vi campeggia. L’autore lo cita solo per il mio saggio su Voltaire e per quello su Condorcet. Forse se avesse letto meglio (perché a leggerlo l’ha letto, ma ‘sbrigativamente’, per buttare giù una recensione ‘d’ufficio’ dell’intera raccolta[72]) il saggio di Giovanni Cristani su d’Alembert, avrebbe visto che il Montesquieu tutto rivolto al fare, riformista ad ogni costo, illuminista à la Voltaire che lui propugna, l’ha già propugnato, da padre ‘nobile’ degli enciclopedisti e con sobrietà e precisione assolute, il condirettore dell’Encyclopédie. Se poi avesse letto meglio anche il saggio di Carlo Borghero su Durkheim, non lo avrebbe liquidato, come di fatto fa, in quattro battute; così pure, se avesse letto meglio il saggio di Manlio Iofrida su Aron, magari avrebbe afferrato qualcosa di più e di più congruo circa l’interpretazione ‘sociologica’ di Montesquieu[73].
Mi fermo qui. A mente più serena e più distaccata, avrò
modo di tornare distesamente su questo ‘immenso’ volume (quanto
si dice: la grandeur!) di Casabianca. Tanto sono sicuro –
visti i ‘maestri’ da lui ringraziati – che il suo libro
diventerà, accanto a quelli di Céline Spector (la studiosa
più citata nel volume, dopo Jean Ehrard), un nuovo bestseller per
gli studiosi francesi (e non) di Montesquieu. Non è da escludere,
poi, che dal male sortisca – cristianamente – il bene, ovvero
che dal dibattito che inevitabilmente il volume provocherà, e al
di sopra o al di là della marea di elogi che, altrettanto inevitabilmente,
lo coprirà, non venga fuori – non sortisca –
una qualche idea buona, che faccia davvero progredire lo studio e la conoscenza
dello scienziato politico-sociale Charles-Louis de Secondat, barone
di La Brède e di Montesquieu.
[1] Ottanta pagine del libro (649-730) sono dedicate alla thérapie législatrice.
[2] È vero che Montesquieu dichiara, nella “Préface” all’Esprit des lois (d’ora in poi: EL), che si sentirebbe «le plus heureux des mortels» se potesse fare in modo che gli uomini «pussent se guérir», ma dai loro «pregiudizi», ovvero del fatto che «ignorano se stessi», e cioè non conoscono – come insegnava l’oracolo di Delfi – i propri limiti, vale a dire ciò che non possono fare («les êtres intelligents sont bornés par leur nature»: EL, I, 1; corsivo mio). Tra le cose che non possono fare, o che possono fare solo «raramente» e con «mano tremante», c’è l’interventismo legislativo: «Je n’écris point pour censurer – avverte egli, infatti, sempre nella “Préface” – ce qui est établi dans quelque pays que ce soit. Chaque nation trouvera ici les raisons de ses maximes; et on en tirera naturellement cette conséquence, qu’il n’appartient de proposer des changements qu’à ceux qui sont assez heureusement nés pour pénétrer d’un coup de génie toute la constitution d’un État» (corsivo mio). E nelle giovanili Lettres persanes (d’ora in poi: LP), Montesquieu aveva già scritto a chiare lettere: «Il est vrai que, par une bizarrerie qui vient plutôt de la nature que de l’esprit des hommes, il est quelquefois nécessaire de changer certaines lois. Mais le cas est rare, et, lorsqu’il arrive, il n’y faut toucher que d’une main tremblante: on y doit observer tant de solennités et apporter tant de précautions que le peuple en conclue naturellement que les lois sont bien saintes, puisqu’il faut tant de formalités pour les abroger» (lettera LXXVI [CXXIX]; corsivi miei). Non è improbabile che nello scrivere il n’y faut toucher que d’une main tremblante Montesquieu avesse in mente, come suggeriscono i curatori della nuova edizione critica delle LP (Œuvres complètes de Montesquieu, t. I, Napoli - Oxford, Voltaire Foundation - Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2004, p. 348, nota 4) il seguente fatto riferito da Michel de Montaigne nei suoi Essais: «Le législateur des Thuriens ordonna que quiconque voudrait, ou abolir une des vieilles lois, ou en établir une nouvelle, se présenterait au peuple la corde au col: afin que si la nouvelleté n’était approuvée d’un chacun, il fut incontinent étranglé» (Essais, I, 23 [«De la coutume de ne changer aisément une loi reçue»], Paris, «Bibliothèque de la Pléiade», 1950, p. 148).
[3] Cfr. D. Felice, Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali. Dispotismo, autonomia della giustizia e carattere delle nazioni nell’«Esprit des lois» di Montesquieu, Firenze, Olschki, 2005.
[4] Voltaire a E. Bertrand, 5 gennaio 1759, in Correspondance, a cura di Th. Besterman, 13 voll., Paris, «Bibliothèque de la Pléiade», 1977-1993, vol. V, p. 323. Peraltro Voltaire, che è scrittore umorale, ovvero è la contraddizione fatta persona, critica continuamente l’Esprit des lois perché non sarebbe un’opera utile: «[…] ce livre, qui devrait être utile, ne serait pas par malheur agréable» (Remerciement sincère à un homme charitable [1750], in Œuvres complètes de Voltaire, ed. Moland, Paris, Garnier, 1877-1882, vol. XXXII, p. 457. E d’Alembert prontamente gli risponde nell’Éloge de Montesquieu [1755]: «On cherchait un livre agréable, et on ne trovait qu’un livre utile» (citato da G. Cristani, L’«esclave de la liberté» e il «législateur des nations»: d’Alembert interprete di Montesquieu, in D. Felice [a cura di], Montesquieu e i suoi interpreti, 2 voll., Pisa, Ets, 2005, vol. I, p. 26). Su Voltaire e Montesquieu, vedi il mio Voltaire lettore e critico dell’«Esprit des lois», in Montesquieu e i suoi interpreti, cit., vol. I, pp. 159-190.
[5] Per una lettura fine ed equilibrata del libro XXIX dell’EL, assai distante da quella proposta da Casabianca, vedi G. Cristani, L’«esprit du législateur». Riflessioni sul libro XXIX dell’«Esprit des lois», in D. Felice (a cura di), Politica, economia e diritto nell’«Esprit des lois» di Montesquieu, Bologna, Clueb, 2010, pp. 199-210.
[6] Questa contrapposizione causa-senso è, a mio avviso, del tutto infondata, perché l’intera riflessione di Montesquieu è finalizzata alla comprensione dell’esprit, ossia dei rapporti, ossia dell’anima, ossia – come scrive giustamente Sergio Cotta, Il pensiero politico di Montesquieu, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 7-8 – del «senso dell’umana condizione sociale» (corsivo mio). Vedi manoscritto dell’EL, t. V, f. 332: «Ce n’est point le corps des lois qu’il faut chercher, c’est leur âme» (De l’esprit des lois, Manuscrits, I-II, textes établis, présentés et annotés par Catherine Volpilhac-Auger, tt. 2-3 delle Œuvres complètes de Montesquieu, Oxford - Napoli, Voltaire Foundation - Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2008, vol. I, p. 735; corsivo mio).
[7] “Preface” all’EL, in fine. Su questa affermazione di autoconsapevolezza, da parte di Montesquieu, della propria grandezza, Casabianca ‘ricama’ parecchie (troppe) pagine, perché vi vede la «formation» del «regard artiste» (cap. 12 del suo libro, “Formation du regard”, pp. 735-819), ovvero dell’alter ego del «regard médical» o «regard» del legislatore (cap. 13 del suo libro, “L’art de la composition”, pp. 821-902). Come è noto, Montesquieu fa sua l’esclamazione di Correggio: «Ed io anche son pittore».
[8] Con ciò non intendo minimamente ‘sminuire’ Lenin, il quale sapeva perfettamente il fatto suo: infatti, prima e dopo del Che fare? (= agire pratico) (1902), scrive, rispettivamente, Lo sviluppo del capitalismo in Russia (= scienza) (1899) e L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (= scienza) (1917).
[9] Aron sottolinea chiaramente la ‘coesistenza’ in Montesquieu di scienza a agire pratico: il libro XXIX dell’Esprit des lois, scrive infatti, si presenta come «un’elaborazione pragmatica delle conseguenze» deducibili dallo studio scientifico tracciato nei libri precedenti (Les étapes de la pensée sociologique. Montesquieu, Comte, Marx, Tocqueville, Durkheim, Pareto, Weber, Paris, Gallimard, 1967, p. 30). Lo stesso aveva fatto in precedenza Sergio Cotta nella sua fondamentale monografia su Montesquieu e la scienza della società, scrivendo che nel suo capolavoro «Montesquieu si propone di elaborare una scienza empirica della società, studiando quello che è per ricavarne le leggi dello sviluppo sociale» (Montesquieu e la scienza della società, Torino, Ramella, 1953, p. 339: online sul sito < www.montesquieu.it >; corsivi nel testo).
[10] Si allude qui in particolare ai cosiddetti ‘scritti scientifici’ giovanili di Montesquieu (Discours sur la cause de l’écho, Discours sur l’usage des glandes rénales, Projet d’une histoire physique de la terre ancienne et moderne, Discours sur la cause de la pesanteur des corps, Discours sur la cause la transparence des corps ecc.), su cui vedi G. Cristani, Nota introduttiva a Montesquieu, Scritti scientifici giovanili, a cura di G. Cristani, in < www.montesquieu.it >, 1 (2009), p. 1.
[11] Lo sottolinea ottimamente G. Cristani: «Gran parte della critica si è interrogata sui possibili influssi di questo giovanile tirocinio scientifico del Président sull’elaborazione del suo pensiero politico e della sua analisi della società, sul piano teorico ed epistemologico. Gli scritti scientifici di Montesquieu, tuttavia, offrono soprattutto stimolanti prospettive di ricerca riguardo alla sua personale concezione della filosofia naturale. In una fase della storia del pensiero scientifico in cui non è possibile ancora ravvisare un alto grado di specializzazione delle diverse discipline e in cui, d’altra parte, la fisica cartesiana e la sintesi newtoniana, ma anche altri settori di ricerca, dalla chimica stahliana alle teorie epigenetiche, esercitano su tutta la comunità letteraria e filosofica un’influenza determinante e una fascinazione irresistibile, l’analisi del punto di vista di un personaggio come Montesquieu su questi temi appare estremamente interessante e rilevante» (Nota introduttiva, cit., p. 1).
[12] Non a caso, da questo punto di vista, nell’ultimo capitolo del libro XXIX, dedicato ai “legislatori”, Montesquieu menziona, non già un qualche medico o i politici di professione, ma proprio – accanto a Thomas More e a James Harrington – Platone, Aristotele e Machiavelli (EL, XXIX, 19).
[13] È l’idea che domina incontrastata il volumetto di C. Spector (Montesquieu. Les «Lettres persanes»: de l’anthropologie à la politique, Paris, Puf, 1997), la quale non fa altro che ‘esasperare’, com’è sua abitudine, le interpretazioni precedenti prevalenti del capolavoro giovanile di Montesquieu.
[14] Si tratta delle «quattro categorie che presiedono [in Montesquieu] alla comprensione della realtà umana» (S. Cotta, Il pensiero politico di Montesquieu, cit., p. 20). Per la categoria gnoseologica di rapporto, vedi Lettere persiane (d’ora in poi: LP), LXXXI (LXXXIII); per quella di relatività, ivi, XXXII (XXXIV), LXXVIII (LXXX), LXXXVII (LXXXIX); per quella di spirito generale di una nazione, ivi, XXII (XXIV), LXI (LXIII), LXXV (LXXVIII), LXXVI (CXXIX); per quella di grandezza/decadenza, ivi, CXXV (CXXXI), CXXX (CXXXVI) CVIII (CXII)-CXVIII (CXXII).
[15] È questo il tema cruciale, il nodo di tutte le riflessioni di Montesquieu, sia nelle LP sia nell’EL: vedi F. Chabod, Storia dell’idea d’Europa, Roma-Bari, Laterza, 1961, 1995, pp. 86-107, e il mio Oppressione e libertà. Filosofia e anatomia del dispotismo nell’«Esprit des lois» di Montesquieu, Pisa, Ets, 2000 (online sul sito < www.montesquieu.it >).
[16] Cfr. S. Cotta, Il pensiero politico di Montesquieu, cit., che considera giustamente lo Spirito delle leggi come la «compiuta sintesi (pur articolata con cura) e [il] perfezionamento dei risultati raggiunti negli scritti precedenti» (p. 20), in primis le Lettere persiane e le Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza (1734; d’ora in poi: Romains). Schematicamente: Montesquieu studia (analizza e interpreta) ‘scientificamente’, dapprima, il presente (Lettere persiane); poi, il passato (Romains); infine, il passato e il presente insieme (EL).
[17] Casabianca cita una sola volta, e in nota (p. 596), il Trattato dei doveri, e tre volte Della politica (pp. 316, 597, 833).
[18] «Le premier chapitre est sur les Devoirs en général. Dieu en est l’objet universel, dans le sens qu’il doit remplir tous nos désirs et occuper toutes nos pensées: il en est encore l’objet particulier dans le sens que nous lui devons un culte. “Ceux qui ont dit, ajoute l’auteur qu’une fatalité aveugle a produit tous les effets que nous voyons dans le monde, ont dit une grande absurdité; car quelle plus grande absurdité qu’une fatalité aveugle qui produit des êtres qui ne le sont pas? Si Dieu est plus puissant que nous, il faut le craindre; s’il est un Être bienfaisant, il faut l’aimer; et comme il ne s’est pas rendu visible, l’aimer c’est le servir avec cette satisfaction intérieure que l’on sent lorsque l’on donne à quelqu’un des marques de sa reconnaissance. Enfin, continue l’auteur, nos devoirs envers Dieu sont d’autant plus indispensables qu’ils ne sont pas réciproques, comme ceux que les hommes se rendent, car nous devons tout à Dieu et Dieu ne nous doit rien”» (Analyse du Traité des devoirs, in Œuvres complètes de Montesquieu, éd. Caillois, 2 tt., Paris, «Bibliothèque de la Pléiade», 1949-1951, t. I, p. 109)
[19] Analyse du Traité des devoirs, cit., p. 110
[20] La giustizia, che è «le fondement de la société», è «un rapport général» che «concerne l’homme en lui-meme» e «par rapport à tous les hommes» (Analyse du Traité des devoirs, cit., p. 110). Cfr. LP, LXXXI (LXXXIII) e Mes Pensées, n° 1008.
[21] «Dans toutes le société, qui ne sont qu’une union d’esprit, il se forme un caractère commune. Cette âme universelle prend une manière de penser qui est l’effet d’une chaîne de causes infinies, qui se multiplient et se combinent de siècle en siècle. Dès que le ton est donné et reçu, c’est lui seul qui gouverne, et tout ce que les souverains, les magistrats, les peuples peuvent faire ou imaginer, soit qu’ils paraissent choquer ce ton, ou le suivre, s’y rapporte toujours, et domine jusque à la totale destruction» (De la politique, in Œuvres complètes de Montesquieu, cit., t. I, p. 114; corsivi miei) .
[22] Vedi il passo citato nella nota 21, dove si afferma che una «catena di cause infinite» fa sorgere, dominare e declinare «fino alla totale distruzione» il «carattere comune» di un popolo.
[23] Cfr. anche, sempre di Casabianca, la sua recensione alla mia edizione del Saggio sulle cause che possono agire sugli spiriti e sui caratteri (Pisa, Ets, 2004), «Revue Montesquieu», 8 (2005-2006), pp. 234-235, e il suo saggio Voyages et traversée des airs: l’exercice du regard et les lieux de la législation, «Cromohs», 15 (2010), § 16, nota 120: < https://www.cromohs.unifi.it/15_2010/casabianca_voyages.html >.
[24] Mes Pensées, n° 1092.
[25] EL, IV, 8.
[26] Cfr., ad esempio, il citato Discours sur Cicéron e Mes Pensées, n° 773: «Cicéron, selon mois, est un des grands esprits qui aient jamais été».
[27] «Plutarque me charme toujours» (Mes Pensées, n° 607).
[28] Cfr. la sua lettera dell’8 ottobre 1750 all’arcivescovo di Soissons, François de Fitz-James, in Œuvres complètes de Montesquieu, sous la direction d’A. Masson, 3 tt., Paris, Nagel, 1950-1955, t. III, p. 1327.
[29] Mes Pensées, n° 350.
[30] Cfr. il suo Des objections sans réponses? À propos de la «tentation» matérialiste de Montesquieu dans les «Pensées», «Revue Montesquieu», 7 (2003-2004), pp. 135-156.
[31] Guillaume Barrera esagera oltremisura, a proposito di religione in Montesquieu, le tesi interpretative già di per sé molto esagerate di Céline Spector: vedi il mio Montesquieu, lo Stato e la religione sul sito elettronico < www.montesquieu.it >. Per giunta, ha finalmente sfornato, anche lui, il suo poderoso volume (501 pagine!), annunciato dal 2005: Les lois du monde. Enquête sur le dessein politique de Montesquieu, Paris, Gallimard («L’Esprit de la cité»), 2009. Eccone il sunto, o meglio, il sugo, l’arrosto (reperibile online sul sito internazionale dedicato a Montesquieu: < https://montesquieu.ens-lsh.fr >): «L’ambition du présent ouvrage est de restituer non pas tel pan ou telle leçon d’une pensée étincelante, mais qui souvent se dérobe. Elle est de saisir toute l’ampleur d’une philosophie soucieuse d’embrasser la condition humaine dans ses formes les plus riches: le cœur de l’homme, le commerce des deux sexes, les passions politiques, l’esprit des nations, la force et la violence. Dans le triangle que constituent la liberté, la religion et le commerce, l’auteur de L’Esprit des lois explore les multiples combinaisons qui déterminent, ou qui entravent, l’accès des États à la puissance et à la prospérité: tel est, écrit Guillaume Barrera, le vrai dessein de Montesquieu. Ce penseur est d’abord un politique. Il n’est ni le philosophe ni le sociologue qu’on décrit ordinairement; il fait bien autre chose qu’une œuvre de science: il entend agir par son œuvre» (corsivo mio). Un solo commento: ciò che in Larrère, Spector e Casabianca è pacato ragionare, nel caso di Barrera è cieco furore. Chissà se Montesquieu-medico non riesca a trovare una medicina anche per lui, nonostante la malattia disperata che l’affligge. Posso comunque rassicurarlo: a dispetto di quello che vuol farci credere, Montesquieu non è un anti-cristiano, né sarebbe salito mai sulle barricate, né tanto meno avrebbe mai sottoscritto ‘proclami’ sulle magnifiche sorti e progressive.
[32] Religione e politica in Montesquieu. A proposito di una recente pubblicazione, «Bibliomanie», (2009), n° 14: < www.bibliomanie.it/montesquieu_religione_domenico_felice.htm >.
[33] EL, XIX, 2 (titolo).
[34] L’esempio dei Cappadoci che rifiutano la libertà è anche in S. Pufendorf, De iure naturae et gentium, VII, 6, 5 (nella trad. fr. di J. Barbeyrac, Basle, Thourneisen, 17324, t. II, p. 294).
[35] In passato, forse l’unica eccezione è stata quella di Alessandro Magno, il quale, durante le sue conquiste in Asia, lasciò ai popoli vinti le loro leggi e i loro costumi e «résista à ceux qui voulaient qu’il traitât les Grecs comme maîtres, et les Perses comme esclaves» (EL, X, 14). Ma la sua impresa finì presto e il vasto impero da lui costruito fu subito suddiviso tra i suoi generali. D’altra parte, se ciò non fosse accaduto, sarebbe stato inevitabile, per impedirne la «dissolution», instaurare un «pouvoir sans bornes», e cioè il dispotismo (EL, VIII, 17). Circa l’Africa, a cui accenno nel prosieguo del discorso, è vero che Montesquieu, con riferimento alla funzione della religione cristiana come fattore di progresso universale, dichiara: «C’est la religion chrétienne qui, malgré la grandeur de l’empire et le vice du climat, a empêché le despotisme de s’établir en Ethiopie, et a porté au milieu de l’Afrique les mœurs de l’Europe et ses lois» (EL, XXIV, 3), ma si tratta di un frammento di una linea argomentativa priva di sviluppi o, se si preferisce, di un’eccezione alla regola. Ad immediata correzione del giudizio appena riportato, compaiono infatti – sempre nell’Esprit des lois – la dichiarazione dell’impossibilità, oltre che dei rischi, che una religione si impianti stabilmente in climi diversi da quello originario, e l’ancoramento rigido dei limiti di espansione del cristianesimo all’ambiente naturale: «Il semble, humainement parlant, que ce soit le climat qui prescrit des bornes à la religion chrétienne et à la religion musulmane» (EL, XXIV, 26). Vedi, sul punto, R. Minuti, Ambiente naturale e dinamiche delle società politiche: tensioni e aspetti di un tema di Montesquieu, in D. Felice (a cura di), Leggere l’«Esprit des lois». Stato, società e storia nel pensiero di Montesquieu, Napoli, Liguori, 1998, p. 160.
[36] «Voila ce qui je puis dire sur l’Asie et sur l’Europe. L’Afrique est dans un climat pareil à celui du midi de l’Asie, et elle est dans une même servitude» (EL, XVII, 7). Cfr. R. Minuti, Ambiente naturale e dinamiche delle società politiche, cit., pp. 156-157.
[37] Gli studiosi francesi, che si compiacciono in continuazione di rilevare, ovunque capita, l’ironia di Montesquieu, farebbero bene, invece, a riflettere, e molto, su questo atroce insulto che egli scaglia contro i tre quarti della popolazione del Pianeta.
[38] Mes Pensées, n° 2194. Seppure solo in appunti privati, Montesquieu inneggia a Spartaco: la sua guerra è stata «la plus légitime», «la plus juste» che sia stata mai intrapresa (Mes Pensées, nn° 174, 2194).
[39] Per un’analisi più dettagliata degli ultimi passaggi montesquieuiani riportati nel testo, vedi il mio Oppressione e libertà, cit., cap. IV («Imperi e Stati del Mediterraneo antico e moderno», pp. 169-216), e il già citato R. Minuti, Ambiente naturale e dinamica delle società politiche, cit., pp. 155-160.
[40] Per quanto la zona temperata sia molto estesa in Europa – ciò che la rende un continente unico nel suo genere – esiste tuttavia un’indubbia differenza, sottolinea Montesquieu in un breve ma importante capitolo del libro XXI dell’EL, tra le sue nazioni del Sud (in primo luogo, l’Italia e la Spagna) e quelle del Nord. Infatti, mentre le prime hanno «toutes sortes de commodités pour la vie, et peu de besoins», le seconde hanno «beaucoup de besoins, et peu de commodités pour la vie». A porre rimedio a questo squilibrio è, a suo avviso, la natura stessa (o «le climat et la nature», come si legge nella pensée n° 789, che affronta lo stesso tema), la quale ha dato alle une «la paresse», alle altre «l’activité» e «l’industrie». I popoli settentrionali «sont obligés de travailler beaucoup, sans quoi ils manqueraient de tout», e «ont besoin de la liberté, qui leur procure plus de moyens de satisfaire tous les besoins que la nature leur a donnés». I popoli meridionali possono farne a meno: la limitatezza dei bisogni «a naturalisé» in essi «la servitude». Sicché, conclude Montesquieu, «les peuples du nord sont [...] dans un état forcé, s’ils ne sont libres [...]: presque tous les peuples du midi sont, en quelque façon, dans un état violent, s’ils ne sont esclaves» (EL, XXI, 3; corsivo mio).
[41] Cfr. Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali, cit.
[42] Per Montesquieu, il dispotismo cinese è «le meilleur» tra tutti i dispotismi (Mes Pensées, n° 1880), quello giapponese, invece, è il peggiore di tutti («le gouvernement le plus despotique qui ait jamais été»: De l’esprit des lois, Manuscrits, I, cit., p. 116). Vedi, sul punto, il mio Oppressione e libertà, cit., pp. 94-95, 177-179.
[43] Ultimamente anche da noi in Italia: vedi il suo saggio Voyages et traversée des airs: l’exercice du regard et les lieux de la législation, «Cromohs», 15 (2010), §§ 1-24: < https://www.cromohs.unifi.it/15_2010/casabianca_voyages.html >.
[44] Vedi Religione e politica in Montesquieu, cit., nei passaggi dove discuto le tesi interpretative di Catherine Maire.
[45] E già nelle Lettere persiane aveva usato, proprio parlando dell’art de législation, che tanto piace a Casabianca (l’ha messa perfino nell’Index de notions), il termine rare: «Il est vrai que, par une bizarrerie qui vient plutôt de la nature que de l’esprit des hommes, il est quelquefois nécessaire de changer certaines lois. Mais le cas est rare […]» (lettera LXXVI [CXXIX]). Vedi supra, nota 2.
[46] «[…] c’est un chef-d’œuvre de législation, que le hasard fait rarement, et que rarement on laisse faire à la prudence» (EL, V, 14; corsivi miei).
[47] Anni addietro, ho dimostrato ad abundantiam la quantità incredibile di errori, e di vere e proprie sciocchezze, di cui Andrivet ha corredato le Considérations di Montesquieu, trasformando quella che doveva essere la prima vera edizione critica dell’opera, nella peggiore edizione che sia mai apparsa dal 1734 (anno della sua prima pubblicazione) ad oggi. Vedi nota 48.
[48] Nota 23, in Considérations sur les cause de la grandeur des Romains et de leur décadence, texte établi et présenté par F. Weil e C. Courtney, introduction et commentaires de P. Andrivet et C. Volpilhac-Auger, t. II delle Œuvres complètes de Montesquieu, Oxford - Napoli, Voltaire Foundation - Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2000, pp. 158-159.
[49] Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 2; Montesquieu, De l’esprit des lois, Manuscrits, I, cit., p. 253.
[50] È vero che Montesquieu cita sovente, quando parla della fasi monarchica e repubblicana dell’antica Roma, lo storico Dionigi d’Alicarnasso (60?-7? a.C.), ma questi non dice nulla di più nulla di meno di quanto su tali fasi, in materia di governo misto, aveva già detto Polibio e ripetuto, a suo modo, Cicerone.
[51] Pensées, n° 1672, una pensée ignorata, of course, da Casabianca. In tempi non sospetti, e cioè nel 1999 (Imperi e Stati del Mediterraneo nell’«Esprit des lois» di Montesquieu, in A. Cassani - D. Felice [a cura di], Civiltà e popoli del Mediterraneo: immagini e pregiudizi, Bologna, Clueb, 1999, pp. 176-177) e poi nel 2000 (Oppressione e libertà, cit., pp. 189-190), ho scritto: «Per quanto concerne […] l’organizzazione costituzionale della repubblica romana, Montesquieu ne tratta in numerosi luoghi, e in particolare nel […] libro XI dell’Esprit des lois, segnatamente nei capitoli 13-18, dove ne offre, riprendendo a suo modo la teoria del governo misto di Polibio e di Machiavelli, un’analisi distesa e organica. Dopo la cacciata dei re il governo di Roma fu di tipo aristocratico, dal momento che i patrizi erano i soli a poter ricoprire tutte le cariche religiose, politiche, civili e militari (XI, 13-14). A poco a poco, tuttavia, i plebei riuscirono a guadagnare – mediante una serie di importanti riforme politiche, quali il diritto di poter accedere anch’essi a quasi tutte le magistrature e l’istituzione del tribunato (XI, 14) – porzioni importanti di potere, trasformando così lo Stato, in particolare dopo il breve governo tirannico dei decemviri (451-450 a.C.) (XI, 15), da aristocratico in democratico o «populaire». Prese così avvio una lunga fase della storia della repubblica – quella che nel manoscritto dell’EL che ci è rimasto viene definita della république parfaite – in cui, al pari che nell’altro grande sistema politico dettagliatamente descritto nel libro XI, vale a dire la monarchia costituzionale inglese settecentesca, venne realizzato, attraverso un complesso sistema di distribuzione dei poteri, un equilibrio politico – o, come si legge nei Romains, una «union d’harmonie» (Romains, IX) – tra le «puissances» fondamentali dello Stato (senato e popolo), che impedì o corresse nell’Urbe ogni abuso di potere (XI, 16-18) e che fu la causa fondamentale della maggiore stabilità, nonché della superiorità, della sua costituzione rispetto alle altre grandi costituzioni repubblicane antiche, in primis quella della sua più potente e pericolosa rivale nella lotta per il predominio politico-militare sul Mediterraneo, Cartagine (al tempo della decisiva seconda guerra punica, diversamente che a Roma, in questa città regnavano, secondo Montesquieu, abusi e corruzione [Romains, IV, VIII; EL, III, 3; VIII, 14])».
[52] Cfr. A. Postigliola, En relisant le chapitre sur la Constitution d’Angleterre, «Cahiers de philosphie politique et juridique de l’Université de Caen», 7 (1985), pp. 11-27 ; Id., La città della ragione. Per una storia filosofica del Settecento francese, Roma, Bulzoni, 1992, pp. 83-107, 253-268. Sempre di Postigliola vedi anche i saggi: Sur quelques interprétations de la «séparation des pouvoirs» chez Montesquieu, «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», (1976), n° 154, pp. 1759-1775; Une «république parfaite»: Roma, i poteri, le libertà tra le «Considérations» e l’«Esprit des lois», in A. Postigliola (a cura di), Storia e ragione, Napoli, Liguori, 1987, pp. 331-338. Vedi, inoltre, W. Kuhfuss, Mässigung and Politik. Studien zur politischen Sparache und Theorie Montesquieus, München, Fink, 1975; Id., La notion de modération dans les «Considérations» de Montesquieu, in A. Postigliola (a cura di), Storia e ragione, cit., pp. 277-292; A. Riklin, Die gewaltenteilige Mischverfassung Montesquieu im ideengeschichtlichen Zusammenhang, in P.-L. Weinacht (a cura di), Montesquieu. 250 Jahre «Geist der Gesetze», Baden Baden, Nomos, 1999, pp. 15-29. È superfluo segnalare che tutti gli studi appena citati sono ignoti a Casabianca, così come gli sono ignoti gli importanti saggi di U. Roberto, Diritto e storia: Roma antica nell’«Esprit des lois», in D. Felice (a cura di), Leggere l’«Esprit des lois», cit., pp. 229-280; Montesquieu, i Germani e l’identità politica europea, in D. Felice (a cura di), Libertà, necessità e storia. Percorsi dell’«Esprit des lois» di Montesquieu, Napoli, Bibliopolis, 2003, pp. 277-322.
[53] L’unico cenno è nella nota 22 di p. 502. Casabianca vi cita il seguente passo di EL, XI, 18: «Car, comme la compétence des uns et des autres dépendit de la grandeur de la peine et de la nature du crime, il fallut qu’ils [senato e popolo] se concertassent ensemble».
[54] «Le gouvernement des rois de Rome avait quelque rapport à celui des rois des temps héroïques chez les Grecs. Il tomba, comme les autres, par son vice général […]», e cioè, appunto, per la cattiva collocazione del giudiziario (EL, XI, 12).
[55] «Il faut remarquer que les trois pouvoirs peuvent être bien distribués par rapport à la liberté de la constitution, quoiqu’ils ne le soient pas si bien dans le rapport avec la liberté du citoyen. A Rome, le peuple ayant la plus grande partie de la puissance législative, une partie de la puissance exécutrice, et une partie de la puissance de juger, c’était un grand pouvoir qu’il fallait balancer par un autre. Le sénat avait bien une partie de la puissance exécutrice; il avait quelque branche de la puissance législative; mais cela ne suffisait pas pour contrebalancer le peuple. Il fallait qu’il eût part à la puissance de juger; et il y avait part lorsque les juges étaient choisis parmi les sénateurs. Quand les Gracques privèrent les sénateurs de la puissance de juger, le sénat ne put plus résister au peuple. Ils choquèrent donc la liberté de la constitution, pour favoriser la liberté du citoyen; mais celle-ci se perdit avec celle-là. Il en résulta des maux infinis. On changea la constitution dans un temps où, dans le feu des discordes civiles, il y avait à peine une constitution. Les chevaliers ne furent plus cet ordre moyen qui unissait le peuple au sénat; et la chaîne de la constitution fut rompue» (EL, XI, 18; corsivi miei).
[56] Per una trattazione dettagliata del potere giudiziario e delle cause fondamentali della caduta della Repubblica romana, ovvero (a) la cattiva collocazione del giudiziario e (b) l’eccessiva estensione territoriale dello Stato, vedi il mio Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali, cit., cap. II (“Autonomia della giustizia e filosofia della pena”), pp. 73-118.
[57] Sul ruolo della nobiltà nella monarchia di tipo francese ha scritto pagine illuminanti M. Goldoni, L’onore del potere giudiziario: Montesquieu e la monarchia dei poteri intermedi, in D. Felice (a cura di), Politica, economia e diritto nell’«Esprit des lois» di Montesquieu, cit., pp. 1-66; su quello della nobiltà nella monarchia di tipo inglese, vedi L. Landi, L’Inghilterra e il pensiero politico di Montesquieu, Padova, Cedam, 1981, pp. 370-410, passim.
È assai probabile che Montesquieu derivi questa sua idea circa la funzione della nobiltà nel governo misto da Polibio e da Cicerone i quali, nella loro teorizzazione di tale forma di governo, assegnano entrambi un ruolo cruciale al Senato romano: cfr. U. Roberto, Aspetti della riflessione sul governo misto nel pensiero politico romano da Cicerone all’età di Giustiniano, < www.montesquieu.it >, 2 (2010), pp. 5-6, passim. Sarei oltremodo curioso di conoscere come Casiabanca riuscirebbe a far ‘interagire’ con il suo équilibre dynamique (p. 503) la puissance réglante della nobiltà inglese…
[58] Vedi in particolare il cap. 4 del suo libro, dedicato a “Les références à la physique dans L’Esprit des lois: la mise en œuvre d’une physique sociale?”, pp. 163-282.
[59] Pubblicato su «Dix-huitième siècle», 21 (1989), pp. 13-22.
[60] Jean-Marie Goulemot, Le règne de l’histoire. Discours historiques et révolutions XVIIe-XVIIIe siècle (1975), Paris, Albin Michel, 1996.
[61] Mes Pensées, n° 639.
[62] Sempre nella CXXV (CXXXI) lettera persiana, il tema è ripreso e ampliato poco dopo, là dove si sottolinea che in tutti i regni che si formarono sulle rovine dell’Impero romano «l’autorité du prince était bornée de mille manières différentes: un grand nombre de seigneurs la partageaient avec lui; les guerres n’étaient entreprises que de leur consentement; les dépouilles étaient partagées entre le chef et les soldats; aucun impôt en faveur du prince; les lois étaient faites dans les assemblées de la Nation».
[63] Cfr. LP, CXXX (CXXXVI): «Un nombre infini de peuples barbares, aussi inconnus que les pays qu’ils habitaient, parurent tout à coup, inondèrent [l’Empire Romain], le ravagèrent, le dépecèrent, et fondèrent tous les royaumes que vous voyez à présent en Europe. Ces peuples n’étaient point proprement barbares, puisqu’ils étaient libres; mais ils le sont devenus depuis que, soumis pour la plupart à une puissance absolue, ils ont perdu cette douce liberté si conforme à la raison, à l’humanité et à la nature» (corsivi miei).
[64] Nell’Esprit des lois Montesquieu espliciterà, come si è già accennato, la ragione di questa loro «tirannide», ossia la cattiva collocazione del giudiziario.
[65] Per un’illustrazione-analisi particolareggiata della concezione montesquieuiana della storia e delle monarchie francese e spagnola nelle LP e nell’EL, vedi il mio Oppressione e libertà, cit., pp. 119-148, 172-179, 198-207.
[66] L. Althusser, Montesquieu. La politique et l’histoire (1959), Paris, Puf, 19927, p. 97: «Un régime existant [le despotisme], certes, mais aussi et surtout une leçon de politique, un avertissement clair au roi tenté de pouvoir absolu» (corsivo mio).
[67] Il tutto è illustrato e discusso diffusamente nel mio Oppressione e libertà, cit.
[68] Œuvres complètes de Voltaire, cit., vol. XXIII, p. 530 (corsivo mio).
[69] Vedi il mio Voltaire lettore e critico dell’«Esprit des lois», cit., pp. 172-177.
[70] «Ce sont des idées que je n’ai point approfondies, et que je garde pour y penser dans l’occasion»; «Je me garderai bien de répondre de toutes les pensées qui sont ici. Je n’ai mis là la plupart que parce que je n’ai pas eu le temps de les réfléchir, et j’y penserai quand j’en ferai usage». E ancora, alla fine di una pensée intitolata Doutes, Montesquieu scrive: «Du reste, ce sont des idées jetées, et comme elles me sont venues dans l’esprit, sans examen» (Montesquieu, Pensées – Le spicilège, notes, bibliographie et index par L. Desgraves, Paris, Laffont, 1991, pp. 188 e 593).
[71] Mes Pensées, n° 1178.
[72] Cfr. la sua recensione a D. Felice (a cura di), Montesquieu e i suoi interpreti, cit., «Revue Montesquieu», 8 (2005-2006), pp. 239-244.
[73] Cfr. C. Borghero, Durkheim lettore di Montesquieu, e M. Iofrida, Montesquieu letto da Raymond Aron, in D. Felice (a cura di); Montesquieu e i suoi interpreti, cit., vol. II, pp. 671-712, 839-866.