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Domenico Felice, Introduzione a Montesquieu

Bologna, Clueb, 2013, pp. 235

Giulia Bezzi [*]

Questa recente monografia prende in esame le principali concezioni avanzate da Montesquieu (1689-1755) non solo nei suoi tre notissimi capolavori, le Lettres persanes (1721), le Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (1734) e l’Esprit des lois (1748), ma anche negli altri suoi innumerevoli – e spesso poco conosciuti – scritti, ponendo in evidenza come i suoi punti di vista e teorie abbiano fornito alcuni dei loro pilastri più solidi tanto alle moderne scienze umane quanto agli Stati di diritto sorti negli ultimi due secoli, il che – a ben vedere – distacca in larga misura il filosofo di La Brède dalle più comuni idee illuministiche, proiettandone il pensiero nel futuro[1].

Domenico Felice, uno dei maggiori specialisti a livello internazionale dell’opera del Président[2], mostra come quest’ultimo venga ad elaborare nel tempo, grazie agli studi e ai viaggi, una raffigurazione dicotomica secondo cui l’Asia risulta condannata alla schiavitù e a un potere dispotico perenni, mentre l’Europa vede il continuo avvicendamento tra epoche contrassegnate dalla barbarie ed epoche contrassegnate dalla civiltà. È nel suo celebre trattato filosofico-politico presentato sotto forma di romanzo epistolare, le Lettres persanes, che per la prima volta l’autore transalpino affronta – con sguardo lucido e realistico – suddetta dualità, rivelando che alla base del proprio pensiero sta la preoccupazione per l’oppressione dell’uomo sull’uomo, una condizione – questa – che egli considera alquanto diffusa sul pianeta (pp. 23-41).

Subito dopo aver pubblicato le Lettres persanes, improntate ad un «catastrofismo nero»[3] che lo soddisfa sempre meno, Montesquieu si dedica ad un’intensa rilettura degli scritti dei suoi amati pensatori stoici, e in questo modo la sua vocazione a smascherare il vizio e a dire la verità a se stessi e agli altri si “complica”: interrogandosi approfonditamente sulla natura umana e sulle cause dell’oppressione, e meditando sulle effettive possibilità che ha il singolo di agire per il bene collettivo, il filosofo bordolese concentra la propria riflessione sulle modalità mediante cui l’individuo può riuscire a proiettarsi al di là di sé, ossia a porsi come fine il genere umano, così da ridurre concretamente la violenza dell’uomo sull’uomo. Nel Traité des devoirs e nel Discours sur l’équité (entrambi composti nel 1725), la morale pratica di Marco Aurelio diventa l’esercizio attraverso il quale esprimere la giustizia che si delinea, secondo l’autore transalpino, come «un rapporto degli uomini fra loro» (p. 47). Felice sottolinea che la concezione della duplicità dell’uomo presente nelle opere montesquieuiane – vale a dire, la tendenza all’esercizio dell’egoismo ovvero della virtù –, assume una fisionomia preminentemente utilitaristica all’interno delle Lettres persanes, mentre a partire dai due scritti appena menzionati è possibile riscontrare una maggiore fiducia nell’inclinazione naturale della virtù umana.

Felice non manca di concentrare l’attenzione anche sui due testi che in maniera più diretta ed esplicita preludono all’Esprit des lois: si tratta delle Considérations sur les Romains e dell’Essai sur les causes qui peuvent affecter les esprits et les caractères, opera – quest’ultima – stesa nel 1734-38 circa e lasciata inconclusa e inedita (pp. 145-152). All’interno di questi importanti scritti, vengono illustrate e messe alla prova sul terreno ermeneutico, per la prima volta in maniera compiuta, le note categorie montesquieuiane di «spirito generale» e di «grandezza e decadenza». L’esprit général peculiare di ogni nazione corrisponde all’identità di ciascun popolo plasmatasi nel tempo e in un certo territorio, e costituita dalla compresenza simultanea di cause tanto fisiche quanto morali. Questo modellarsi nella storia di natura e cultura – esemplificato, nell’Essai sur les causes (Parte prima), dalla bella immagine del ragno nella sua tela – non porta né a una visione implicante il determinismo climatico (il clima è infatti inteso dal filosofo francese come il più potente carattere causale oggettivo), né ad un azzeramento completo delle cause fisiche da parte di quelle morali nell’àmbito dell’esistenza umana, ma palesa ancora una volta la centralità del rapporto dicotomico all’interno del pensiero di Montesquieu. Nell’Esprit des lois, egli avrà poi cura di mostrare come siano le cause morali ad assumere sempre maggiore forza a mano a mano che ci si allontana dalla condizione originaria dell’umanità (pp. 149-152).

Nelle Considérations sur les Romains, opera in cui viene condotta una incisiva e penetrante esplorazione ravvicinata del caso concreto della parabola storica dei Romani, Montesquieu tratteggia la categoria gnoseologico-esplicativa di grandeur et décadence, della quale egli si servirà, nell’Esprit des lois, per dar vita ad un metodo universale d’indagine idoneo alla costruzione di una compiuta e organica scienza delle società[4]. Si evidenzia così la volontà del Président di interrogarsi sui motivi profondi del nascere e perire dei popoli e delle civiltà, il che gli permette di abbozzare non tanto uno schema di progresso indefinito, quanto piuttosto una teoria che reca in seno una visione tragica dell’uomo, dal momento che tutte le sue realizzazioni, compresi i sistemi giuridico-politici, sono destinati un giorno a tramontare. Sennonché, questa finitezza delle choses humaines non conduce alla scomparsa dell’intero genere umano: il declino di certi popoli si accompagna all’ascesa di altri, i quali a loro volta rovineranno a beneficio di altri ancora; per questo, si può legittimamente considerare siffatto sguardo montesquieuiano sulla realtà storica come «evolutivo-involutivo» (pp. 64-79).

Arrivato ad affrontare il cuore del pensiero del filosofo bordolese, Felice mostra come l’opus magnum del 1748 sia il libro nel quale viene presentata una nuova branca del sapere, cioè la scienza universale dei sistemi politico-sociali. Ricordato che l’autore transalpino definisce le lois come «rapporti necessari derivanti dalla natura delle cose» (Esprit des lois, I, 1), Felice – in sintonia con Hannah Arendt[5] – evidenzia l’originalità dell’idea montesquieuiana di legge come non violenza, sottolineando che l’attenzione è da porre in particolar modo sul termine rapports, vale a dire sui legami esistenti tra gli uomini. Il rapporto di giustizia delineato qui come anteriore alla legge positiva (una concezione, peraltro, già prefigurata nella LXXXIII delle Lettres persanes), inevitabilmente conduce il Bordolese lontano dai fondamenti del pensiero antropologico ed etico-politico di Hobbes. Nell’Esprit des lois (I, 2), infatti, lo stato di natura viene fatto coincidere con l’originaria condizione di eguaglianza di tutti gli esseri umani, la cui naturale socievolezza li predisporrebbe a ricercare la pace; in ciò trova giustificazione teorica il tentativo montesquieuiano di concepire un ordinamento politico-costituzionale moderato (o libero) che possa perfezionare le leggi della natura umana attraverso un coerente sistema di controllo e separazione dei poteri, fattore – questo – destinato ad assurgere, com’è noto, a cardine degli Stati di diritto in epoca moderna e contemporanea. La guerra e la pace diventano così valori relativi che “aprono” a un pluralismo sociale, culturale e politico, e che costituiscono – con tutta evidenza – l’antitesi del monismo assolutista che caratterizza la visione di Hobbes (pp. 92-105). Felice sottolinea come questo sguardo montesquieuiano palesi significativi tratti di novità, in quanto la relativizzazione dei valori consente di concepire da un lato una “guerra giusta”, dall’altro una pace sociale che non è annullamento di qualsivoglia contrasto, bensì un’armonia che il Président vede raggiunta, attraverso il conflitto, tra forze ed interessi diversi presenti in seno alle varie società (pp. 105-106).

Perseguendo obiettivi che non appaiono di tipo strettamente giuridico, Montesquieu tenta di capire quali siano le reali forze politiche e sociali che di volta in volta stanno dietro le istituzioni statuali. Di conseguenza, alla nota tripartizione delle forme di governo possibili (repubblica, monarchia e dispotismo, là dove quest’ultimo è ricondotto di preferenza a contesti geografici e culturali extraeuropei, e viene elevato – per la prima volta nella storia del pensiero filosofico-politico – a genere autonomo di ordinamento) il gentiluomo bordolese affianca una bipartizione dei regimi, la quale gli permette di porre l’accento sul quantum di libertà politica – o, specularmente, sull’entità dell’abuso di potere – all’interno di ogni singolo sistema costituzionale. Poiché, a suo avviso, la scala che va da una minore a una maggiore libertà politica coincide di fatto con la sequenza che procede da una più esigua a una meno limitata distribuzione dei poteri (si tratta del potere religioso e di quello civile, e, nell’àmbito di quest’ultimo, dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario), il che delinea una visione gradualistica degli elementi presi in esame, Montesquieu viene a trovarsi nuovamente in netto disaccordo con talune importanti concezioni avanzate da Hobbes. Il filosofo di Malmesbury, nel Leviathan, respinge infatti – com’è noto – ogni possibile ipotesi di separazione dei poteri e quel modello costituzionale “misto” che egli vede come letale anomalia dello Stato; a suo avviso, il sovrano deve piuttosto riunire in sé tanto il potere politico quanto il potere ecclesiastico, diventando così una figura che Felice considera per molti aspetti analoga a quella del prince orientale delineata nelle pagine dell’Esprit des lois (pp. 115-116).

La descrizione del despota come individuo che esercita il potere in modo arbitrario entro i propri territori e tratta i governati alla stregua di meri servi, richiama l’immagine che del monarca corrotto – o tiranno – diversi “classici” del pensiero politico occidentale hanno offerto nel corso dei secoli. Tuttavia, come si poneva in evidenza, l’originale prospettiva di Montesquieu contempla l’autonomia di suddetto regime: egli, infatti, viene a considerare il dispotismo quale genere di governo a sé stante, mentre in precedenza gli autori hanno preferito identificarlo come mera sottospecie della specie monarchia (pp. 107-108, 133-137).

Felice non manca poi di focalizzare l’attenzione su un ulteriore fondamentale elemento innovativo contenuto nelle concezioni del Président: l’indipendenza del potere giudiziario da quello legislativo e da quello esecutivo nei reggimenti moderati. L’autonomia della giustizia, a suo avviso, costituisce il requisito minimo per poter parlare di liberté de la constitution di un ordinamento, il che crea le condizioni perché i cittadini godano concretamente della libertà politica e perché negli organismi statuali esistano un reciproco controllo dei poteri (ma, s’intenda, di poteri che collaborano alla gestione della cosa pubblica) e la possibilità di correggere, attraverso le leggi, ogni eventuale abuso dovesse generarsi nell’esercizio di tali poteri (pp. 112-116, 138-139).

Come mostra bene Felice, la lezione di Montesquieu non si arresta alla nota forma di distribuzione dei poteri istituzionali, ma si riverbera anche nel monito – attuale in ogni epoca – secondo cui «la schiavitù incomincia sempre con il sonno» (Esprit des lois, XIV, 13). Una visione che abbracci ed interpreti comparativamente le società umane può aiutarci a percepire in esse anche il male, cioè la tendenza insita nel genere umano a gravitare verso il basso, vale a dire verso il dispotismo (pp. 152-155).

È sia nella limitazione e nel controllo reciproco dei poteri sia nel continuo interrogarsi, nell’incessante discutere, specie nella dimensione pubblica, che il Bordolese riconosce i migliori strumenti per far godere e seguitare a far godere ai cittadini di quella capacità di agire politicamente, ossia per esercitare con profitto la liberté politique, che impedisce ai governi pluralistici e moderati di precipitare nel baratro rappresentato dai regimi monocratici e oppressivi; si tratta di un insegnamento che non ha perso valore col trascorrere del tempo: anzi, è tornato più volte di tragica attualità dopo la morte del Président, come testimonia – ad esempio – l’avvento dei totalitarismi nel secolo scorso. Anche da questo si comprende come il pensiero di Montesquieu appaia tuttora fecondo e in grado di promuovere riflessioni di vasta e decisiva portata sulla natura del potere, sul concetto di libertà politica, sul ruolo del diritto e dei costumi all’interno delle diverse società umane e sui fondamenti della civiltà europea.

 


 

* Il testo della presente recensione costituisce la seconda versione, accresciuta e perfezionata, dello scritto che è apparso il 4 luglio 2013 in «Montesquieu.it – Biblioteca elettronica su Montesquieu e dintorni», < https://www.montesquieu.it/biblioteca/Testi/Recensione_bezzi.pdf >, pp. 1-4 (paginazione relativa a questo singolo contributo).

[1] Di quest’avviso – come si può constatare specialmente nei suoi libri Montesquieu e la scienza della società, Torino, Ramella, 1953, e Il pensiero politico di Montesquieu, Roma-Bari, Laterza, 1995 – è Sergio Cotta, uno dei più importanti interpreti novecenteschi dell’opera del Bordolese; si tratta di una ferma convinzione che lo studioso italiano ribadisce per tutta la vita, anche nella sua tardissima intervista, dal titolo Leggere Montesquieu, oggi: dialogo con Sergio Cotta, a cura di M. Cotta e D. Felice, pubblicata in appendice a D. Felice (a cura di), Montesquieu e i suoi interpreti, 2 tt., Pisa, Ets, 2005, t. II, pp. 893-905 (riproposta da P. Venturelli, in occasione del primo anniversario della morte del celebre filosofo del diritto e della politica, col titolo Leggere Montesquieu, oggi. Dialogo con Sergio Cotta, in «Araucaria», “Sección digital” - “Entrevistas”,
< https://institucional.us.es/araucaria/entrevistas/entrevista_2.htm >, senza paginazione [on line dal 2 maggio 2008]). Su Cotta lettore del Président, cfr. Th. Casadei - D. Felice, Per una filosofia del limite: Sergio Cotta interprete di Montesquieu, in B. Romano (a cura di), Sergio Cotta (1920-2007). Scritti in memoria, Milano, Giuffrè (collana “Quaderni della «Rivista internazionale di filosofia del diritto»”, n. 7), 2010, pp. 247-275 (si tratta di una versione perfezionata dell’articolo, recante lo stesso titolo, apparso in «Bibliomanie», [2008], n. 14,
< https://bibliomanie.it/filosofia_limite_sergio_cotta_montesquieu_casadei_felice.htm >, senza paginazione [on line dal 10 luglio 2008]; una versione ampliata e migliorata di quest’ultimo contributo era stata tradotta in castigliano da A. Hermosa Andújar: Por una filosofía del límite: Sergio Cotta, intérprete de Montesquieu, «Araucaria», [2009], n. 21, pp. 3-26 [anche in versione elettronica, < https://institucional.us.es/araucaria/nro21/ideas21_1.pdf >]).

Mentre Felice – tanto nella monografia della quale stiamo qui parlando quanto nei testi elencati nella nota 2 – si mostra in sintonia con questa prospettiva ermeneutica di Cotta, vedute in buona parte differenti emergono nel “classico” R. Shackleton, Montesquieu. A Critical Biography, Oxford, Oxford University Press, 1961, ove il Bordolese viene inscritto totalmente nell’àmbito della Weltanschauung illuministica. Intorno a tale lettura degli scritti del Président, cfr. M. Platania, Robert Shackleton e gli studi su Montesquieu: scenari interpretativi tra Settecento e Ottocento, in D. Felice (a cura di), Montesquieu e i suoi interpreti, cit., t. II, pp. 862-897: 885.

[2] Domenico Felice è docente di Storia della Filosofia e di Storia della Filosofia politica all’Università di Bologna. È editor della biblioteca elettronica «Montesquieu.it» (< www.montesquieu.it >) e della rivista omonima. Ha vinto il Prix de l’Académie Montesquieu (1991). Tra le sue pubblicazioni più recenti, si segnalano in particolare: Oppressione e libertà. Filosofia e anatomia del dispotismo nel pensiero di Montesquieu, Pisa, Ets, 2000; Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali. Dispotismo, autonomia della giustizia e carattere delle nazioni nell’«Esprit des lois» di Montesquieu, Firenze, Olschki, 2005; Pour l’histoire de la réception de Montesquieu en Italie (1789-2005), Bologna, Clueb, 2006 (in collaborazione con G. Cristani); Montesquieu. Intelligenza politica per il mondo contemporaneo, Napoli, Liguori, 2012 (in collaborazione con D. Monda); Los orígenes de la ciencia política contemporánea. Despotismo y libertad en el Esprit des lois de Montesquieu, edición de P. Venturelli, traducción de A. Hermosa Andújar, Madrid, Biblioteca Nueva, 2012; Introduzione a Montesquieu, Bologna, Clueb, 2013. Ha curato, fra gli altri, i seguenti volumi collettivi: Dispotismo. Genesi e sviluppi di un concetto filosofico-politico, 2 voll., Napoli, Liguori, 2001-2002 (20042); Montesquieu e i suoi interpreti, cit.; Leggere «Lo spirito delle leggi» di Montesquieu, 2 voll., Milano-Udine, Mimesis, 2010; Governo misto. Ricostruzione di un’idea, Napoli, Liguori, 2011; Lo spirito della politica. Letture di Montesquieu, Milano-Udine, Mimesis, 2011. Di Montesquieu ha tradotto e curato, fra l’altro: Saggio sulle cause che possono agire sugli spiriti e sui caratteri, Pisa, Ets, 2004; Pensieri diversi, Napoli, Liguori, 2010 (selezione da Mes pensées); Breviario del cittadino e dell’uomo di Stato, Pisa, Ets, 2011 (antologia di brani tratti dalle Lettres persanes, dalle Considérations sur les Romains e dall’Esprit des lois). Di Voltaire ha tradotto e curato il Commentario sullo «Spirito delle leggi», Pisa, Ets, 2011. Di P.-L. Moreau de Maupertuis ha tradotto e curato (con P. Venturelli) Elogio di Montesquieu, testo originale francese in appendice, con un saggio di C. Rosso, Napoli, Liguori, 2012. Ha curato (con R. Campi) Voltaire, Dizionario filosofico integrale, in corso di pubblicazione presso la casa editrice milanese Bompiani (collana “Il pensiero occidentale”), cioè la traduzione integrale annotata – con testo originale a fronte – del Dictionnaire philosophique e delle Questions sur l’Encyclopédie. Sta coordinando l’edizione italiana – con testo francese a fronte – delle opere di Montesquieu apparse durante la sua vita, sempre per Bompiani (collana “Il pensiero occidentale”). Ha in cantiere l’edizione degli scritti storici di Voltaire, ancora una volta per Bompiani (collana “Il pensiero occidentale”).

[3] Su questo, cfr. J.-M. Goulemot, Vision du devenir historique et formes de la révolution dans les «Lettres persanes», «Dix-huitième siècle», 21 (1989), pp. 13-22.

[4] In merito a tale categoria e alle sue implicazioni, si veda – in particolare – S. Cotta, Il pensiero politico di Montesquieu, cit., specie pp. 16-20.

[5] Cfr. H. Arendt, On Revolution [1963, 1965], London, Penguin Books, 1990, pp. 150-151 (con l’importante nota 19 alle pp. 302-303) e 188-189 (con relativa nota 18 a p. 313). Circa questa posizione arendtiana, si rimanda a Th. Casadei, Il senso del ‘limite’: Montesquieu nella riflessione di Hannah Arendt, in D. Felice (a cura di), Montesquieu e i suoi interpreti, cit., t. II, pp. 805-838: 814-818.

 

 

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