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Simone Pollo, La morale della natura

Laterza, Roma-Bari, 2008, pp. 169, € 12,00

Corrado Del Bò | Università di Milano

 

Qualche anno fa un noto filosofo del diritto italiano, Danilo Zolo, pubblicò un libro il cui titolo riproduceva parte di un adagio proudhoniano, poi ripreso da Carl Schmitt, in base al quale “chi dice umanità cerca di ingannarti”. Il libro di Zolo verteva sulla guerra “umanitaria” che nel 1999 diciannove Paesi della Nato, tra cui l’Italia, scatenarono contro la Repubblica federale di Jugoslavia. Sganciare bombe sulla testa delle persone mi pare un problema ben più serio delle sciocchezze che affollano oggi buona parte del dibattito pubblico italiano sulle questioni etiche controverse, ma riprendere quell’adagio, sostituendo “natura” ad “umanità”, credo possa fissare icasticamente un punto importante: il ricorso alla natura nell’argomentazione morale finisce con l’essere un modo per ingannare gli altri e forse anche se stessi.

Il libro di Simone Pollo, uscito per i tipi Laterza nella benemerita collana Biblioteca essenziale, è una lodevole battaglia filosofica contro questo inganno. Si tratta di un libro che mi sento di definire illuminista: Pollo utilizza infatti il fioretto delle argomentazioni senza impugnare mai la sciabola della retorica, secondo uno stile di pensiero che porta avanti idee forti col rigore che si richiede all’impresa filosofica. Ed è illuminista anche la speranza, non esplicitata ma indubbiamente presente sotto traccia nel testo, che libri di filosofia ben fatti possano migliorare il dibattito pubblico, e non solo arricchire i dialoghi tra specialisti.

L’incipit del libro è, da questo punto di vista, significativo. “Cos’hanno in comune il parlamentare conservatore che si oppone all’allargamento dell’istituzione del matrimonio alle coppie non eterosessuali, il militante no global che contesta la diffusione degli organismi geneticamente modificati e il gay che difende la legittimità del suo orientamento sessuale? Con tutta probabilità tutti e tre argomentano la bontà delle loro scelte facendo ricorso a una qualche nozione di «natura»” (p. 3). Non si può negare che l’autore vada subito dritto al cuore di tre questioni che risultano ciclicamente molto discusse nel dibattito pubblico italiano; e ci va prendendo di petto un uso (ma sarebbe meglio dire un abuso) di un concetto, quello appunto di natura, che evoca qualcosa di buono o di giusto, o tutte e due le cose assieme; che si parli di famiglia (la società naturale fondata sul matrimonio, come recita la non felicissima formulazione del dettato costituzionale), di yogurt (che deve essere naturale, meglio se biologico) o di sesso (come non ricordare il purtroppo intramontabile anatema sui “rapporti contro natura”?).

Pollo su queste tre questioni, lo si capisce abbastanza bene tra le righe del suo lavoro, ha solide convinzioni e sono certo che saprebbe ben argomentarle se scrivesse un libro su ciascuna di esse. In questo suo lavoro egli però conduce, come si osservava in precedenza, un’operazione diversa, cioè indagare coerenza e plausibilità delle giustificazioni morali fondate sull’utilizzo dell’idea di natura a sostegno di (o contro) queste e altre scelte, pubbliche e private. La proibizione del matrimonio omosessuale, il bando dei prodotti geneticamente modificati e la difesa del proprio orientamento sessuale (o la critica di quello altrui) vengono infatti spesso giustificate sfruttando la nozione di natura; per Pollo questo è un errore, in quanto il ricorso alla nozione di natura nell’argomentazione morale è (quasi) sempre sbagliato. Procediamo però con ordine, capitolo per capitolo (sono otto, più un epilogo; e c’è anche un’utile lista di letture ulteriori).

Il primo capitolo è sostanzialmente introduttivo e descrive senso e piano dell’opera. La “ciccia” comincia col secondo, con l’autore che discute la tesi secondo cui vivere secondo natura determinerebbe l’irrilevanza della morale. Ritorna in proposito il mito del “buon selvaggio”, di rousseauviana memoria, un mito di cui sembra arduo riuscire a sbarazzarsi, poiché eterno sembra il conflitto tra natura e cultura (i buonselvaggisti ovviamente parteggiano per la prima), o, se vogliamo rispettare le salde convinzioni humiane di Pollo, tra natura e artificio. Non è naturalmente obiettivo del libro affrontare un problema di così ampia portata; ci si può accontentare, ed è questo quello che fa Pollo, di smontare le tesi che fanno della civiltà la causa di tutti i mali e di sollevare fondati dubbi sul fatto che la vita selvaggia non sia anch’essa una costruzione culturale.

L’analisi del mito del buon selvaggio offre a Pollo l’occasione di chiarire la natura della domanda “perché la vita selvaggia è un bene?”. Giungiamo così al terzo capitolo, dove l’autore ha buon gioco a dimostrare che la domanda di cui sopra è in realtà una richiesta di giustificazione. Questo ci dice qualcosa di importante sul senso dell’impresa filosofica quando si interroga su questioni morali; nelle parole di Pollo, “le argomentazioni morali sono modi di elaborare giustificazioni in etica. A questa affermazione non fanno eccezione neppure gli appelli alla natura” (p. 29). Ora, come ogni buon filosofo morale sa, le argomentazioni non possono fare a meno di un’adeguata descrizione di come le cose stanno; tale descrizione, in questo caso, è data da una corretta analisi del concetto di natura, del quale sono possibili diverse accezioni. Pollo segue qui Peter Coates, dal quale riprende cinque possibili interpretazioni della nozione: come fenomeno collettivo, come luogo fisico, come una qualità del mondo, come l’opposto concettuale della cultura, come guida e fonte di autorità per gli esseri umani. Sono queste ultime tre accezioni che risultano pertinenti per l’analisi di Pollo e che, prese assieme, creano la dimensione normativa della natura: la natura è reale, oggettiva, autentica e universale, dunque è autorevole. Lasciamo per il momento da parte l’inferenza sul piano concettuale e prendiamone atto come fenomeno, oserei dire, antropologico-sociale: le persone attribuiscono valore alla “naturalità” e vedono ogni deviazione dal paradigma un errore morale, che va evitato per sé e, secondo “naturalisti” poco o punto liberali, addirittura impedito agli altri. La natura possiede infatti i tratti della stabilità e della non mutevolezza che la rendono una carta vincente nelle querelle morali, se querelle morali poco accorte ovviamente.

Ma se le intuizioni sono dalla parte della natura (rectius di certe interpretazioni della natura), non è detto che lo sia l’argomentazione razionale, e anzi i tre capitoli che seguono mostrano nel dettaglio l’implausibilità dell’inferenza menzionata sopra e le falle dei tre argomenti “naturalistici” che vanno per la maggiore: la natura come normalità, la natura come ordine saggio, la natura come legge naturale. Cominciamo con l’idea della natura come normalità. La critica di Pollo inizia qui a farsi affilata. Era “normale” sino a non molti anni fa morire di malattie oggi facilmente curabili: dobbiamo crucciarcene? Difficile rispondere affermativamente. Ma allora dobbiamo selezionare la normalità “buona” dalla normalità “cattiva”, il che significa in definitiva selezionare alcuni “fatti naturali” che hanno più rilievo di altri per la riflessione morale. Se però imbocchiamo questa strada, le cose si complicano, anche perché si finisce col tirare in ballo il rapporto tra fatti e valori, che in filosofia morale, come è noto, è un punto molto tormentato. Anche senza voler prendere posizione sulla questione metaetica di fondo, non possiamo cavarcela con qualche vago accenno alla natura come qualcosa di intrinsecamente buono: sul piano più squisitamente teoretico per via del noto argomento mooriano dell’open-question, sul piano più strettamente epistemico in ragione dell’esigenza, difficilmente contestabile quando si fa “scienza”, che si deve dare un qualche riscontro empirico di ciò che si afferma.

Veniamo alla seconda idea, quella della natura come ordine saggio (contrapposto all’umanità come massa di stolti) e dunque al quinto capitolo. Le biotecnologie costituiscono un buon banco di prova per questa idea: nulla sembra più artificiale che manipolare il patrimonio genetico di piante o animali, umani e non. Analisi spassionate mostrano però, secondo Pollo, che buona parte delle nostre paure sono infondate e che i doveri di prudenza non devono obnubilare completamente le nostre menti quando ci interroghiamo sui nostri poteri di intervento sul mondo; tanto meno sembrano vie molto promettenti quella che individua un finalismo nel mondo (le teorie sull’intelligent design, per esempio) o quella che rinuncia al finalismo, ma attribuisce alla natura la “capacità” di fare scelte ottimali (“«lasciar fare alla natura» non è una garanzia”, chiosa Pollo a p. 73, al termine di un serrato ragionamento).

Passiamo alla terza idea, quella della legge naturale, che Pollo (nel sesto capitolo) analizza nella variante fatta propria e rilanciata dalla dottrina della Chiesa cattolica. Su questo punto è bene essere chiari. Pollo non prende posizione sulla teoria della legge naturale in generale; benché non sia difficile scorgere come l’autore la pensi al riguardo, egli non intende mettere in gioco la questione se una teoria che pretenda di ricavare diritti e obblighi da come gli individui sono fatti, ma la teoria più specifica per cui questi diritti e questi obblighi discendono da come gli individui sono fatti secondo la dottrina della Chiesa cattolica. Si tratta di una scelta metodologica che all’autore appare necessaria in quanto nel dibattito pubblico quella della Chiesa cattolica “è oggi la versione più diffusa e influente dell’idea della legge naturale” (p. 76). Mi sembra questo il capitolo più illuminista, per lo meno nelle intenzioni, di un libro che ho già spiegato perché mi paia illuminista. Non nego che ad alcuni, non senza una qualche ragione, potrà apparire un capitolo militante, ma va riconosciuto che Pollo non va à la guerre come à la guerre, bensì argomenta scrupolosamente perché la versione di legge naturale propugnata dalla Chiesa cattolica sia inadeguata se utilizzata per spiegare la natura umana in maniera soddisfacente: in breve, troppe le ipotesi metafisiche e troppo poche le evidenze empiriche che la possono confortare.

Dall’analisi della legge naturale Pollo passa nel settimo capitolo ad approfondire la nozione di natura umana. Infatti, se è vero che la versione offerta dalla Chiesa cattolica è inadeguata e non migliori appaiono a Pollo le teorie della natura umana di Kant e Rawls (ma Rawls, a mio parere, valga come inciso, viene obiettivamente liquidato un po’ troppo alla svelta), il problema che viene sollevato è rilevante assai per la riflessione morale: per l’argomentazione morale conta, e se sì, in che misura, come siamo fatti? Fino a che punto dobbiamo spingere quella che oggi è nota come “naturalizzazione dell’etica”? La risposta di Pollo è decisamente anti-riduzionista, potendosi distinguere tra le spiegazioni biologiche della morale e le giustificazioni morali dei comportamenti delle persone, per semplificare tra genealogia della morale, o meglio della moralità, e giustificazione delle scelte morali. Prendiamo il darwinismo, che, a dispetto dei suoi molti detrattori e delle sue applicazioni inappropriate, continua a essere una teoria confortata dalle evidenze empiriche e dunque vera. La verità del darwinismo determina la fine della morale come l’abbiamo intesa per molti e molti secoli? No, risponde Pollo. “Anche ammesso che si possa stabilire con esattezza quali forme di condotta promuovano più efficacemente la sopravvivenza (questione empirica non indifferente), rimane aperta la domanda sul perché dovremmo farlo. Considerando i nudi fatti , «ciò che è adatto alla sopravvivenza» ha esattamente lo stesso valore morale di «ciò che non è adatto alla sopravvivenza», vale a dire nessuno” (p. 104).

Il percorso non sarebbe completo se non si prendesse in considerazione quella branca di studi, nota come “neuroetica”, che affronta le questioni morali alla luce degli sviluppi delle neuroscienze e dei suoi metodi di indagine, che riescono, per esempio, a “fotografare” gli stati neuronali in occasione di scelte morali difficili. Anche in questo caso – siamo nel frattempo giunti all’ottavo capitolo – la tentazione del riduzionismo è forte, se è vero che questi studi confermano la base biologica della morale. Pollo non elude il punto né schiva la questione di fondo sui rapporti tra la nostra vita morale e la biologia. La sua risposta è anche in questo caso largamente condivisibile, tenendo essa assieme la rilevanza delle conquiste della scienza e una prospettiva anti-riduzionista sulla morale. Per usare le parole dell’autore, “la visione darwiniana del mondo non ci può dire cosa è moralmente buono o giusto, ma può influenzare complessivamente la nostra visione di cosa significa porsi la domanda sul bene e sul giusto. Il naturalismo sottrae la risposta ai fantasmi di improbabili divinità e la affida ad ogni singolo essere umano e alla storia evolutiva della sua specie” (p. 120).

Giungiamo così all’Epilogo del libro, dove Pollo indaga la questione che forse gli sta più a cuore (o che forse sta più a cuore a me e che mi piace pensare sia lo stesso per lui), vale a dire quello che significativamente egli chiama “l’uso pubblico della natura” (p. 123). Cosa succede nell’arena pubblica oggi, per dirla in due parole? Che le persone non si limitano a fare ricorso alla natura per sostenere certi modi di condurre la propria vita e fuggirne altri, ma si spingono anche a utilizzare argomentazioni che contengono uno o più riferimenti alla natura per invocare la produzione di norme che siano vincolanti per tutti (in special modo per gli altri, suggerirei in maniera un po’ perfida: armiamoci e partite sembra davvero un tratto nazionale). Quel che si diceva all’inizio: no ai matrimoni che non siano tra eterosessuali, no agli Ogm, no ai rapporti omosessuali; e il braccio (morbido o violento) della legge a sostenere questi no. La natura come criterio di decisione pubblica è per Pollo un’idea poco felice per le società liberali e democratiche, essenzialmente per due ragioni: la prima è che vivere in società liberali e democratiche significa mantenere salda la distinzione tra danni e offese; la seconda è che nelle società suddette pretendere che i fatti su cui si basano le decisioni pubbliche (per esempio, una particolare scelta legislativa) siano pubblicamente disponibili. I matrimoni gay, per prendere l’esempio che usa Pollo, possono costituire un’offesa per chi crede che violino una certa concezione di natura umana e in ultima analisi alcuni precetti religiosi, ma, fino a prova contraria, non danneggiano nessuno; allo stesso tempo, potrebbe anche essere, secondo una certa teoria della natura umana, che l’unione tra membri dello stesso sesso sia “contro natura”, ma si tratta di una tesi che alla prova dei fatti non regge. Anzi, nel caso proprio dell’omosessualità, un approccio naturalizzato consente di rimuovere alcuni pregiudizi circa la devianza di certe pratiche sessuali, dal momento che comportamenti omosessuali sono molto diffusi in natura, in diverse specie animali, e dunque soltanto distorcendo il concetto di natura se ne può affermare la “anormalità”.

Si potrebbe certamente qui obiettare che l’esempio scelto da Pollo per testare il rapporto tra idea di natura ed etica pubblica è un esempio “facile”: infatti, se è agevole operare la distinzione tra offese e danni nel caso del matrimonio gay, la differenza salta per la disciplina degli Ogm, dove appunto il succo del disaccordo consiste in una diversa opinione tra i contendenti circa l’esistenza di rischi legati alle biotecnologie e dunque di danni più o meno eventuali che una loro introduzione comporterebbe per gli esseri umani e per il pianeta. Forse su questo punto, in un capitolo dedicato all’uso pubblico della ragione, Pollo avrebbe potuto insistere di più, separando con più vigore quel che andava separato. D’altra parte è anche vero che buona parte delle contestazioni contro gli Ogm fondate sulla natura possono ottenere una replica dal suo secondo argomento, quello sulla pubblicità e sulla verificabilità delle ragioni, e dunque probabilmente diventa un eccesso di zelo insistere sulla scelta compiuta dall’autore.

Concludo. Pollo in definitiva non si dimostra molto simpatetico con l’idea di far dipendere i diritti dalla natura, seppur correttamente intesa; a suo giudizio, è scorretto giustificare, per esempio, il matrimonio omosessuale sulla base di dato empirico relativo alla “normalità”, dunque alla “naturalità” dei comportamenti omosessuali. Qui esce davvero l’animo humiano dell’autore: “ciò che è meritevole di protezione e tutela sono gli interessi e le scelte degli individui. Il fatto che questi siano in accordo o in contrasto con la natura non è rilevante per una società liberale e bene ordinata” (p. 132). Non è dunque, per giocare un po’ con le parole, la natura che fonda i diritti, ma sono i diritti a dar leggi alla natura. Non sono sicuro che a Pollo piacerà fino in fondo questa chiusa che contiene assonanze kantiane, ma sono certo che, da buon humiano quale è, si dimostrerà persona sufficiente tollerante per perdonarla a un recensore benevolente.

 

 

ISSN 0327-7763  |  2014 Araucaria. Revista Iberoamericana de Filosofía, Política y Humanidades  |  Contactar