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Dario Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida
Quodlibet, Macerata, 2009, pp. 235.
Gianmaria Merenda [1]
“Che resta oggi della concezione della politica modellata sulla città? E dell’idea di cittadinanza che dalla città prende il nome? In quale città sorge la cittadinanza? E che resta oggi di quella città?” (p. 21). Queste domande messe in fila da Gentili possono dare un immediato senso al testo Topografie politiche. Sono domande che sottendono la premura dell’autore di mantenere in collegamento differenti piani temporali (il passato che ha fondato e l’odierno che talvolta affonda in quel passato), di sintetizzare differenti concetti di appartenenza politica, di rinnovare le giuste domande che ci si può porre messi al cospetto della crisi (costitutiva e genetica) della città: “si può affermare che la città è una delle forme che ha assunto lo spazio urbano nella storia, una delle forme di governo dei suoi confini. […] quella stessa città che è stata, fino a ieri, il luogo del rapporto, a sua volta ambivalente e conflittuale, tra urbanistica e architettura” (pp. 36-37). Dario Gentili, per rispondere a queste domande e per sviluppare ulteriore materiale per interrogativi futuri, ha ritenuto opportuno indagare lo spazio politico urbano con l’ausilio delle filosofie di Walter Benjamin e di Jacques Derrida: Benjamin e Derrida offrono la possibilità di concepire una apertura, un “far posto libero”, che in contrapposizione ad una concezione schmittiana del potere sovrano (un potere della decisione) pensa lo spazio libero non come ad un vuoto nulla da occupare con il potere, ma ad un vuoto che “sia piuttosto la condizione di possibilità di pensare la costitutiva e radicale pubblicità di tale spazio” (p. 17).
Da questo approccio la necessità del primo capitolo dove sono esposte le fondamenta della filosofia politica esaminata da Gentili nel corso del suo lavoro. Se non fosse per la profondità dell’analisi fornita, il primo capitolo potrebbe essere confuso per un semplice e banale espositore di concetti. Ciò non è. Gentili con spirito etimologico, genealogico e archeologico ad un tempo, specifica le sfumature intrinseche dei termini urbs e civitas e chiarisce come queste differenze costituiscano, nel loro confronto, una delle opportunità più interessanti per un’analisi delle topografie politiche che egli intende esporre. I lievi cambiamenti di prospettiva rappresentano per tutto il testo un convincente punto fermo di Gentili.
L’accostamento dei due termini, urbs e civitas, porta inevitabilmente al concetto di soglia, un concetto che indica la zona in cui differenti paradigmi entrano in contatto e dialogano fra loro: sulla soglia s’instaura l’agire politico dello spazio urbano, della sua storia e dei suoi abitanti. Proprio nella soglia vengono ad essere percepiti quegli ‘spettri’ che nella loro presenza-assenza (non appartengono allo spazio politico ma lo attraversano da parte a parte) determinano politicamente il tempo “per l’ingresso del revenant, che deve tornare per inquietare chiunque ne voglia prendere il posto” (p. 60). Quello che attende e preannuncia il revenant è un tempo che non serve a rimarcare l’attimo della fondazione dello spazio urbano, ma è un tempo che richiede un continuo rammemoramento di chi ha segnato per la prima volta lo spazio del potere: il padre-fondatore. Nell’inquietudine dell’assenza - il fondatore non c’è più -, nell’atto del varcare la soglia, si può capire la portata politica dell’ingresso dell’ospite straniero nella città. La sua apparizione, poiché è il “fuori-legge” (cfr. p. 68, fuori-legge è colui che può decidere di non entrare in città, è chi decide di rimanere al di fuori della legge cittadina, è chi vive nell’eccezione della legge), può ricordare l’estraneità assoluta del fondatore della città (“I fondatori si sottraggono a ciò che fondano, non trovano patria nella polis e nella civitas, ritornano fuori dal solco che hanno tracciato e lasciano tale solco come loro traccia: nel presente, della loro fondazione resta la dissimmetria dello spazio e l’anacronia del tempo”, p. 64). Nel momento in cui la porta della città è attraversata da chiunque la storia della città stessa è messa in crisi: fondazione mitica e fondazione storica collimano fra loro, il tessuto urbano ostenta la propria in-appartenenza costitutiva, l’assoluta interpretabilità degli spazi che lo formano. Una interpretabilità che può svilupparsi solo dall’analisi del passato e delle sue macerie (cfr. il paragrafo 4 Topografie messianiche, p. 84), in un’analisi benjaminiana: “Lo spazio del nostro presente, della nostra esistenza (Daseins), è abitato dagli spettri (hantée) del passato, posseduto, ossessionato, assillato (hantée) dalle voci dei revenants” (p. 91).
Le porte della città, il loro essere soglia, indicano incessantemente una dinamica di potere e di permeabilità dei confini che Gentili sviluppa ulteriormente nel terzo capitolo, Potere: confini. Il potere e i confini sono indissolubilmente uniti dall’atto di fondazione della urbs, in particolare della fondazione di Roma. In questo frangente Gentili fa suo il diritto-politico di Carl Schmitt e il concetto di sovranità che il giurisprudente tedesco ha saputo creare dalla sua interpretazione della fondazione del nomos (pp. 95-98). Cruciale è il modo in cui la sovranità, l’esercizio del potere, si è di fatto messo in essere. Prima dell’atto fondativo, che discrimina un dentro e un fuori le mura, non esiste una legittimità che permette di tracciare il solco che divide lo spazio urbano da quello non urbano. Solo il prendere possesso con l’uso, l’usurpare, crea un confine temporale, spaziale e giuridico tra ciò che era illegittimo e ciò che è diventato legittimo nel momento in cui si attualizza l’atto del solcare il terreno. Benjamin indica questo usurpare, la sincronia tra la violenza di un atto illegittimo e la fondazione della legittimità urbana, con l’ambiguo termine di Gewalt (il termine significa violenza ed anche “potere legittimo, autorità, forza pubblica”, p. 101). Intensa la pagina (p. 107) in cui Gentili mostra come Benjamin tenga in grande considerazione i confini che la Gewalt, nella sua ambiguità, fissa nell’atto fondativo. Confini che, per la cooperazione di violenza e legittimità, determinano la dialettica dentro/fuori, legittimo e illegittimo, amico e nemico: “in quanto Macht, il diritto non dispone della possibilità di annichilire (vernichten) l’avversario, la sua capacità distruttiva non è totale; il suo potere gli deriva pur sempre dalla definizione del confine, può eventualmente bandire al di fuori dei propri confini, ma, come sappiamo, nemmeno tale eliminazione può essere definitiva: l’avversario può sempre ritornare (revenier) come spettro a inquietare la città” (p. 107). Su quei confini e sul possibile ritorno dello spettro del fondatore si può capire l’impossibilità della civitas di ampliare costantemente i propri confini: qualcosa deve rimanere al di fuori, qualcosa deve essere trattato, proprio per la sua illegittimità, come necessario alla legittimità della civitas stessa. Ancora una volta Gentili mostra come quello che in un primo istante poteva essere pensato come un punto d’arrivo, l’ambiguità del termine Gewalt, possa diventare un ulteriore attimo di instabilità. Per Walter Benjamin la Gewalt è ambivalente perché è fondatrice del potere (Macht) nel momento in cui è violenza, mentre diventa incapacità di fondare nel momento in cui è diritto, il potere costituito: “Soltanto la Gewalt che resta al di fuori del diritto e della sua Macht può essere effettivamente fondatrice; la Macht del diritto non può autofondarsi e, pertanto, se rinuncia o viene meno la Gewalt che ne è a fondamento, ogni istituzione giuridica “decade”” (p. 114). Diverso il pensiero di Derrida. Gentili chiarisce come il filosofo francese sfrutti questa “contaminazione différantielle”, tra Gewalt fondatrice e Gewalt conservatrice, indicandola come essenza stessa del diritto, come necessità del diritto di salvaguardare se stesso: ciò che fonda il diritto, rimanendone al di fuori, è ciò che appartiene al diritto perché senza quella Gewalt non potrebbe difendersi da ogni Gewalt “potenzialmente fondatrice”; scrive Gentili: “La Gewalt è la zona che comprende il fuori e il dentro; il suo è, perciò, uno spazio urbano: lo spazio dell’intérieur, dell’abitare e del risiedere, e, al contempo, lo spazio all’aperto della strada, del bighellonare fuori-casa senza scopo. Lo spazio urbano corrisponde quindi allo spazio della Gewalt, al cui interno c’è il fondamento della legge e il fuori-legge, e comporta pertanto una congenita insofferenza nei confronti della sovranità statuale” (p. 117). L’insofferenza verso la sovranità statuale stimolata dallo spazio urbano, lo spazio della Gewalt, pone il problema di uno spazio in cui l’eccezione determina l’agire politico. Il confronto delle filosofie politiche di Benjamin e Schmitt sono analizzate a fondo da Gentili per chiarire l’importante concetto politico: l’eccezione. Correlato ad esso il concetto di sovrano che Gentili espone nel paragrafo ‘Chi ha l’autorità legittima?’ (p. 135). In una nota (n 89, p. 140) Gentili, supportato da una citazione di Stato d’eccezione di Giorgio Agamben, torna coerentemente su un concetto che aveva introdotto nel primo capitolo: la soglia. È in quello spazio d’ambiguità, “in cui dentro e fuori non si escludono, ma s’indeterminano”, che si possono apprezzare genesi, fondazione e impotenza dello stato democratico. Ed è in quello spazio che Gentili pone la domanda ‘Di chi è lo spazio vuoto dell’autorità?’ (p. 143), in quello spazio si sviluppa la differente ‘genealogia politica’ di Benjamin e Derrida: “per Derrida il vuoto è il senza-luogo e non dà luogo a nessuna costruzione; è il Vuoto e, pertanto, corrisponde al Nulla - o, secondo la teologia negativa, a Dio. Lo spazio vuoto resta, pertanto, il “il principio” di un’archi-tettura ancora metafisica; per Benjamin, invece, è la possibilità stessa dell’anarchi-tettura” (p. 151). E ancora, in quello spazio afferma Gentili “chiunque è legittimato a prendervi posto” (p. 158).
Fatto il punto sul fatto che l’agire politico non si fonda sul nulla, ma su un luogo che è segnato dalle tracce e dalle rovine di chi c’era prima, Gentili passa con il quarto capitolo all’analisi della creazione politica, urbana e urbanistica: “la sua creatività consiste nell’organizzazione dello spazio a partire dalla demolizione dell’uniformità indivisibile di “ciò che è potente” e dall’utilizzazione dei frammenti di potere che ne restano” (p. 161). L’accento posto da Gentili è sulla creatività della politica: la sua possibilità di “destruzione”. Una possibilità che, con parole di Benjamin, si può attuare dove l’arte lasci spazi residui. Gentili introduce il concetto portante del suo lavoro: la soglia kafkiana. Benjamin in una lettura teologica-politica dell’opera kafkiana, lettura che aveva trovato nell’amico Scholem un forte critico a causa dell’accostamento della politica alla teologia, mette in evidenza la dialettica tra ciò che è norma giuridica (nella dottrina ebraica la Halachah) e ciò che è insegnamento della dottrina giuridica (la Aggadah): «Nel 1934, Benjamin pensa che la politica possa intervenire tra apparenza e legge a determinarne il rapporto, come se le apparenze di Kafka “preparino” la dottrina e la legge, come se in Kafka la differenza e, pertanto, il dualismo tra Aggadah e Halachah sia effettivamente mantenuto» (p. 181). Il problema teoretico è situato tra la legge e la sua ‘apparenza’ dottrinale, è un problema di rappresentazione politica, un problema di “estetizzazione della politica” (pp. 202-07). Benjamin si trova ad essere oggetto di critiche da parte di Scholem, che lo accusa di nichilismo compiuto, e da parte di Brecht, che lo accusa di «fare il gioco del totalitarismo». Scrive Gentili per indicare cosa ha visto Benjamin in Kafka e cosa egli ha voluto dire nel suo scritto sullo scrittore: «il mondo di Kafka non è redimibile perché non è la rappresentazione simbolica della realtà, non rimanda a nulla oltre di sé, è una realtà ridotta completamente ad apparenza, in sé totalmente compiuta, che non ha bisogno né del messia né della rivoluzione per salvarsi dalla catastrofe storica del totalitarismo» (p. 207). È un mondo che mette in crisi le categorie del politico.
Nell’ultimo paragrafo, Topografie kafkiane. Dal chiunque a chiunque (p. 207), Gentili torna sul concetto dello spazio di transizione tra esterno ed interno. Torna a discutere dell’ospitalità: «l’organizzazione della macchina artistica di Kafka non fa spazio affinché chiunque venga da fuori possa trovarvi posto, non vige nessuna legge dell’ospitalità […]. L’organizzazione non ha l’eccezione come regola e il pessimismo come unico oggetto, […] ma la disseminazione è spinta a tal punto fino alle sue estreme conseguenze che insieme alle mura crollano anche le porte e, pertanto, chiunque perde la traccia della sua sovranità in uno spazio che non lascia spazio per chi viene da fuori: chiunque diventa chiunque» (pp. 208-09). Quello kafkiano è per Gentili uno spazio che non si fa soglia: non c’è spazio vuoto, non c’è un ospite, non c’è la spettrale legittimazione del potere. Uno spazio che non può essere organizzato politicamente, uno spazio, per questo motivo, veramente creativo.
[1] Una prima versione di questa recensione è uscita
nella rivista elettronica «Recensioni filosofiche» (<www.recensionifilosofiche.it>),
nel n. 49 dell’aprile 2010
(<https://www.recensionifilosofiche.it/crono/2010-04/gentili.htm
>).