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Thomas Casadei, Tra ponti e rivoluzioni. Diritti, costituzioni, cittadinanza in Thomas Paine
Torino, Giappichelli, 2012, 325 pp.
Marco Goldoni
La centralità di Thomas Paine per la storia del costituzionalismo moderno è stata spesso trascurata dai costituzionalisti e dagli storici del pensiero giuridico e politico. Eppure Paine ha contribuito in maniera determinante all’introduzione e allo sviluppo di concetti essenziali della modernità come diritti dell’uomo, costituzione, proprietà e cittadinanza.
Il volume di Thomas Casadei opportunamente ricostruisce il pensiero dell’autore di Common Sense proponendone una rilettura originale e per molti aspetti innovativa. Il lavoro è organizzato attorno a tre nodi teorici che attraversano l’opera di Paine: la teoria costituzionale, la concezione della proprietà e il cosmopolitismo. Come si vedrà, si tratta di una formula felice poiché permette all’autore, oltre a restituire i principali punti della filosofia di Paine, di mostrare, in primo luogo, l’evoluzione interna del pensiero di Paine e, in secondo luogo, di evidenziare con chiarezza quale sia la rilevanza della sua opera anche per il dibattito contemporaneo. La ricostruzione tiene conto dell’evoluzione interna del pensiero dell’intellettuale di origine inglese, generalmente poco studiata. Questa premessa metodologica è decisiva e fornisce la leva interpretativa tramite la quale Casadei propone (in maniera convincente) di rivedere le tradizionali presentazioni di Paine come autore liberale o, addirittura, anarco-libertario ante litteram.
Il primo nodo riguarda la teoria costituzionale proposta da Paine. Qui, la riflessione painiana attraversa temi destinati a divenire classici come quello del rapporto fra governo e società, la concezione del corpo politico (illustrata da Casadei mediante un costante parallelismo con l’opera di Burke) e la questione del mutamento costituzionale. Le linee direttrici lungo le quali Paine affronta questi temi sono tracciate da una coppia di tratti distintivi che segnano in maniera nitida quello che si configura come un vero e proprio paradigma costituzionalistico: la costituzione come “grammatica comune” e “regola della politica” (p. 4) e la sovranità dei vivi sui morti, ossia la libertà di autodeterminazione per ciascuna generazione. Il primo porta al centro dell’idea di costituzionalismo l’“autorità dei diritti”: il perimetro dell’agire politico, in altri termini, viene limitato dai diritti dell’uomo e, allo stesso tempo, l’orientamento dell’agire viene determinato dai diritti. Il secondo tratto caratteristico permette di cogliere l’aspetto radicalmente democratico del costituzionalismo di Paine e ne svela lo scopo precipuo: mantenere la politica il più possibile aperta alla sperimentazione e quindi alla possibilità di miglioramento ed accrescimento.
Il secondo nodo teoretico è quello della proprietà. Qui il lavoro di Casadei è prezioso poiché si impegna a sottrarre Paine all’interpretazione liberale restituendo un’immagine dell’autore inglese più complessa. In effetti, pur notando l’influenza degli autori classici del liberalismo (John Locke e Adam Smith), Casadei rileva che una semplice lettura liberale non rende giustizia alla varietà e dinamicità del pensiero di Paine. In un primo tempo, ossia fino alla prima parte di Rights of Man, l’intellettuale inglese rimane molto vicino alla filiera rappresentata da Locke e Smith. Del primo, in particolare, accetta le idee essenziali della priorità logica e cronologica della società rispetto allo Stato e l’idea che la proprietà sia il frutto del proprio lavoro. Da Smith, Paine riprende sia la centralità dell’interesse come motore dell’associazione civile – interesse che emerge dalla sproporzione fra forze e bisogni individuali – e l’idea di simpatia, ossia della capacità degli uomini di immedesimarsi nell’altro. Tuttavia, in un secondo momento, attraverso la sua partecipazione alla Rivoluzione Francese e la frequentazione dell’ambiente girondino, Paine matura una visione più articolata del rapporto fra società e governo. Tale passaggio viene documentato dalla seconda parte dei Rights of Man e da Agrarian Justice (scritto nel 1795). In entrambe le opere diventa visibile quel processo che Casadei riassume con la felice espressione “democratizzare Locke”. Per evitare fraintendimenti, è bene ricordare che Paine non rompe completamente con il liberalismo e i suoi presupposti, ma alla luce dell’esperienza francese diventa chiaro che “se all’uomo spettano dei diritti per natura, compito della società civile e del governo, che devono assecondare e insieme perfezionare i disegni naturali, è quello di porre le condizioni per il loro effettivo godimento” (p. 180). La “semantica dell’interesse” non viene abbandonata, ma non è l’unico filo con il quale si tesse il legame comunitario. Accanto all’interesse emerge, infatti, anche una spontanea “semantica della socialità”. Qui l’influenza di Smith – specie quello di A Theory of Moral Sentiments e delle Lectures on Jurisprudence – è innegabile, ma Paine non si limita a riproporre le tesi del filosofo scozzese. Il suo contributo è originale perché, tramite la semantica della socialità, giunge a concepire la povertà come “questione sociale”. Egli considera la povertà come un fatto collettivo, non naturale. Si tratta di un passaggio-chiave nell’evoluzione del pensiero di Paine. La sovrapposizione della socialità alla dinamica dell’interesse porta a rivalutare la politica e il ruolo delle istituzioni. Società e Stato non sono quindi contrapposte. In una forma di governo democratica e repubblicana si può chiedere allo Stato di essere attivo nell’eliminazione delle distorsioni relative alla distribuzione della ricchezza. In tal senso, la proprietà viene sottoposta ad un processo, al contempo, di limitazione e di diffusione. Nel primo caso, si tratta di limitazione nelle possibilità di accumulazione individuale, nel secondo senso, di diffusione in senso potenzialmente universale (p. 201). La “funzione sociale della proprietà” poggia sul riconoscimento che la ricchezza collettiva e l’appropriazione individuale dipendono entrambe dalla società. La specificità del contributo di Paine “consiste nella giustificazione filosofica e morale della tassazione” (p. 182), ispirata a criteri di giustizia come quello, ben ricostruito da Casadei, dell’espansione dell’eguaglianza. Il fondamento autoritativo per garantire l’eguaglianza sono i diritti e soprattutto quei diritti sociali che per Paine rientrano a pieno titolo a fianco di quelli civili e politici. Sotto questo profilo, Paine considera l’assistenza sociale non come un atto di carità, bensì come un vero e proprio diritto.
Infine, il terzo nodo proposto da Casadei riguarda il cosmopolitismo insito nel pensiero di Paine. A differenza dell’immagine nazionalista che alcuni interpreti hanno cercato di affibbiare al pensatore inglese, il quarto capitolo del libro, a partire dalla centralità della socialità come dato antropologico di fondo, mostra come il costituzionalismo di Paine possa fornire il sostegno per un “repubblicanesimo cosmopolitico”. Questo ideale è debitore del confronto con l’illuminismo e si caratterizza per la ricerca di un certo livello di benessere per tutti i cittadini e per relazioni pacifiche nella dimensione internazionale. In altri termini, Paine propone come base per la repubblica democratica uno Stato attento alla questione sociale per quanto riguarda la dimensione interna ed una prospettiva cooperativa (incentivata dal commercio internazionale) per quanto riguarda la dimensione esterna. Strumenti essenziali per la realizzazione di questo ideale sono l’affermazione dei diritti dell’uomo (la quale dovrebbe subentrare alla mera tolleranza) e l’espansione dell’“arte mite” del commercio a scapito della guerra e dei costi che questa impone agli Stati. Qui, va riconosciuto, l’autore de La Letter to Abbé Raynal (1782) prefigura in maniera sorprendente alcune posizioni tipiche del dibattito contemporaneo a proposito delle relazioni internazionali e, soprattutto, a proposito dell’Unione Europea. In effetti, l’esperienza francese porta Paine a ritenere che l’Europa, al fine di pacificarsi, dovrebbe divenire una federazione e fungere da vettore per l’espansione del commercio a livello internazionale e di aggregazioni federative sovranazionali.
Una attenta lettura della filosofia di Paine, quale quella descritta, illumina la rilevanza di alcune riflessioni per il dibattito contemporaneo. Come opportunamente ricorda Casadei, il pensiero politico di Paine è essenziale per l’ideale di “contestabilità” che si situa al cuore del neo-repubblicanesimo di Philip Pettit e di alcune teorie democratiche che individuano nel conflitto un elemento “progressivo”. In contrasto con una tradizione liberale che individua nel consenso l’origine dell’ordine costituzionale, Paine pone la contestabilità delle decisioni del governo come principio di legittimazione dell’ordine costituito. Si tratta di un’intuizione che lo sottrae, tra l’altro, dall’essere considerato in maniera non problematica un esponente del liberalismo classico. È così possibile vedere in Paine, e assieme a lui nel girondino Condorcet, i padri moderni di un repubblicanesimo “eclettico”, democratico e sociale, ma non per questo meno efficace e stimolante per la teoria politica contemporanea.
Il volume approda dunque ad una precisa ipotesi interpretativa: “leggere il pensiero di Paine come un originale intreccio che, inevitabilmente connesso ad eventi epocali ed entro una complessa evoluzione saldamente radicata in essi, cerca di coniugare istanze tradizionalmente ricondotte a culture politiche diverse dal liberalismo […], al repubblicanesimo […], fino al socialismo” (pp. 255-256). La presenza nell’opera di un singolo autore di alcune linee di sovrapposizione fra varie culture politiche della modernità complica la ricostruzione schematica del suo pensiero e lascia intravedere pure potenziali contraddizioni. Casadei si pone il problema della difficile coabitazione di temi e filosofie diversi fra loro, ma ritrova nel metodo democratico e sperimentale quella che Paine ritiene essere la chiave di volta per mantenere assieme istanze così complesse e a volte in profonda tensione fra loro. Prende pertanto forma un vero e proprio “costituzionalismo progressivo” – basato sul presupposto, non inconcusso, del progresso civile, come indicava uno spirito del tempo in cui pareva possibile “far ricominciare il mondo daccapo”, tale era la forza affidata al cambiamento politico – la cui apertura, in termini di perfezionamento e di libertà di autodeterminazione lasciata alle future generazioni, permette di tenere assieme l’autorità dei diritti, la socialità, la dimensione popolare del repubblicanesimo.
Per queste ragioni, ad un altro possibile livello di lettura, Paine risulta riferimento essenziale per una serie di questioni tuttora fortemente dibattute. La sua idea di “tempo costituzionale” permette ancora oggi di fornire una chiave di accesso al tema irrisolto delle tensioni fra costituzione scritta e rigida, da un lato, e politica democratica, dall’altro. Un altro ambito entro il quale le riflessioni di Paine giocano un ruolo importante e influente riguarda il dibattito sul “reddito minimo garantito” (o “reddito di cittadinanza”) e le sue varie declinazioni. Autori come Philippe Van Parijs e Bruce Ackerman riconoscono in Paine la fonte originaria delle loro proposte di riforma della cittadinanza, così come l’ideale painiano di una “democrazia di proprietari” ha ispirato e ispira diverse proposte di riforma di ispirazione liberalsocialista. Infine, la teoria e la prassi politica di Paine possono fornire, per così dire, la “grammatica” per uno sperimentalismo democratico che arricchisca istituzioni nazionali e transnazionali minacciate da una grave crisi di legittimità. Per queste ragioni, l’opera di Paine merita di essere considerata un classico ancora oggi vitale.